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domenica 25 agosto 2013

Al di fuori della fantascienza – Agenzia Generale del Suicidio. (Ècrits – 2005, edizione italiana) di Jacques Rigaut (1898-1929)



Mi concedo una “evasione” dai territori della fantascienza per commentare un libro affascinante. E spiazzante. Se sette anni fa mi aveste chiesto chi fosse Jacques Rigaut vi avrei guardati perplesso. Poi, curiosando tra le novità librarie ben lontane dallo scaffale dei best seller, fui attratto da questo libriccino. L'elegante verticalità del formato; il colore seppiato della ruvida carta - quasi cartoncino; l'immagine della copertina, di squallido e poetico realismo, con quella porta aperta - che invita - verso il nulla. Il titolo, indubbiamente: così piacione a prima vista, e che poi si rivela quasi un understatement. Le note sullo sconosciuto – per me - autore: surrealista, dadaista: irrinunciabile. La biografia rapidamente schizzata nel risvolto di copertina, che apre uno spiraglio appena su un'esistenza che dovette essere singolare come poche altre. 

Come spesso mi accade, per molti anni il libro è rimasto da parte. L'ho preso in mano innumerevoli volte, tornando a leggere il retro e il risvolto di copertina, senza mai decidermi; continuando a farmi sedurre da quella copertina seppiata, da quell'immagine perfetta, da quelle scarne notizie su un'esistenza peculiare. Infine ieri sera inizio a leggere per caso: avrei potuto farlo almeno una dozzina di volte negli anni passati, ma l'ho fatto solo ieri, senza un preciso perché. 


Una lettura affascinante, dicevo. Sin dalla corposa (in rapporto alla piccola mole del libro) parte introduttoria biografica. Di Rigaut non sapevo nulla, dicevo; l'introduzione racconta di una vita affascinante quanto gli scritti raccolti in questo libretto, e che a quanto pare sarebbero quasi l'intera sua opera reperibile e sopravvissuta.  

Dico affascinante, ma è bene intendersi. In termini comuni, di affascinante la vita e gli scritti di Rigaut non hanno nulla. La sua vita, analizzata nei fatti nudi e negli accadimenti in sé, è la vita di un essere fatuo e inutile – inutile a sé e all’umanità. Se non vi fossero questi pochi scritti a testimoniare e illuminare la sua esistenza – e a motivare il fatto che essa abbia ispirato scrittori come Drieu La Rochelle e registi come Louis Malle – essa non apparirebbe che un vacuum. Ciò che per altro è davvero, a ben vedere, ma con un senso diverso da quello che intenderemmo. E di affascinante in senso stretto hanno ben poco anche i suoi scritti. Non per la qualità letteraria e lo stile, che sono notevolissimi e tanto più sorprendenti se si pensa che Rigaut in vita ha pubblicato un paio di pezzi di qualche pagina e nulla più, probabilmente per un totale disinteresse più che per altro: come per ogni aspetto della vita si può aggiungere. Disinteresse che appare appunto tra le cifre della sua vita e della sua scrittura. Sono affascinanti, seppure non in senso stretto, perché non sono il – ricercatissimo – parto letterario di un maudit, ma una testimonianza banale di banale verità. Morto suicida a trent’anni, drogato fino ai capelli di qualsiasi cosa potesse sniffare o iniettarsi, Rigaut visse un’esistenza estetizzante da dandy. In ciò che scrive non vi è nulla di estetizzante, se non tutto quello che scrive; e non vi è nulla di tossico e maledetto, se non tutto quello che scrive. Contraddizioni apparenti e reali, come apparentemente e realmente contraddittoria dovette essere la sua vita. La vita di uno che, realmente, non dovette sapere chi fosse. Se non l’insieme delle sue reazioni e sensazioni fisiche, corporali. L’unico aspetto di realtà e umanità che traspare da ciò che Rigaut scrive, e che la sua biografia rimanda, è questo aggancio con la biologia dell’essere viventi. Ma è anche pura finzione, in qualche modo, perché il Rigaut pensante, lo spirito di Rigaut risultano del tutto privi di reazioni. Si è lasciato vivere è una definizione che nel suo caso assume una verità profonda. Si è abbandonato al puro flusso degli eventi, disinteressato a tutto ciò che per la maggior parte degli uomini e delle donne ha importanza; e del resto ha vissuto fino in fondo, in estremo e con estremismo, la corporeità. Non perché fosse un suo idolo o una ragione di vita, ma semplicemente perché la registrava come un fatto ineluttabile al quale non poteva opporsi. O, più in linea con la sua personalità, perché non aveva interesse a opporvisi (o a non opporvisi).


Edizione francese degli Ècrits

Tutto ciò spira da ogni singola pagina da lui scritta. Quel che ha scritto, il quasi nulla pubblicato in vita e il resto venuto alla luce postumo, non è altro che biografia. Ogni singola pagina del libro non è altro che descrizione della sua vita. E ancor più: fotografia della sua vita. Rigaut è in possesso dell’arte di abbellire come scrive, ma non abbellisce quello che scrive. Si offre e basta. Ma, ben inteso, non gli interessa offrirsi; la cosa accade come semplice conseguenza del suo scrivere.

L’individuo dovette essere odioso. O meglio: doveva risultare odioso. La sua opera apre – letteralmente – una porta sul nulla: il nulla del suo essere. Non vi era alcunché da odiare davvero in lui, perché non vi era nulla in lui. Ne si poteva certamente odiare l’apparenza, questo sì. L’ultimo scritto della raccolta, L’affare Barrès (si tratta della “testimonianza” di Rigaut al processo fittizio inscenato dai dadaisti contro lo scrittore reazionario Maurice Barrès), si conclude con questo scambio di battute:

D. Lei ha appena mostrato che il suicidio non le sembra difendibile, ma non ha ancora detto come, condannando tutto, abbia fatto a vivere.

R. (di Rigaut) Vivere giorno per giorno. Ruffianeria. Parassitismo.  

La Nouvelle Revue Française di agosto 1930, prima pubblicazione di Lord Patchogue.
Non è una posa, è un dato di fatto. È l’accettazione del vivere biologico, la ricognizione del fatto che il piacere non è un’alternativa preferibile ad altro, è solo meno scomoda ed è immediatamente percepibile – la sola cosa percepibile. (…) per due mesi non ho saputo che ora fosse grazie all’oppio, all’assenzio, alla coca e alla generosità di una donna scrive nelle Riflessioni. Non è una posa, è un dato di fatto. L’uomo Rigaut, semplicemente – e disperatamente – dovette davvero essere apatico, del tutto privo di emozioni autentiche, condannato ad avere soltanto sensazioni, e a non poter essere consapevole di essere; condannato unicamente a poterle provare quelle sensazioni. Se ogni parola del libro costruisce un pezzetto di questa agghiacciante verità, a far luce chiara su di essa è lo scritto relativamente più lungo – inedito in vita – qui raccolto: Lord Patchogue (http://www.noveporte.it/dandy/documenti/patchogue.htm). Lord Patchogue non è semplicemente una testimonianza biografica come lo sono gli altri scritti, è vita in atto. È la testimonianza di una non identità, di una vita privata, più che priva, di passioni ed emozioni. Deprivata, ancor meglio: apatia. Le sensazioni animali con cui sono sostituite le emozioni non sono sufficienti, ovviamente, a riempire quel vuoto: solo a renderlo evidente e permettere per un certo tempo l’esistenza animale del corpo. Ma è soprattutto l’assenza di identità che si manifesta attraverso la fungibilità dell’identità a colpire. Non è un’anima in pena, non è un’anima tormentata quella che si manifesta nel racconto di Lord Patchogue: non è un’anima. E basta. È un corpo che si muove, che vive, che soffre e prova piacere unicamente sotto forma di sensazioni fisiche, reazioni fisiche a degli stimoli. Soprattutto è un pensiero che prende coscienza della propria indeterminabilità. Lord Patchogue e la sua immagine si fanno lentamente incontro l'una all'altra. Si studiano in silenzio, si fermano, s'inchinano. Da quale vertigine è stato colto Lord Patchogue. Fu breve, facile e magico: Lord Patchogue si è lanciato a testa bassa. Lo specchio all'urto, al trapasso, vola in pezzi, ma in quanto a lui eccolo dall'altra parte. Eccolo dall’altra parte. Ma: Il rovescio vale il diritto, c'era da aspettarselo. Il passaggio attraverso lo specchio è un topos, letterario, filosofico, psicologico, fondamentale; è l’approdo alla consapevolezza. Ma nel mondo – e nella vita di Rigaut – non può esservi consapevolezza: perché non vi è identità. Ed è questa la sola consapevolezza possibile: il rovescio vale il diritto, c’era da aspettarselo.