Allontaniamoci da Omelas

lunedì 22 ottobre 2018

Roberto Bolaño - Lo Spirito della Fantascienza

Il primo approccio con Bolaño è spiazzante, ma non meno affascinante: la sua scrittura pare disperdersi in derive narrative ramificate, in ogni dove; pare smarrirsi in variegate suggestioni affabulatorie, nella ricerca di arabeschi stilistici e bizzarrie umane, letterarie e urbane; pare distrarsi nella costruzione di personaggi strani, improbabili, fuori o ai margini della società reale. Tuttavia non è così – non è completamente così: nel pieno di una lunga tirata tra il visionario e l’assurdo Bolaño può incuneare all'improvviso una raffica di considerazioni che fotografano con disillusa, feroce precisione il nostro mondo e l’umanità che lo popola: il surreale, l’improbabile, il visionario di Bolaño sono lo specchio, o ancora meglio la chiave interpretativa del reale. Un reale certo lontano dalla prosa realistica, dal quotidiano della cronaca: un reale che si sfalda di senso e di struttura, il reale di vite che si fanno narrazione e invenzione letteraria. Un reale dickiano: pur citato solo di sfuggita, Philip Dick aleggia sulle pagine del romanzo: un aleggiare nascosto, sotteso: un aleggiare di senso. Dick più dei molti altri grandi scrittori americani di fantascienza ai quali Bolaño si rivolge “direttamente” è modello di un comune sentire la realtà e la narrativa: oltre l’apparenza. 
Roberto Bolaño

L’alternarsi dei piani narrativi e delle sottotrame è inizialmente faticoso da seguire, per poi divenire parte del gioco e della sua bellezza: nel rincorrersi dei personaggi e delle storie, nell’irrompere di nuovi personaggi e nell’affievolirsi e perdersi di altri, Bolaño costruisce un labirinto dove il lettore si perde, si ritrova, si perde di nuovo e infine si ritrova ancora in un percorso di scoperta, crescita e iniziazione che segue, anticipa e suggella il medesimo percorso dei personaggi principali, Jan e Remo, entrambi probabili (uno sicuro) alter ego dell’autore, adolescenti cileni che vivono una vita orfana nella Città del Messico degli anni ’70 (e ’80). Una Città del Messico che ai nostri occhi si mostra paradossale, più fantastica di un futuro di Philip Dick, ma della quale, al di sotto della tramatura visionaria di cui la riveste Bolaño, si percepiscono nettamente il ribollire umano e culturale e le complesse stratificazioni sociali, le diversità molteplici trai suoi abitanti, il divenire in essere della sua anima urbana. In questo senso è esemplare il breve capitolo conclusivo del romanzo, Manifesto messicano, storia nella storia all’apparenza sospesa tra triviale quotidiano – anzi un quotidiano assai triviale - e fantasia erotica immaginaria nella quale si rinvengono i poli contrapposti del desiderio e della noia dello sperimentare, del vivere intensamente e del lasciarsi vivere trasportati dalla corrente; in ultima analisi le mille contraddizioni dell’adolescenza e di quella sua per molti lunghissima continuazione che è l’età adulta. 


Perché il titolo, dunque, che è il medesimo in originale, al di là delle lettere fittizie indirizzate ai vari Fritz Leiber, Robert Silverberg, Ursula Le Guin, Alice Sheldon e agli altri ai quali Bolaño si rivolge attraverso Jan (non a Dick, che doveva essere morto da poco quando Bolaño scrisse il grosso del romanzo)? Di certo non per un semplice omaggio agli autori inseriti nel tessuto del libro come una vera e propria cornice dei racconti, e a una letteratura evidentemente ben conosciuta e molto amata; e neppure perché il romanzo verta in qualche modo sulla letteratura di fantascienza o nel romanzo si compia un’analisi del genere e delle sue voci principali coeve. Al di là della “bellezza” in sé del titolo, della sua suggestività e delle suggestioni che esso suggerisce, dei rimandi interni che esso trova nelle pagine del libro, lo “spirito della fantascienza” è l’essenza stessa dell’opera, della sua struttura e della sua scrittura: da sempre sfuggente ed elusiva, la definizione di “fantascienza” emerge con nitidezza dall’osservazione del dipanarsi e continuo riavvolgersi dei percorsi narrativi del romanzo; dal denso nucleo del bildungsroman che si coagula dai mille rivoli che sfilacciano, riallacciano, costruiscono e infine costituiscono il racconto; dal continuo scambiarsi di ruolo tra immagine visionaria e fotografia del reale – che si tratti dell’animo umano, della fauna umana o del panorama urbano. La fantascienza è nelle sfaccettature di una realtà che si rivela prismatica, spesso ingannevole, quasi sempre criptata; mai monocromatica, sincera, nitida. All’apparenza: a occhi non allenati, occhi ciechi che si lascino travisare dall’irrilevante. Come illustra perfettamente il suo Spirito.

domenica 13 aprile 2014

I contemporanei – Soluzione infernale (Hell of a fix - 2009) di Matthew Hughes (n.1949)

Il percorso in autobus fino al lavoro fu placido in maniera surreale. Nessuno che si spintonasse per essere il primo nella fila, e Chesney vide addirittura un adolescente cedere il suo posto a una vecchia signora. Il traffico era pacato, i taxi davano la precedenza e nessuno passava con il rosso. Ed è così che capiamo di essere in una storia di fantascienza – anzi: fantasy tout court.

Scherzi a parte.

Il fascicolo n.7 dell’edizione italiana di Fantasy&ScienceFiction, operazione a dir poco meritoria e azzardata mandata in edicola dall’editrice Elara (e meritoria quanto azzardata, cioè tantissimo), si era aperto con un racconto agghiacciante di Ken Liu: Letteromante. Agghiacciante per la durezza e crudezza del suo contenuto, per lo sguardo totalmente disincantato dell’autore cinese naturalizzato americano sulla realtà della nostra umanità. Un racconto splendido, ma il cui contenuto fantastico è testimoniato unicamente dalla sua pubblicazione su una delle più antiche e belle riviste che hanno elaborato l’immaginario fantastico e fantascientifico dello scorso secolo.

Sull’appartenenza del racconto di Hughes al campo del fantastico, più che uno specifico fantascientifico, non vi è invece dubbio alcuno. E, volendo spaccare il capello in quattro e mettersi a fare i tristi etichettatori di storie, la trattazione satirica e laica che egli fa della mitologia angelica e demoniaca (per tacere dell’innominata divinità del racconto e della speculazione sul libero arbitrio) è tuttavia più inclinata verso la fantascienza che non la fantasy.

Tono e registro sono quanto di più lontano da quelli di Liu, alla cui liricità (nella prima parte di Letteromante) e scabrosa tragicità (nella seconda) Hughes sostituisce l’aerea leggerezza della sua sferza satirica e un cinismo divertito e sornione. Lo sguardo di Hughes non è tuttavia meno ampio di quello di Liu, né meno profonde le sue riflessioni sull’uomo. E sebbene tali riflessioni appaiano più banali, più scontate e a buon mercato, le parole di Hughes pizzicano in realtà con grande sapienza i nervi più scoperti delle male abitudini, dei malvezzi, delle piccole e grandi meschinità che trapuntano di fragile umanità le vite e i comportamenti di noi esseri umani. Le parole di Hughes penetrano altrettanto in profondità sotto la pelle dell’uomo

Le parole di Hughes hanno la sapidità di quelle dei grandi moralisti del passato. Ché oggi moralista è un termine di pessima stampa, ma un tempo (e nel suo più autentico significato) soleva indicare chi con la sua acutezza nell’analizzare la società e riflettere sui comportamenti umani sapeva indicare quelli migliori per una convivenza umana serena e solidale. Con i preti (di ogni genere) che oggi se ne arrogano il monopolio, per la morale e il moralismo sono tempi francamente grami. Vabbe’.

Un giovane Jack Vance, autore
prossimo alla sensibilità di Hughes
Se Hughes è variamente descritto e indicato, ivi compreso il suo profilo su Wikipedia, come un erede tutt’altro che indegno di Jack Vance (e il suo romanzo Guth Bandar Esploratore della Noosfera, apparso in Italia per Delos Books può testimoniare la fondatezza dell’assunto); non di meno nel suo editoriale al settimo fascicolo di F&SF, Armando Corridore definisce swiftiana questa ispirazione satirica del racconto di Hughes (e appunto Swift fu certamente tra i grandi moralisti del passato).

Pur senza voler troppo oltre scomodare il grande irlandese o il C.S.Lewis delle Lettere di Berlicche non vi è dubbio che Hell of a fix risenta, beneficamente, dell’opera di Swift. O che quanto meno sia accostabile a un altro divertissement “diavolesco” di un grande autore di fantascienza del passato: Isaac Asimov con il suo Azazel. I fulminanti racconti che Asimov dedicò al suo demonio in formato tascabile abitano molto di più il versante puramente umoristico e i territori del funambolismo logico e linguistico; laddove la riflessione che Hughes propone nelle due direzioni della natura umana e dei meccanismi della creazione narrativa è senza dubbio molto più analitica e approfondita. Con Azazel Asimov dava libera voce e libero sfogo alle immaginifiche profondità dell’Homo ludens (dell’Asimov ludens…) senza proporsi di scendere in profondità; in questo racconto Hughes si sofferma sui meccanismi psichici profondi di quell’uomo che gioca (e narra), e sulle regole e i percorsi della sua creatività. Oltre a scatenare una nobile vena moralista.

Isaac Asimov sui vent'anni
La trama è presto riassunta: Chesney Arnstruther fa una cavolata e all’Inferno entrano in sciopero; con conseguenze devastanti sulle attività dell’umano consorzio civile. Per essere più giusti e precisi, Chesney si trova coinvolto suo malgrado in un quasi kafkiano cul-de-sac originato dalla stolidità della burocrazia infernale – stolida come ogni burocrazia compiuta che si rispetti: ciò che è molto più in sintonia con il tono del racconto e i suoi intenti. Si noti en passant come il nome del protagonista suoni molto asimoviano: chiaramente dell’Asimov dei racconti di Azazel.

Chesney è un protagonista assolutamente tipico di certa letteratura popolare, certo cinema, certa televisione americana e più in generale anglosassone. È tutt’altro che uno stupido, Chesney, e sebbene sia il primo ad essere cosciente del fatto che gli manchi quell’elemento fondamentale di visionaria creatività atta a trasformare un matematico che si guadagna la pagnotta come attuario in una società assicurativa in un Gauss o un Peano, il suo è un cervello fino e abituato a ragionare in termini quantitativi, di costi e benefici. È però anche il prototipo del nerd, infatuato di Batman e con un universo psichico di fantasie che sostituiscono l’assenza di una vita reale. Ed è questo a renderlo il protagonista tanto tipico di una storia del genere. Il protagonista perfetto, che salverà la baracca – non senza l’aiuto di un altro personaggio non meno tipico, il self made man dai mille talenti, anche e soprattutto truffaldini, perfettamente rappresentato dal “reverendo” William “Billy” Lee Hardacre, che nell’economia del racconto funge da deus ex machina non meno che da specchio privilegiato di tante nostre piccole e grandi meschinità e infingardaggini. Oltre a fornire il destro per un altro topos da novanta della narrativa popolare: il ravvedimento operoso del peccatore. Tutto questo va immaginato inserito nella tramatura fortemente ironica della narrazione, nel gusto divertito e insistito con il quale Hughes procede all’esposizione degli eventi e in seguito alla soluzione del dilemma: qui basti vedere con quanta levità e al contempo accurata e spassionata lucidità l’autore analizzi la diade fondamentale della civiltà umana attraverso la descrizione che fa del rapporto madre/figlio che intercorre tra Letitia e Chesney Arnstruther.

L’intera storia corre su un doppio binario: da una parte la riflessione sui meccanismi creativi della narrazione, su come i personaggi prendano in qualche modo vita propria e finiscano per prendere la mano al loro autore; dall’altro, e specularmente, il libero arbitrio umano che sembra il modello – o la mimesi – di tale meccanismo. Nulla di inedito, ma il vero punto di forza e la giustificazione del racconto restano la soave impudenza e la benevolente cattiveria con la quale Hughes mette, o meglio omette in scena la sua divinità che va a tentoni, servendosi della storia umana per apprendere il senso profondo dell’etica, scrivendo e riscrivendo la trama del suo “romanzo” rappresentato da quell’intera storia, correggendone passo passo gli errori e le dimenticanze. Attorno a Chesney, Billy Lee e all’apprendista dio ignaro dei termini dell’etica si affolla una pittoresca galleria di dèmoni, angeli e più o meno improbabili personaggi umani. Nel seguire questo suo doppio binario, con altrettanta negligente noncuranza l’autore mette alla berlina i capisaldi della civilizzazione umana (la competizione, la gerarchizzazione sociale, la famiglia, la libidine, la necessità di trascendenza), senza nascondersi quanto essi siano anche necessari a una evolutiva civiltà umana – e ovviamente necessari alla creazione narrativa: senza il conflitto, senza la grandi passioni negative o quelle estreme, senza gli orrori dell’umanità, la letteratura diverrebbe molto noiosa. Senza il pungolo del desiderio la vita sarebbe piatta e priva di attrattive. In tal senso, Chesney appare quasi come una possibile soluzione di compromesso tra le due eterne polarità del Bene e del Male. O, anche meglio, della passione e dell’apatia.

Il romanzo di Hughes pubblicato
da Delos Books in Odissea Fantascienza,
oggi come oggi probabilmente la miglior
collana di sf in Italia.
La fantascienza ha usato innumerevoli volte del concetto di una umanità trastullo di entità (o divinità) infinitamente superiori a essa, o semplici pedine di esperimenti di tali entità o divinità. Questo aspetto appare però secondario nella breve novella di Matthew Hughes, e l’autore si serve soltanto dell’escamotage, per riflettere beffardamente su quanto su detto. In questo Hughes si allontana in qualche modo da un’ortodossia fantascientifica per addentrarsi piuttosto nella narrativa speculativa. Tuttavia la miglior fantascienza ad argomento religioso ha sempre fatto null’altro che questo: per citarne che pochissimi, dal Miller di Un Cantico per Leibowitz al Blish di A case of conscience, dal Del Rey di For I am a Jealous People! (http://olivavincenzo.blogspot.it/2012/10/i-classici-non-avrai-altro-popolo-for-i.html) al Chiang di L’inferno è l’assenza di Dio i migliori risultati fantascientifici sono stati ottenuti in apparenza allontanandosi da una fantascienza pienamente riconoscibile come tale. Il Satana afflitto dalle rivendicazioni sindacali della manovalanza demoniaca e i noiosissimi angeli di Hughes sono il sogghignante e perfetto specchio degli spietati alieni senza peccato di Lester Del Rey; i fratelli minori degli iperuranici angeli di Ted Chiang e del loro distruttivo e noncurante manifestarsi nella realtà umana. 

Matthew Hughes non è un giovane di primo pelo, e di primo pelo non era neppure vent’anni fa quando iniziò la sua carriera letteraria nel campo della narrativa. Britannico di nascita ma emigrato ancora bambino in Canada, come racconta nel suo sito, oltre a scrivere da alcuni anni si dedica all’attività di housesitter, in tal modo vivendo spesato un po’ qui e un po’ là e dedicandosi così alla scrittura con maggiore comodità.


Un’ultima notazione sulla traduzione del titolo, quell’insipido e burocraticamente (ecco…) preciso Soluzione infernale che non rende giustizia al titolo originale, che suonerebbe meglio come qualcosa tipo Un diavolo di soluzione! Ma non si può avere tutto dalla vita J

domenica 23 marzo 2014

Fumetto - Lukas 1 – Deathropolis (2014) di Michele Medda e Michele Benevento

È d’obbligo una premessa: Michele Medda è un amico, e questo può naturalmente falsare il giudizio.

È però opportuna anche una seconda premessa: inteso in astratto, l’argomento di Lukas non è esattamente nelle mie corde, e questo fornisce con qualche probabilità un bilanciamento. In verità, e per dirla tutta, se vampiri, licantropi, zombie o ridestati che siano non sono mai stati al vertice delle mie preferenze narrative, negli ultimi anni la loro dilagante invadenza è diventata una vera e propria rottura di… sì, insomma: di J. Perciò quando seppi quale sarebbe stato l’argomento della nuova serie di Medda dopo Caravan (di cui ho scritto qui: http://olivavincenzo.blogspot.it/2010/01/caravan-spedizione-verso-lignoto.html) non ero propriamente entusiasta. Non-morti di vario genere calati nell’ambientazione di una indeterminata città corrotta e anonima non sembravano cosa troppo allettante. Urban fantasy? Gli amanti delle etichette effettivamente paiono orientati verso tale sistematizzazione.

Avrei però dovuto fidarmi quanto meno della storia dell’autore per i miei timori, e quanto alla necessità di un’etichetta editoriale, se proprio ne dovessi indicare una sarebbe quella di speculative fiction, più in grado di tutte di rendere conto della densità narrativa della storia. Quanto meno di questa prima.

Michele Medda
Deathropolis, primo albo di 24 di una serie che si intuisce sarà unitaria e in progressione, è senza dubbio una storia interlocutoria, una prima presentazione del protagonista e dei temi della serie. Dell’uno e degli altri fornisce con asciuttezza una chiara traccia – sarà da vedere quali e quante divagazioni e quali e quanti sovvertimenti dovessero occorrere. Sebbene questa interlocutorietà dell’albo sia evidente, la narrazione è anche perfettamente conclusa: il primo episodio apre gli scenari della serie e squaderna l’essenziale del protagonista (i dettagli emergeranno sicuramente nei mesi a venire), ma è anche un racconto compiuto in sé. È ormai invalsa l’abitudine, non saprei quanto opportuna, di accostare sempre più la struttura del fumetto seriale a quella dei serial televisivi parlando di “stagioni” e partendo le dodici uscite annuali di una serie a fumetti (laddove si tratti di fumetti mensili, ovviamente) in archi narrativi che si rifacciano appunto alle stagioni di un serial televisivo. Non so quanto l’accostamento sia opportuno, scrivevo, tuttavia per questo primo albo di Lukas non è davvero sbagliato parlare di un “pilot”. Un ottimo “pilot”, in grado come detto di mettere immediatamente sul tappeto le caratteristiche della serie e quelli che intuitivamente saranno gli elementi cardine del carattere del suo protagonista; così come di suscitare l’interesse del lettore per il prosieguo della serie; e infine di fare l’una e l’altra cosa attraverso la vetrina di una storia che, nella sua semplicità narrativa, si rivela stilisticamente raffinatissima e in grado di innescare le prime riflessioni. Non manca nulla davvero nell’economia di una storia ricca di elementi, proiettati nel futuro della serie e radicati nell’immediato dell’albo.

Una volta tanto, in rete sembra che quanto meno i lettori più attivi e reattivi sui forum dedicati al fumetto si siano resi conto delle potenzialità della serie mostrate dal suo primo albo, e delle qualità di fattura dell’albo stesso. Che questo si traduca in un successo di vendite è probabilmente chimerico, forse in Italia l’epoca dei grandi numeri è definitivamente tramontata per il fumetto; e comunque i due fenomeni della qualità dell’opera e della quantità di copie non sono mai state grandezze necessariamente in proporzione diretta.

La prima tavola
Il racconto si apre su due pagine splendide, in primo luogo per la traduzione grafica delle scelte di sceneggiatura, e in secondo luogo naturalmente per dette scelte e per la bellezza in sé del disegno. Ché, se il lavoro di Michele Medda è stato curatissimo in ogni particolare del soggetto e attento a che la sceneggiatura esaltasse la storia, il creatore grafico Michele Benevento ha saputo rendere alla perfezione tali cura e attenzione, e creare attorno al personaggio e alla storia un’architettura grafica che trasmette con vigore le suggestioni e le emozioni del racconto, una scenografia urbana e una galleria umana che gettano il lettore dentro Deathropolis, dentro la città senz’anima e senza nome che di questo anonimato e questo vuoto fa la propria cifra.

Un modesto consiglio en passant alla redazione: quella didascalia sul frontespizio (Quella era una città spietata ecc.) ce la possiamo evitare: non siamo ancora al livello di dover essere assistiti – anche se continuando con certi fumetti e certi spiegoni rischiamo seriamente di aver bisogno di assistenza: psichiatrica.

La seconda tavola
Le prime due pagine: Deathropolis e Lukas si aprono su una sequenza che con la massima semplicità fornisce il massimo delle informazioni sul personaggio in scena. Il “risveglio” di Lukas, i suoi piedi che sfondano la lapide del suo loculo al cimitero, le reazioni, le sensazioni di chi effettivamente si ridesta da qualcosa di analogo a un letargo e i cui ricordi sono confusi, a brandelli. Le didascalie, nere con il lettering bianco, usate come fossero i pannelli del cinema muto che sostituivano un audio ancora indisponibile, avvolgono l’intera scena, le danno corpo e la rivestono di atmosfera – quella famigerata atmosfera che troppo spesso è ricercata come un effetto speciale a buon mercato, e che qui emerge nitida dalla successione di precise scelte stilistiche. Didascalie in terza persona che innerveranno l’albo, accompagnando il protagonista non solo in sostituzione dei balloon di pensiero: principalmente per ottenere un effetto straniante e di distanziamento, dal protagonista e del protagonista, ma anche per marcare una precisa scelta di narrazione più “adulta”. Il bianco e nero di Benevento è netto, violento, nitido, dettagliato. Aggiunge una patina di elegante freddezza alla fredda eleganza della prosa di Medda e alla secchezza della narrazione (la penultima vignetta della seconda tavola è come una miniatura brecciana da Gli uomini dagli occhi di piombo, suggello quanto mai adatto per questa sequenza d’esordio). Di qui la storia si dipana di conseguenza, sviluppando le premesse quasi con geometrica progressione. Freddamente.

Freddezza. La freddezza che permea la prosa, i dialoghi, le atmosfere di Lukas non appare un difetto né un limite. È anzi l’ingrediente necessario perché prosa, dialoghi, atmosfera, personaggio, storia e tono generale della serie sedimentino nelle emozioni del lettore e vi facciano presa. Deathropolis è di una crudezza inaspettata e inusitata in un fumetto bonelliano, sebbene non sia una novità (è una crudezza di ritorno, che il lettore è ben lieto di poter ritrovare in una versione realistica e matura, non plastificata e infantile come negli ultimi anni è capitato).


Per certi versi è accostabile a un fumetto da lungo tempo scomparso: il Dylan Dog degli inizi. Con una sostanziale differenza: lo Sclavi degli anni ’80 e dei primi anni ’90 aveva una scrittura calda, di stomaco. Una scrittura che faceva appello alle emozioni del lettore, al loro scatenarsi, per raggiungerne in qualche modo l’anima e il cervello – ma non era una conclusione che fosse necessaria. Medda, e sicuramente questo Medda, ha una scrittura controllata e fredda, di testa. Fa appello alla coscienza vigile del lettore, o meglio la brutalizza, per suscitarne le emozioni e indurre la riflessione e toccarne così l’anima. Non vi è alcuna gerarchia nei due registri, solo differenza. Che in qualche modo si traduce in un tono più “adulto” e “scarno” della scrittura meddiana e uno più “ricco” e “d’impatto” di quella sclaviana. I dialoghi, da sempre un punto di forza dell’autore non meno delle sue didascalie, sono cinici e taglienti, caratterizzati da un sarcasmo che spesso pare andare oltre le righe, indulgere nel compiacimento e gigioneggiare con la propria abilità, ma che non di meno sono parte integrante del tono e dell’atmosfera della storia, difficilmente pensabile senza dialoghi che a volte sembrano fuori misura.

Michele Benevento (più o meno ;-))
A latere di tutto questo ci si può divertire a ricercare e rinvenire le metafore sottese o più precisamente sovraestese da Medda al racconto. Divertire non perché sia un esercizio sterile o minore, ma perché è quasi un momento di leggerezza ludica il poter staccare dal ritmo ampio e disteso dell’albo, ma che ugualmente richiede tutta l’attenzione del lettore; staccare da una scansione narrativa che esige la capacità del lettore di porre attenzione alla raffinata complessità mascherata da naturalezza facile. Metafore sovraestese, e anzi neppure metafore, perché non vi è nulla di sotterraneo nella realtà umana e urbana di Deathropolis. Medda costella l’albo di vampireschi, licantropici ridestati, ma essi non mascherano nulla: l’emergenza della realtà nuda e cruda, le nostre realtà e cronaca quotidiane, è a tal punto immediata e brutale da apparire rozza. Non vi è nulla di sotterraneo nella prospettata dominazione di una classe di parassiti biologici, sociali, culturali, psicologici su un’umanità in gran parte ignara, e ignara perché troppo torpida per risvegliarsi – essa sì – a una vita consapevole. Proprio come in qualche modo era evidente, esibita, urlata la metafora/non metafora in Il Quinto Principio di Vittorio Catani, splendido capolavoro e vero unicum della fantascienza italiana (http://olivavincenzo.blogspot.it/2010/02/fantascienza-i-contemporanei-il-quinto.html). Insomma, se siete ciechi e non vi svegliate è davvero colpa vostra.


Lukas sarà l’inevitabile granello di sabbia destinato a inceppare il meccanismo dei dominatori? Probabilmente sì. Come sempre o quasi, Michele Medda è rispettoso della tradizione bonelliana; non per conservatorismo, ma per consapevolezza delle potenzialità di una formula e un formato che hanno reso possibili innumerevoli storie che hanno fatto la storia del fumetto italiano; e perché a onta delle rigidità di questa formula e di questo formato (rigidità, per altro, editoriali e redazionali, non della formula e del formato) consentono una libertà e un’inventiva narrativa molto ampie. In questo primo albo Lukas nasce “ignaro”, come ignari sono gli uomini e le donne comuni di Deathropolis. Ma naturalmente egli è ignaro in un modo diverso: questa sua qualità è quanto suscita in lui l’inquietudine morale e psicologica che è il marchio di chi intraprende un percorso di risveglio della propria coscienza. In questo primo albo Lukas si è risvegliato come corpo, corpo che è punto dal pungolo dell’inquietudine interiore a muoversi e cercare. È immaginabile che nel corso dei 24 albi che andranno a comporre la serie, questo risveglio da puramente fisico finisca per completarsi, tradursi in un risveglio della coscienza e dell’umanità del personaggio.  

domenica 12 gennaio 2014

I contemporanei – Cumhu, oltre la soglia dell’ignoto (2013) di Giovanni De Matteo (n.1981) e Andrea Jarok (n.1970)

Giovanni De Matteo
Pirati spaziali; profeti dementi; divinità misteriose, crudeli e remote; pianeti sperduti agli estremi confini del Sistema Solare; antiche civiltà terrestri nascoste dalle nebulose dei millenni trascorsi, e seducenti nel loro manto di conoscenze arcane e leggendarie; esperienze visionarie; stati di coscienza alterati (e alterabili); potenti, oscure, sibilline sostanze psicotrope; commistioni tra piani temporali disparati; viaggi spaziali su astronavi guidate da Ragazze Iperluminali, astronavi che paiono fuoriuscite da ingiallite pagine hamiltoniane; mirabolanti viaggi temporali attraverso la mente e la coscienza; scambi mentali e identitari tra siderali deità e umani, tra umani e metamorfici esseri-chimera che provengono dritti dall’ibridarsi di mitologie esotiche e mitologie immaginarie; il ’68, la contestazione, la Beat Generation, l’estetica on the road, sfiorando le marginalità a stelle e strisce. Poi la Consapevolezza Terminale; la chimica della trascendenza; la morte della morte; il tempo che può finire; l’apocalisse-epifania che tutto conclude e tutto riavvia. Lovecraft, inevitabilmente (e giustamente) Lovecraft; e William Burroughs: citati e richiamati implicitamente ed esplicitamente.

Un’abbuffata, in qualche modo: un coagularsi, precipitare, implodere e poi riesplodere di
Andrea "Jarok" Vaccaro
mille e mille ingredienti disparati. Un’affastellarsi di suggestioni; immagini; rimandi; citazioni; omaggi; idee; sensazioni; evocazioni; visioni; allucinazioni. Lovecraft, inevitabilmente e giustamente: il racconto è apparso sul numero 1 di Hypnos, il cui sottotitolo recita: rivista di letteratura weird e fantastica, e che del vate di Providence ospita, tanto per stare sul pezzo, proprio il racconto del 1922 Hypnos. Ma inevitabilmente anche Burroughs, il poeta dei meandri allucinati della mente. Un’abbuffata di colori e sapori; un’abbuffata di parole usate come fini prima che come mezzi: usate per il loro suono; per il loro concatenarsi le une con le altre; per la magia del loro richiamare immagini nella mente del lettore dalla sua memoria. Un racconto che è una pietanza di mille e mille sapori forti, fortemente speziati e spesso dissonanti; un pastiche la cui degustazione impone di lasciarsi affascinare dal suono delle parole e di lasciarsi indurre a richiamare le immagini sepolte nella propria memoria. Una pietanza, un pastiche goticheggiante che opera consapevolmente la scelta della ridondanza: di termini, di visioni, di rimandi e memorie. E con la ridondanza, l’eccesso: Una trasfusione di Eternità: per eseguirla, il solito ago. Nudo, sprofonda nella pelle improvvisamente accogliente, si concede alla carne e disseta la vena. Di lì risale il flusso circolatorio fino al cuore e riparte a velocità di curvatura in arterie sussultanti – gallerie organiche dalle diramazioni frattali, senza fine – sospingendo la forza delle parole, concludendo al termine di una scorribanda psichica durata mille eoni e una pulsazione e mezza la sua Ultima Evocazione. Ecco, per dire. Un intento ludico (anche ludico) emerge chiaramente, insieme al piacere della scelta delle parole per l’effetto che avranno, per il sovraccarico sensuale e sensoriale che produrranno nel lettore.

Hypnos rivista n.1
L’opera letteraria in generale, e un breve racconto in particolare, non ha bisogno di altro che la propria bellezza per giustificare stesura e lettura; e ciascuna opera fonderà la propria bellezza (se la fonderà…) su basi diverse - che esse abbiano fondamento nella preziosità linguistica, nella profondità dell’analisi psicologica dei caratteri, nell’arditezza della speculazione sul futuro, nella puntualità dell’analisi sociologica o politica del presente. O qualunque altro sia il fondamento della bellezza dell’opera, quel quid che la rende meritevole di memoria, anche soltanto una fugace memoria. Al di là del gioco, della lingua lussureggiante che ne costruisce l’impianto gotico e l’identità di omaggio ai capisaldi della fantascienza weird; al di là della piacevolezza estetica che con la sua rincorsa all’eccesso e all’ipertrofia verbale e fantastica solletica il gusto della lettura; al di là del puro gusto di leggere parole e ascoltarne il suono nella propria mente, il racconto di De Matteo e Jarok si lascia ricordare volentieri anche per il suo finale. Forse principalmente per il suo finale. Un finale che è al contempo disperato e aperto alla speranza; che pare perduto nella contemplazione di stilemi e visioni di una letteratura fantastica slegata da ogni realtà e al contempo disvela, e narra, la realtà del mondo di oggi attraverso i bagliori di un’allegoria fantastica ma dai risvolti assai concreti. Nell’epifania e poi apocalisse finale del Capitano Nero, nato dall’uovo nero che aveva attirato a sé Cumhu, il Ragazzo-iguana e Xolotl, il Ragazzo-salamandra, imperfetti custodi e profeti di saggezza, è possibile scorgere l’immagine di quel consumismo che impera e che tutto divora: le risorse della Terra, il piacere e il gusto della bellezza, il tempo della vita e le risorse spirituali e fisiche degli esseri umani. Finanche l’anima stessa degli esseri umani. Sono saggi Cumhu e Xolotl. Sono sagge le parole di Cumhu: La vostra morte è un organismo che voi stessi create. Se lo temete o vi prostrate davanti a lui, l’organismo diventa il vostro padrone; sono sagge le parole di Xolotl: La morte è anche un organismo proteiforme che non si ripete mai parola per parola. Poco prima, l’abominio evocato dal Capitano Nero aveva apportato una prima ondata di morte e distruzione. Ma come tutta la saggezza che la nostra civiltà ha prodotto almeno dai tempi di Omero in poi ci appare imperfetta se non riesce, come non riesce, a renderci davvero consapevoli della spirale di distruzione a cui va conducendoci la foia consumistica, così le parole di Cumhu e Xolotl non evitano la distruzione finale operata dal Capitano Nero. Così come oggi la sola risposta rimasta, sempre più spesso, appare quella individuale e individualistica di rifiuto e ripulsa della spirale consumistica; allo stesso modo la fuga individuale di Cumhu e Xolotl verso il pianeta Yuggoth, là dove il nastro del tempo tornerà ad avvolgersi e svolgersi circolarmente, riavviando il ciclo degli eventi, appare una via di salvezza autistica. 

Eppure proprio laddove il Fato, inevitabile, sembra il vero vincitore è forse opportuno
Hypnos rivista n.2
rammentare meglio le parole di Xolotl: La morte è anche un organismo proteiforme che non si ripete mai parola per parola. Ciò che è stato, non necessariamente sarà. E questa è una lezione che vale la pena ricordare quando ci sentiamo sconfortati e scavalcati dagli eventi che accadono attorno a noi; è una lezione valida anche, e soprattutto, per la Storia con la “S” maiuscola e non solo per una storia narrata su una rivista. A un breve racconto si chiede di divertirci, di avvincerci con le parole, di fornirci uno stimolo per la mente. Si chiede di aprirci una piccola finestra su noi stessi o sul mondo. Oppure sull’arte. Il racconto di De Matteo e Jarok ci riesce.

Antichi e malvagi dei di dimenticate cosmologie arcane; visioni ai confini e oltre i confini del misticismo; esperienze e percezioni allucinatorie; mostri la cui deformità è spirituale prima che fisica; esseri proteiformi e mutaforme; uomini che si trasformano in dei; sentenze criptiche ed esoteriche; civiltà antiche e civiltà fantastiche: è ancora fantascienza? Lo è certamente, una fantascienza pura sebbene ibridata, pura perché ibridata. Sin dalle origini la fantascienza si è bagnata anche nei mari della letteratura dell’orrore come della letteratura fantastica in generale. 

Hypnos fanzine n.9
Da Mary Shelley in poi, a partire dai precursori e i primi esponenti di quella modalità letteraria che avrebbe preso il nome di fantascienza, semplicemente si è fatta letteratura, con ogni materiale a disposizione di uno scrittore. Come sarà per i dichiarati numi tutelari di questo racconto. Lovecraft, le cui opere più fantascientifiche sono capisaldi di una fantascienza dal respiro cosmologico e dall’anima piantata nelle profondità delle pulsioni e paure e aspirazioni umane: fantascienza appunto. Burroughs, tra i primi a coniugare lo sperimentalismo letterario e i topoi della fantascienza di genere, esplorando quello spazio interno che poi Ballard avrebbe introdotto come concetto in fantascienza (http://it.wikipedia.org/wiki/James_Graham_Ballard) e di cui, con lo stesso Ballard e con Philip K. Dick fu il principale esploratore.

Ancor giovane, Giovanni De Matteo, oltre a essere tra i fondatori della corrente letteraria italiana del Connettivismo (http://it.wikipedia.org/wiki/Connettivismo_(letteratura) è già un veterano della fantascienza italiana, con all’attivo svariati racconti e un romanzo che diversi anni fa gli fece vincere il Premio Urania. Andrea Jarok è a sua volta attivo da moltissimo tempo in campo fantascientifico, principalmente come saggista e in ambito editoriale. Hypnos, la rivista, è la diretta filiazione dell’omonima fanzine attraverso l’omonima casa editrice (http://www.edizionihypnos.com/index.htm).

sabato 28 settembre 2013

Il classico – Cor Serpentis (id. 1959 – in russo Се́рдце Змеи́) di Ivan Antonovič Efremov (1908-1972)

Cor Serpentis è un vero classico, con tutti i crismi della classicità. È anche un’opera storica: nel senso di documento storico della sua epoca. Infine, è un reperto della geopolitica del XX secolo, e in particolare dell’età postbellica della Guerra Fredda.

La breve novella è una delle opere più note del suo autore, il paleontologo e scrittore russo Ivan Efremov che, se non il maggiore esponente, fu senza meno tra i nomi più importanti della letteratura di fantascienza sovietica che fiorì dopo la II Guerra Mondiale. Di quella vasta produzione, che fu sicuramente la più lontana dai canoni della sf angloamericana che ha “colonizzato” (ormai non solo) l’Occidente, dall’altra parte della Cortina di Ferro non giunse moltissimo. Ai patrii lidi italici approdò comunque una significativa scelta di testi, tra i quali nel tempo si segnalarono particolarmente i romanzi dei fratelli Arkadij e Boris Natanovič Strugackij, sia per il notevole livello del loro lavoro, sia, probabilmente, perché i due Strugackij si posero spesso, e sempre più col tempo, in posizione critica verso il sistema politico sovietico o quanto meno tutt’altro che prona, mostrando nella loro scrittura una visione critica e uno scetticismo vicini a quelli occidentali. Efremov fu invece fin quasi all’ultimo un convinto assertore dei valori di un socialismo umanitario, o forse di un umanesimo socialista, e la sua opera è attraversata da una fortissima tensione verso una pace universale e una fratellanza tra le genti, raggiungibile solo attraverso il compiersi di una rivoluzione socialista – una rivoluzione del pensiero e dello spirito umani, è bene precisare. Una rivoluzione del modo di essere degli uomini, il loro conformarsi a una visione solidaristica e progressiva dell’esistenza, ed evolutivamente progressiva della storia, in una prospettiva che si allarga all’infinito, senza limiti per questo Uomo Compiuto se non quelli intrinseci delle leggi della fisica e della chimica.  Un qualcosa che in Cor Serpentis si vede chiaramente. 

La Nebulosa di Andromeda - seconda edizione italiana
Come anche nell’opera più significativa di Efremov, il romanzo La Nebulosa di Andromeda. Pubblicato due anni prima di Cor Serpentis, a dispetto della relativa aridità dello stile e della narrazione è il racconto filosoficamente affascinante di un utopia socialista, e rilanciò la sf sovietica in virtù di un allargamento concettuale e visivo a tematiche sociali e a un futuro lontano nel tempo, lasciando (relativamente) in secondo piano quella rigida estrapolazione scientifica e tecnologica che fu un po’ il marchio della fantascienza d’oltrecortina (e che comunque Efremov tratta con l’abituale accuratezza). In Chas Byká, il suo ultimo romanzo pubblicato in vita, e rapidamente ritirato dal commercio dalle autorità, Efremov tornò all’universo narrativo de La Nebulosa di Andromeda, ma questa volta con toni e riflessioni lontane dalla fiducia che aveva caratterizzato la sua passata produzione.

Prima edizione italiana della novella: 1963, Galassia n.26
Cor Serpentis è un autentico classico in primo luogo perché appartiene al genere che più di ogni altro identifica la fantascienza nella storia della letteratura e dell’immaginario: la Space-Opera. E al suo interno consuma un altro dei topoi assolutamente fondamentali e identificativi della sf: l’incontro con l’Alieno. Un primo contatto, per di più. Senza ridursi a fare un trattatello scientifico o peggio pseudoscientifico, Efremov cura con grande attenzione i dettagli scientifici e tecnologici del racconto, che non risultano semplici accessori ma sono una cornice che dà senso al quadro narrativo ed elementi dinamici di essa, fondamentali per dare il tono all’ambientazione filosofica della narrazione. Ad appesantire quest’ultima sono se mai gli incisi più prettamente speculativi, sociologici e didascalici (o propagandistici tout court), che spesso sfociano in vera e propria ingenuità o utopismo illusorio. A riscattare questi passaggi a vuoto sono gli occasionali squarci lirici che riescono a imporsi all’attenzione del lettore a onta della traduzione da cani e della cura editoriale perfino più approssimativa della traduzione. È attraverso tali intarsi, di un lirismo appassionato e naif, che trapela la natura profondamente romantica dell’ispirazione utopistica di Efremov: quando i suoi controllatissimi personaggi dismettono per un attimo la loro attitudine, degna di manichini robotici, di perfetti esempi di Uomo Evoluto e Compiuto, in essi si legge in filigrana qualcosa di più e di meglio del pensiero di un convinto uomo di apparato: si vede un sognatore. Un sognatore forse ingenuo come i personaggi a cui dà vita, ma sincero. E sicuramente visionario, un ardito che ha spinto la sua immaginazione non tanto nelle pieghe dello spazio e del tempo, quanto dell’uomo. Un utopista, certo, e probabilmente un illuso che riponeva troppe speranze nelle potenzialità umane di sviluppare una coscienza solidaristica; tuttavia questi nostri tempi in cui assistiamo, quanto meno in Occidente, a una vera e propria morte dell’Utopia e dei suoi sogni, ci mostrano come l’Utopia sia la linfa vitale dell’elaborazione e della progettazione politica, sociale, filosofica.

Chas Byká, inedito in Italia
È difficile immaginare Cor Serpentis scritto in un’epoca storica diversa da quella in cui fu effettivamente scritto. La (relativa) rinascita del sogno socialista seguita alla denuncia della politica staliniana da parte del nuovo leader sovietico Nikita Chruščёv inquadra la novella come una lettura utopistica di quella rinnovata speranza che si originò dal voltare pagina operato dal politico ucraino. E diventa facile pensare che la restaurazione attuata in seguito dal cupo ordine brezneviano condurrà le speranze e la visione gioiosa, l’aspettativa di un felice futuro di pace coltivata nella novella a mutarsi nella visione critica del romanzo Chas Byká, che è del 1968. Cor Serpentis è innegabilmente un’opera che contiene un intento propagandistico e didascalico, ma è ben lungi dal ridursi a questo. Nella scrittura il linguaggio e l’animo di Efremov si mostrano primariamente gioiosi. Il desiderio di un futuro di pace e di amore per la conoscenza è palpabile nella sua sincerità, così come la convinzione che questo possa avvenire solo con il compiersi del comunismo.
L'autore poco più che ventenne
A questa genuinità di pensiero va concessa l’ingenuità delle estreme semplificazioni psicologiche, sociali e di proiezione storica che Efremov compie. Gli uomini e le donne partiti dalla Terra per esplorare le profondità spaziali alla ricerca di conoscenza, e con la speranza di incontrare altre razze intelligenti, sono vuoti nella perfezione delle loro coscienze, nella purezza della loro anima, nella completa equanimità della loro morale. E così dal momento che Efremov è comunque troppo un buon scrittore per appiattire del tutto i personaggi senza conferire loro dei guizzi di emozione e vitalità, umana e narrativa, tuttavia i dubbi sollevati da Kari Ram o le velate suggestioni erotiche innescate da Afra Devy - come anche l’ironia e le apparenti malinconie del comandante Muta Ang oppure ancora la timidezza di Tei Eron – appaiono ulteriori dettagli atti a mostrare una più ampia e meno superficiale perfezione umana ma non il suggerimento di un dubbio dell’autore o di uno scavo psicologico fine alla descrizione di un essere umano oltre al personaggio funzionale. L’equipaggio dell’astronave Tellur è composto di uomini e donne di nuovo tipo, che possono avere occasionali e fugaci manifestazioni di un modo di pensare arcaico (come Kari Ram), ma che in realtà li hanno solo in funzione di offrire all’autore il modo di confutarlo. E del tutto speculari agli astronauti terrestri sono quelli dell’astronave aliena, gli umanoidi che respirano fluoro e con i quali non può esservi pertanto interazione fisica, ma con i quali ci si intenderà perfettamente nella cornice di una fratellanza universale tra specie senzienti che è l’approdo finale dell’utopismo universale di Efremov, del suo umanesimo socialista.

Incontro su Tuscarora, Galassia 33
Una delle poche opere di Efremov
apparse in Italia
Cor Serpentis è un prodotto della sua epoca anche in quanto prodotto della Guerra Fredda. È infatti noto come la novella di Efremov sia una risposta, se non polemica certamente in antagonismo dialettico, al racconto di Murray Leinster First Contact pubblicato nel 1945. Il racconto leinsteriano, esplicitamente richiamato da Efremov nel suo, è una delle migliori narrazioni sul primo incontro tra la specie umana e gli alieni ed è tra le cose più belle di Leinster, uno dei pionieri della fantascienza americana delle riviste. In First Contact, sebbene la conclusione possa comunque dirsi positiva e ottimistica, l’evento del primo incontro della specie umana con una razza aliena è senza dubbio dominato dalla paranoia, dal sospetto e dalla sfiducia reciproci, e lo spettro della guerra è presente e reale. In contrasto con la visione da Guerra Fredda di Leinster, Efremov vorrà sostenere che la paranoia e il sospetto non potranno più appartenere a un’umanità approdata, attraverso la logica dialettica del socialismo, a una maturità spirituale consapevole dell’appartenenza dell’individuo e degli individui a una specie in pacifico e fiorente divenire, storico e biologico. Una maturità che dovrà necessariamente appartenere a ogni eventuale specie senziente dell’universo passata necessariamente attraverso le stesse esperienze politiche e sociali dell’Uomo della Terra. Una visione che forse ripone davvero troppa fiducia nella ragione umana, ma che tuttavia è grandiosamente visionaria nel senso in cui dovrebbe sempre esserlo la narrativa fantascientifica, volta all’esplorazione dei limiti umani e alla proposta dei sogni indispensabili a nutrire la progettualità del futuro. Una visione che forse è bene leggere come complementare e non oppositiva a quella fornita in precedenza da Leinster.


La prima edizione italiana di Cor Serpentis apparve nel 1963 sul fascicolo n.26 di Galassia prima veste grafica, con il titolo Il Cuore del Serpente. La seconda e a tutt’oggi ultima ristampa per quanto mi risulti, avvenne quattro anni più tardi in La Formula Impossibile, quinto volume della collana Fantascienza Sovietica, con il titolo di Cor Serpentis. Il volume presentava, come quasi tutti i fascicoli della collana, un’antologia di racconti, tra i quali abbastanza sorprendentemente non è stata privilegiata la novella di Efremov per la scelta del titolo, scelta che è invece caduta sulla più breve novella di Evgenij L’vovič Vojskunskij e Isaj Borisovič Lukod’janov. Nell’indice del volume l’autore è indicato come I. Epremov, mentre nel corpo del volume, alla pagina di presentazione della novella, esso figura come I. Efremov. Tanto per sottolineare che se la traduzione era pessima, la cura editoriale era anche più fatiscente.   

domenica 22 settembre 2013

Intersezioni – Il giorno rubato (2013) di Marco De Franchi (n.1962)

Una storia di intersezioni: questo è Il giorno rubato. In primo luogo a intersecarsi sono i principali registri narrativi: realistico, fantascientifico, fantastico puro. Sebbene in nessun modo il romanzo possa essere fatto rientrare nella letteratura realistica, tuttavia il linguaggio di De Franchi e il suo modo di raccontare hanno un forte sapore realistico che per molti versi amplifica l’effetto delle vicende narrate sul lettore e imprime alla narrazione una corposa tridimensionalità emotiva. L’irruzione dello stupefacente, del soprannaturale e dell’inimmaginabile risultano ancora più stranianti nell’economia di una storia che l’autore pare spesso narrare come se dovesse ricondurla, anche a forza, entro i confini della ragione. Una dissonanza ricercata, sicuramente, per sollecitare continuamente il lettore; e puntualmente trovata. Se il romanzo va ascritto sicuramente più al fantastico puro che ad altro, non è meno vero che anche un purista della fantascienza può rubricarlo tra la fantascienza più ibridata, una fantascienza lovecraftiana principalmente, e tra quegli universi narrativi, ibridi appunto, che rimandano a Lord Dunsany o ad Arthur Machen. Fantascientifico, del resto, è anche il “gadget” al centro del libro – o meglio il punto di partenza della vicenda, il fenomeno che ritorna ossessivamente e che ossessivamente arriva a permeare l’esistenza di Valerio Malerba, il protagonista del romanzo, e degli altri personaggi principali. Il giorno rubato, appunto. Quel 13 marzo del 2007 che risulta scomparso dalla sequenza temporale degli eventi. Nessuno (o quasi, come si vedrà) ha memoria della giornata; niente è accaduto e registrato quel giorno; non esistono giornali del 13 marzo 2007, pagine di internet, eventi di cui vi sia traccia. Nulla di nulla. Si scoprirà poi che quel 13 marzo è ben lungi dall’essere il solo giorno della storia umana scomparso a quel modo. Un assunto dickiano: come ricca di suggestioni dickiane è la trama più genuinamente fantascientifica del romanzo, e un sapore dickiano ha anche la conclusione del libro, forse meno aperta di quanto sembri a prima vista. Dickiano è anche il frequente intersecarsi dei piani spaziali e temporali, lo sfibrarsi e sfilacciarsi del tessuto della realtà. Realtà che spesso si confonde in una sequenza di eventi illogici, o meglio governati da una logica che appare altra. Una fortissima eco fantascientifica proviene senza dubbio da un romanzo oggi probabilmente dimenticato dai più, ma che resta tra le opere migliori della fantascienza degli anni ’30, oltre che uno splendido esempio di ibrido perfettamente riuscito – in questo caso tra un registro stilistico dalle profonde venature orrorifiche e una solida vicenda di fantascienza; una commistione che il romanzo di De Franchi fa virare con convinzione più verso il lato dell’orrore: un orrore metafisico e ancestrale, nato in territori oltre la ragione e la natura conoscibile e originatosi nei tempi nei quali andava plasmandosi la simbologia archetipica dell’umanità. Il romanzo in questione è Schiavi degli Invisibili (Sinister Barrier) di Eric Frank Russell, del 1939. Ne si rinviene la tramatura nell’esplicito richiamo che De Franchi fa a Charles Fort, principale fonte di ispirazione del romanzo russelliano; e ne si osserva l’altrettanto esplicito richiamo dato dalle analogie che possono ravvisarsi tra i Vitoni dell’autore britannico e i Cancellatori dell’italiano.  La ricerca delle fonti e, ancor di più, la ricostruzione della genealogia letteraria di un’opera naturalmente non ha alcun senso in sé, se non un’utilità merceologica per i commessi delle librerie al fine di compiere quello sfregio che è la ripartizione bovinamente eseguita per generi sugli scaffali. Ha invece senso nel tentativo di risalire le correnti letterarie, emotive, artistiche, psicologiche che portano alla scrittura dell’opera. Ha senso nel circostanziare la lettura e l’interpretazione dell’opera. Il reciproco relazionarsi dei registri narrativi, l’intersezione e la compresenza di horror, fantascienza e territori di un fantastico più libero, è reso esplicito dall’autore stesso. A pagina 182, attraverso le considerazioni che il suo protagonista fa su quelli che nel libro sono definiti Cancellatori oppure Mater Matuta, dà in un certo senso un’interpretazione autentica della cosa: Però, energie o creature divine che siano, pare che anche “loro” debbano rispettare una qualche legge fisica: non forse della fisica che noi conosciamo, ma certamente di una natura che ha regole e confini. Almeno io lo spero.  

La più recente edizione del capolavoro di Eric Frank Russell
Ne Il giorno rubato osserviamo perciò l’intersecarsi delle due polarità narrative e psicologiche del razionale e del fantastico, e l’irruzione di quella polarità che di suo è già un punto di intersezione tra la ragione e l’immaginazione: il mito. Pullula di archetipi mitici il racconto di De Franchi. Alcuni più espliciti: la Mater Matuta che si incontra in tutto il romanzo, con contorni mai completamenti definiti e continuamente sovrapposti con quelli di altri, anche di moderna matrice letteraria come i Grandi Antichi lovecraftiani; la realtà frutto del gioco crudele di divinità o entità crudeli e malevole, o semplicemente beffarde e insensibili, gli infiniti dei o demoni burloni; l’eterno tema del doppio, della copia malevola di noi stessi, uno degli strumenti psicologici che da sempre l’uomo utilizza per esternalizzare il male, deresponsabilizzarsi attraverso l’individuazione di un soggetto altro da sé come agente del male che egli fa, e dare sfogo al sostrato paranoico della mente: qui lo troviamo nel continuo e ansiogeno manifestarsi di ambigue e spesso indecifrabili copie dei personaggi del libro. Altri archetipi appaiono meno evidenti, o meglio meno posti in evidenza dall’autore. Principalmente il ciclo nascita-morte-rinascita di cui tutto il romanzo pare comporre un’allegoria. La Roma moderna che fa da sfondo principale a Il giorno rubato, e a cui a volte la penna di De Franchi consente di sottrarre la scena al racconto, è una città dove si intersecano – ancora – tutti i suoi piani storici, protostorici e preistorici. È una città la cui moderna apparenza cela il persistere di culti millenari reminiscenti delle radici preistoriche e reali di entità che paiono vivere e operare in intersezioni tra vari piani di realtà, tra vari piani spaziali e temporali. Mater Matuta, il nome dell’antica divinità romana, una delle innumerevoli incarnazioni della Grande Madre, è quello che identifica il complesso di tali entità, forse forme di energia che dalla notte dei tempi governano l’umanità come una loro mandria; un nome buono come un altro, afferma uno dei personaggi nel parlarne con Valerio Malerba. Eppure forse non è un nome come un altro.
Il romanzo è il secondo volume della collana Fantastico Italiano

Né il mitologema della Grande Madre – la Dea - né lo specifico mito di Mater Matuta paiono scelti a caso. La Dea non è, o quanto meno non è soltanto, una divinità benevola. La Dea rappresenta il femminile - la natura - in tutte le sue declinazioni: è generatrice, ma anche distruttrice; incuba la vita e la dà alla luce, ma divora anche, come paiono letteralmente fare i Cancellatori del romanzo. Lasciando stare la sua tarda identificazione con la greca Leucotea, Mater Matuta è una divinità dell’aurora – dunque della nascita – e in seguito del parto, nascita e rinascita della vita. Ma tra i suoi attributi, oltre la colomba, simbolo di inizio, vi è anche il melograno, l’ultimo frutto a maturare, annuncio del letargo/morte invernale ma ricco di semi: simbolo di morte e rinascita. Il ciclo continuo della vita naturale: nascita, morte e rinascita attraverso il seme.

Splendida statua della Mater Matuta, VI secolo a.C.
L’intera vicenda vissuta da Valerio assume le sembianze di un viaggio iniziatico e di conoscenza, ma anche di un ciclo vitale che si ripete. A cerchi concentrici. E con Valerio – attraverso Valerio – è tutta l’umanità ad affrontare il viaggio e il ciclo. All’inizio del libro Valerio “nasce” e contemporaneamente “muore” e “rinasce”. “Muore” in un piano di consapevolezza per “rinascere” in un altro, a partire dalla prima “morte”, che in perfetta contraddizione con il principio di causa/effetto precede la prima “nascita”. Quasi muore, Valerio, per un infarto, vero o presunto che sia; e rinasce a una nuova serie di eventi, una nuova realtà. Nasce, muore e rinasce continuamente la sequenza temporale, l’esistenza umana, ogni volta che Mater Matuta interviene a operare una di quelle sospensioni temporali durante le quali le leggi fisiche note all’uomo sono sospese, per motivi che restano ignoti: quegli innumerevoli giorni rubati.

Poi interviene qualcosa a spezzare la continuità continuamente fratta del ciclo; o forse a creare una discontinuità maggiore e instaurare una ciclicità fondata su nuove basi, quanto meno libera dalla predazione parassitaria di Mater Matuta. L’evento nucleare, che simbolicamente avviene in concomitanza con l’ultima “morte/rinascita” di Valerio, è l’inatteso accadimento che spariglia il misterioso ordine delle cose imposto da Mater Matuta. Le energie sono potenti, ma appunto non onnipotenti. Né onniscienti. Non si aspettano che gli uomini, nella loro follia, diano inizio a una guerra globale che certamente farà precipitare i sopravvissuti eventuali in un inverno nucleare. L’inatteso evento lascia attonita Mater Matuta e in qualche modo impedisce il compimento del previsto ed ennesimo spasmo temporale, l’ennesima ripartenza dopo la fine. L’umanità, inconsapevolmente, si è liberata della catena dei Cancellatori/Mater Matuta spezzando violentemente uno degli anelli. A quale prezzo non è dato saperlo. L’evento nucleare è una morte, ma per coloro che in qualche modo sopravvivranno sarà una rinascita. E sarà la nascita di un nuovo ordine, di un nuovo rapporto con la natura. Forse l’instaurarsi di una nuova ciclicità su nuove basi, forse la perpetuazione di un ciclo maggiore composto di cicli minori come quello appena interrotto.

Venere di Willendorf, XXII millennio a.C., forse raffigura una proto Grande Madre 
Tale materiale, questa ricca congerie di suggestioni e rimandi, classici, letterari, mitici, sarebbe solo un magma, confuso benché affascinante, se non vi fosse a dare forma compiuta al tutto la scrittura di De Franchi. Il ritmo incalzante della vicenda, che spesso si fa a tal punto frenetico da lasciare il lettore disorientato, quasi senza fiato. La sua capacità di trascinare dentro la storia narrata, di far appassionare al destino dei suoi protagonisti, individui del tutto comuni e anonimi, in fondo; ma che proprio per questo si avvicinano alla nostra sensibilità fino a toccarci: potrebbero essere i nostri cari; potremmo essere noi stessi. C’è l’indubbio mestiere descrittivo di De Franchi, che si dispiega sia nell’uso di un linguaggio che sa suscitare al momento giusto il raccapriccio, l’orrore, l’empatia, lo stupore; sia nell’abilità di traslare con apparente facilità gli scenari urbani e agresti da una dimensione banalmente quotidiana all’orrore dell’ignoto. Un mestiere solido e consapevole, la ricchezza inventiva del narratore vero unita alla disciplina di uno scrittore serio. C’è un’anima dietro questa storia, qualcuno non interessato a stupire tanto per, ma intenzionato a suscitare un coinvolgimento non epidermico nel lettore, a lasciargli l’impressione di aver effettuato un viaggio nei territori dove nasce l’immaginario. E che ci riesce, per di più con un libro che, dall’inizio alla fine, può essere letto anche solo come una pura avventura, come una lettura puramente e pienamente divertente.


Confesso che prima de Il giorno rubato non conoscevo Marco De Franchi; scopro che ha una lunga carriera alle sue spalle (e spero molto più lunga davanti a sé); una carriera frastagliata, interrotta e poi ripresa, e che solo con questo romanzo viene a riaccostarsi a quei territori del fantastico nei quali aveva inizialmente pascolato. Spero siano i territori nei quali resterà acquartierato.