Una storia di intersezioni:
questo è Il giorno rubato. In primo
luogo a intersecarsi sono i principali registri narrativi: realistico,
fantascientifico, fantastico puro. Sebbene in nessun modo il romanzo possa
essere fatto rientrare nella letteratura realistica, tuttavia il linguaggio di
De Franchi e il suo modo di raccontare hanno un forte sapore realistico che per
molti versi amplifica l’effetto delle vicende narrate sul lettore e imprime
alla narrazione una corposa tridimensionalità emotiva. L’irruzione dello
stupefacente, del soprannaturale e dell’inimmaginabile risultano ancora più
stranianti nell’economia di una storia che l’autore pare spesso narrare come se
dovesse ricondurla, anche a forza, entro i confini della ragione. Una
dissonanza ricercata, sicuramente, per sollecitare continuamente il lettore; e
puntualmente trovata. Se il romanzo va ascritto sicuramente più al fantastico
puro che ad altro, non è meno vero che anche un purista della fantascienza può
rubricarlo tra la fantascienza più ibridata, una fantascienza lovecraftiana
principalmente, e tra quegli universi narrativi, ibridi appunto, che rimandano
a Lord Dunsany o ad Arthur Machen. Fantascientifico, del resto, è anche il “gadget”
al centro del libro – o meglio il punto di partenza della vicenda, il fenomeno
che ritorna ossessivamente e che ossessivamente arriva a permeare l’esistenza
di Valerio Malerba, il protagonista del romanzo, e degli altri personaggi
principali. Il giorno rubato, appunto. Quel 13 marzo del 2007 che risulta
scomparso dalla sequenza temporale degli eventi. Nessuno (o quasi, come si
vedrà) ha memoria della giornata; niente è accaduto e registrato quel giorno;
non esistono giornali del 13 marzo 2007, pagine di internet, eventi di cui vi
sia traccia. Nulla di nulla. Si scoprirà poi che quel 13 marzo è ben lungi
dall’essere il solo giorno della storia umana scomparso a quel modo. Un assunto
dickiano: come ricca di suggestioni dickiane è la trama più genuinamente
fantascientifica del romanzo, e un sapore dickiano ha anche la conclusione del
libro, forse meno aperta di quanto sembri a prima vista. Dickiano è anche il
frequente intersecarsi dei piani spaziali e temporali, lo sfibrarsi e
sfilacciarsi del tessuto della realtà. Realtà che spesso si confonde in una
sequenza di eventi illogici, o meglio governati da una logica che appare altra.
Una fortissima eco fantascientifica proviene senza dubbio da un romanzo oggi
probabilmente dimenticato dai più, ma che resta tra le opere migliori della
fantascienza degli anni ’30, oltre che uno splendido esempio di ibrido
perfettamente riuscito – in questo caso tra un registro stilistico dalle
profonde venature orrorifiche e una solida vicenda di fantascienza; una
commistione che il romanzo di De Franchi fa virare con convinzione più verso il
lato dell’orrore: un orrore metafisico e ancestrale, nato in territori oltre la
ragione e la natura conoscibile e originatosi nei tempi nei quali andava
plasmandosi la simbologia archetipica dell’umanità. Il romanzo in questione è Schiavi degli Invisibili (Sinister Barrier) di Eric Frank Russell,
del 1939. Ne si rinviene la tramatura nell’esplicito richiamo che De Franchi fa
a Charles Fort, principale fonte di ispirazione del romanzo russelliano; e ne
si osserva l’altrettanto esplicito richiamo dato dalle analogie che possono
ravvisarsi tra i Vitoni dell’autore
britannico e i Cancellatori dell’italiano.
La ricerca delle fonti e, ancor di più,
la ricostruzione della genealogia letteraria di un’opera naturalmente non ha
alcun senso in sé, se non un’utilità merceologica per i commessi delle librerie
al fine di compiere quello sfregio che è la ripartizione bovinamente eseguita
per generi sugli scaffali. Ha invece senso nel tentativo di risalire le
correnti letterarie, emotive, artistiche, psicologiche che portano alla
scrittura dell’opera. Ha senso nel circostanziare la lettura e
l’interpretazione dell’opera. Il reciproco relazionarsi dei registri narrativi,
l’intersezione e la compresenza di horror, fantascienza e territori di un
fantastico più libero, è reso esplicito dall’autore stesso. A pagina 182,
attraverso le considerazioni che il suo protagonista fa su quelli che nel libro
sono definiti Cancellatori oppure Mater Matuta, dà in un certo senso
un’interpretazione autentica della cosa: Però,
energie o creature divine che siano, pare che anche “loro” debbano rispettare
una qualche legge fisica: non forse della fisica che noi conosciamo, ma certamente
di una natura che ha regole e confini. Almeno io lo spero.
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La più recente edizione del capolavoro di Eric Frank Russell |
Ne Il giorno rubato osserviamo perciò l’intersecarsi delle due
polarità narrative e psicologiche del razionale e del fantastico, e l’irruzione
di quella polarità che di suo è già un punto di intersezione tra la ragione e
l’immaginazione: il mito. Pullula di archetipi mitici il racconto di De
Franchi. Alcuni più espliciti: la Mater Matuta che si incontra in tutto il
romanzo, con contorni mai completamenti definiti e continuamente sovrapposti con
quelli di altri, anche di moderna matrice letteraria come i Grandi Antichi
lovecraftiani; la realtà frutto del gioco crudele di divinità o entità crudeli
e malevole, o semplicemente beffarde e insensibili, gli infiniti dei o demoni
burloni; l’eterno tema del doppio, della copia malevola di noi stessi, uno
degli strumenti psicologici che da sempre l’uomo utilizza per esternalizzare il
male, deresponsabilizzarsi attraverso l’individuazione di un soggetto altro da
sé come agente del male che egli fa, e dare sfogo al sostrato paranoico della
mente: qui lo troviamo nel continuo e ansiogeno manifestarsi di ambigue e
spesso indecifrabili copie dei personaggi del libro. Altri archetipi appaiono
meno evidenti, o meglio meno posti in evidenza dall’autore. Principalmente il
ciclo nascita-morte-rinascita di cui tutto il romanzo pare comporre
un’allegoria. La Roma moderna che fa da sfondo principale a Il giorno rubato, e a cui a volte la
penna di De Franchi consente di sottrarre la scena al racconto, è una città dove si intersecano –
ancora – tutti i suoi piani storici, protostorici e preistorici. È una città la
cui moderna apparenza cela il persistere di culti millenari reminiscenti delle
radici preistoriche e reali di entità che paiono vivere e operare in intersezioni
tra vari piani di realtà, tra vari piani spaziali e temporali. Mater Matuta, il nome dell’antica
divinità romana, una delle innumerevoli incarnazioni della Grande Madre, è quello
che identifica il complesso di tali entità, forse forme di energia che dalla
notte dei tempi governano l’umanità come una loro mandria; un nome buono come
un altro, afferma uno dei personaggi nel parlarne con Valerio Malerba. Eppure
forse non è un nome come un altro.
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Il romanzo è il secondo volume della collana Fantastico Italiano |
Né il mitologema della Grande
Madre – la Dea - né lo specifico mito di Mater Matuta paiono scelti a caso. La
Dea non è, o quanto meno non è soltanto, una divinità benevola. La Dea
rappresenta il femminile - la natura - in tutte le sue declinazioni: è
generatrice, ma anche distruttrice; incuba la vita e la dà alla luce, ma divora
anche, come paiono letteralmente fare i Cancellatori del romanzo. Lasciando
stare la sua tarda identificazione con la greca Leucotea, Mater Matuta è una
divinità dell’aurora – dunque della nascita – e in seguito del parto, nascita e
rinascita della vita. Ma tra i suoi attributi, oltre la colomba, simbolo di
inizio, vi è anche il melograno, l’ultimo frutto a maturare, annuncio del
letargo/morte invernale ma ricco di semi: simbolo di morte e rinascita. Il
ciclo continuo della vita naturale: nascita, morte e rinascita attraverso il
seme.
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Splendida statua della Mater Matuta, VI secolo a.C. |
L’intera vicenda vissuta da
Valerio assume le sembianze di un viaggio iniziatico e di conoscenza, ma anche
di un ciclo vitale che si ripete. A cerchi concentrici. E con Valerio –
attraverso Valerio – è tutta l’umanità ad affrontare il viaggio e il ciclo.
All’inizio del libro Valerio “nasce” e contemporaneamente “muore” e “rinasce”. “Muore”
in un piano di consapevolezza per “rinascere” in un altro, a partire dalla
prima “morte”, che in perfetta contraddizione con il principio di causa/effetto
precede la prima “nascita”. Quasi muore, Valerio, per un infarto, vero o
presunto che sia; e rinasce a una nuova serie di eventi, una nuova realtà. Nasce,
muore e rinasce continuamente la sequenza temporale, l’esistenza umana, ogni
volta che Mater Matuta interviene a operare una di quelle sospensioni temporali
durante le quali le leggi fisiche note all’uomo sono sospese, per motivi che
restano ignoti: quegli innumerevoli giorni rubati.
Poi interviene qualcosa a
spezzare la continuità continuamente fratta del ciclo; o forse a creare una
discontinuità maggiore e instaurare una ciclicità fondata su nuove basi, quanto
meno libera dalla predazione parassitaria di Mater Matuta. L’evento nucleare,
che simbolicamente avviene in concomitanza con l’ultima “morte/rinascita” di
Valerio, è l’inatteso accadimento che spariglia il misterioso ordine delle cose
imposto da Mater Matuta. Le energie sono potenti, ma appunto non onnipotenti.
Né onniscienti. Non si aspettano che gli uomini, nella loro follia, diano
inizio a una guerra globale che certamente farà precipitare i sopravvissuti
eventuali in un inverno nucleare. L’inatteso evento lascia attonita Mater
Matuta e in qualche modo impedisce il compimento del previsto ed ennesimo
spasmo temporale, l’ennesima ripartenza dopo la fine. L’umanità,
inconsapevolmente, si è liberata della catena dei Cancellatori/Mater Matuta
spezzando violentemente uno degli anelli. A quale prezzo non è dato saperlo.
L’evento nucleare è una morte, ma per coloro che in qualche modo sopravvivranno
sarà una rinascita. E sarà la nascita di un nuovo ordine, di un nuovo rapporto
con la natura. Forse l’instaurarsi di una nuova ciclicità su nuove basi, forse
la perpetuazione di un ciclo maggiore composto di cicli minori come quello
appena interrotto.
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Venere di Willendorf, XXII millennio a.C., forse raffigura una proto Grande Madre |
Tale materiale, questa ricca
congerie di suggestioni e rimandi, classici, letterari, mitici, sarebbe solo un
magma, confuso benché affascinante, se non vi fosse a dare forma compiuta al
tutto la scrittura di De Franchi. Il ritmo incalzante della vicenda, che spesso
si fa a tal punto frenetico da lasciare il lettore disorientato, quasi senza
fiato. La sua capacità di trascinare dentro la storia narrata, di far
appassionare al destino dei suoi protagonisti, individui del tutto comuni e
anonimi, in fondo; ma che proprio per questo si avvicinano alla nostra
sensibilità fino a toccarci: potrebbero essere i nostri cari; potremmo essere
noi stessi. C’è l’indubbio mestiere descrittivo di De Franchi, che si dispiega
sia nell’uso di un linguaggio che sa suscitare al momento giusto il
raccapriccio, l’orrore, l’empatia, lo stupore; sia nell’abilità di traslare con
apparente facilità gli scenari urbani e agresti da una dimensione banalmente
quotidiana all’orrore dell’ignoto. Un mestiere solido e consapevole, la
ricchezza inventiva del narratore vero unita alla disciplina di uno scrittore
serio. C’è un’anima dietro questa storia, qualcuno non interessato a stupire
tanto per, ma intenzionato a suscitare un coinvolgimento non epidermico nel
lettore, a lasciargli l’impressione di aver effettuato un viaggio nei territori
dove nasce l’immaginario. E che ci riesce, per di più con un libro che,
dall’inizio alla fine, può essere letto anche solo come una pura avventura,
come una lettura puramente e pienamente divertente.
Confesso che prima de Il giorno rubato non conoscevo Marco De
Franchi; scopro che ha una lunga carriera alle sue spalle (e spero molto più
lunga davanti a sé); una carriera frastagliata, interrotta e poi ripresa, e che
solo con questo romanzo viene a riaccostarsi a quei territori del fantastico
nei quali aveva inizialmente pascolato. Spero siano i territori nei quali
resterà acquartierato.