Mi concedo una “evasione” dai
territori della fantascienza per commentare un libro affascinante. E
spiazzante. Se sette anni fa mi aveste chiesto chi fosse Jacques Rigaut vi
avrei guardati perplesso. Poi, curiosando tra le novità librarie ben lontane
dallo scaffale dei best seller, fui attratto da questo libriccino. L'elegante
verticalità del formato; il colore seppiato della ruvida carta - quasi
cartoncino; l'immagine della copertina, di squallido e poetico realismo, con
quella porta aperta - che invita - verso il nulla. Il titolo, indubbiamente:
così piacione a prima vista, e che poi si rivela quasi un understatement. Le
note sullo sconosciuto – per me - autore: surrealista, dadaista: irrinunciabile.
La biografia rapidamente schizzata nel risvolto di copertina, che apre uno
spiraglio appena su un'esistenza che dovette essere singolare come poche altre.
Come spesso mi accade, per
molti anni il libro è rimasto da parte. L'ho preso in mano innumerevoli volte,
tornando a leggere il retro e il risvolto di copertina, senza mai decidermi;
continuando a farmi sedurre da quella copertina seppiata, da quell'immagine
perfetta, da quelle scarne notizie su un'esistenza peculiare. Infine ieri sera
inizio a leggere per caso: avrei potuto farlo almeno una dozzina di volte negli
anni passati, ma l'ho fatto solo ieri, senza un preciso perché.
Una lettura affascinante,
dicevo. Sin dalla corposa (in rapporto alla piccola mole del libro) parte
introduttoria biografica. Di Rigaut non sapevo nulla, dicevo; l'introduzione
racconta di una vita affascinante quanto gli scritti raccolti in questo
libretto, e che a quanto pare sarebbero quasi l'intera sua opera reperibile e
sopravvissuta.
Dico affascinante, ma è bene
intendersi. In termini comuni, di affascinante la vita e gli scritti di Rigaut
non hanno nulla. La sua vita, analizzata nei fatti nudi e negli accadimenti in sé,
è la vita di un essere fatuo e inutile – inutile a sé e all’umanità. Se non vi
fossero questi pochi scritti a testimoniare e illuminare la sua esistenza – e a
motivare il fatto che essa abbia ispirato scrittori come Drieu La Rochelle e
registi come Louis Malle – essa non apparirebbe che un vacuum. Ciò che per altro è davvero, a ben vedere, ma con un senso
diverso da quello che intenderemmo. E di affascinante in senso stretto hanno
ben poco anche i suoi scritti. Non per la qualità letteraria e lo stile, che
sono notevolissimi e tanto più sorprendenti se si pensa che Rigaut in vita ha
pubblicato un paio di pezzi di qualche pagina e nulla più, probabilmente per un
totale disinteresse più che per altro: come per ogni aspetto della vita si può
aggiungere. Disinteresse che appare appunto tra le cifre della sua vita e della
sua scrittura. Sono affascinanti, seppure non in senso stretto, perché non sono
il – ricercatissimo – parto letterario di un maudit, ma una testimonianza banale di banale verità. Morto suicida
a trent’anni, drogato fino ai capelli di qualsiasi cosa potesse sniffare o
iniettarsi, Rigaut visse un’esistenza estetizzante da dandy. In ciò che scrive
non vi è nulla di estetizzante, se non tutto quello che scrive; e non vi è
nulla di tossico e maledetto, se non tutto quello che scrive. Contraddizioni apparenti
e reali, come apparentemente e realmente contraddittoria dovette essere la sua
vita. La vita di uno che, realmente, non dovette sapere chi fosse. Se non l’insieme
delle sue reazioni e sensazioni fisiche, corporali. L’unico aspetto di realtà e
umanità che traspare da ciò che Rigaut scrive, e che la sua biografia rimanda,
è questo aggancio con la biologia dell’essere viventi. Ma è anche pura
finzione, in qualche modo, perché il Rigaut pensante, lo spirito di Rigaut
risultano del tutto privi di reazioni. Si
è lasciato vivere è una definizione che nel suo caso assume una verità
profonda. Si è abbandonato al puro flusso degli eventi, disinteressato a tutto
ciò che per la maggior parte degli uomini e delle donne ha importanza; e del
resto ha vissuto fino in fondo, in estremo e con estremismo, la corporeità. Non
perché fosse un suo idolo o una ragione di vita, ma semplicemente perché la
registrava come un fatto ineluttabile al quale non poteva opporsi. O, più in
linea con la sua personalità, perché non aveva interesse a opporvisi (o a non
opporvisi).
Edizione francese degli Ècrits |
Tutto ciò spira da ogni
singola pagina da lui scritta. Quel che ha scritto, il quasi nulla pubblicato
in vita e il resto venuto alla luce postumo, non è altro che biografia. Ogni singola
pagina del libro non è altro che descrizione della sua vita. E ancor più:
fotografia della sua vita. Rigaut è in possesso dell’arte di abbellire come scrive, ma non abbellisce quello che scrive. Si offre e basta. Ma,
ben inteso, non gli interessa offrirsi; la cosa accade come semplice
conseguenza del suo scrivere.
L’individuo dovette essere odioso.
O meglio: doveva risultare odioso. La sua opera apre – letteralmente – una porta
sul nulla: il nulla del suo essere. Non vi era alcunché da odiare davvero in
lui, perché non vi era nulla in lui. Ne si poteva certamente odiare l’apparenza,
questo sì. L’ultimo scritto della raccolta, L’affare
Barrès (si tratta della “testimonianza” di Rigaut al processo fittizio
inscenato dai dadaisti contro lo scrittore reazionario Maurice Barrès), si
conclude con questo scambio di battute:
D.
Lei ha appena mostrato che il suicidio non le sembra difendibile, ma non ha
ancora detto come, condannando tutto, abbia fatto a vivere.
R.
(di
Rigaut) Vivere giorno per giorno.
Ruffianeria. Parassitismo.
La Nouvelle Revue Française di agosto 1930, prima pubblicazione di Lord Patchogue. |
Non è una posa, è un dato di
fatto. È l’accettazione del vivere biologico, la ricognizione del fatto che il
piacere non è un’alternativa preferibile ad altro, è solo meno scomoda ed è
immediatamente percepibile – la sola cosa percepibile. (…) per due mesi non ho saputo che ora fosse grazie all’oppio, all’assenzio,
alla coca e alla generosità di una donna scrive nelle Riflessioni. Non è una posa, è un dato di fatto. L’uomo Rigaut,
semplicemente – e disperatamente – dovette davvero essere apatico, del tutto
privo di emozioni autentiche, condannato ad avere soltanto sensazioni, e a non
poter essere consapevole di essere; condannato unicamente a poterle provare
quelle sensazioni. Se ogni parola del libro costruisce un pezzetto di questa
agghiacciante verità, a far luce chiara su di essa è lo scritto relativamente
più lungo – inedito in vita – qui raccolto: Lord
Patchogue (http://www.noveporte.it/dandy/documenti/patchogue.htm).
Lord Patchogue non è semplicemente
una testimonianza biografica come lo sono gli altri scritti, è vita in atto. È la
testimonianza di una non identità, di una vita privata, più che priva, di
passioni ed emozioni. Deprivata, ancor meglio: apatia. Le sensazioni animali
con cui sono sostituite le emozioni non sono sufficienti, ovviamente, a
riempire quel vuoto: solo a renderlo evidente e permettere per un certo tempo l’esistenza
animale del corpo. Ma è soprattutto l’assenza di identità che si manifesta
attraverso la fungibilità dell’identità a colpire. Non è un’anima in pena, non
è un’anima tormentata quella che si manifesta nel racconto di Lord Patchogue: non è un’anima. E basta.
È un corpo che si muove, che vive, che soffre e prova piacere unicamente sotto
forma di sensazioni fisiche, reazioni fisiche a degli stimoli. Soprattutto è un
pensiero che prende coscienza della propria indeterminabilità. Lord Patchogue e la sua immagine si fanno
lentamente incontro l'una all'altra. Si studiano in silenzio, si fermano,
s'inchinano. Da quale vertigine è stato colto Lord Patchogue. Fu breve, facile
e magico: Lord Patchogue si è lanciato a testa bassa. Lo specchio all'urto, al
trapasso, vola in pezzi, ma in quanto a lui eccolo dall'altra parte. Eccolo
dall’altra parte. Ma: Il rovescio vale il
diritto, c'era da aspettarselo. Il passaggio attraverso lo specchio è un topos, letterario, filosofico,
psicologico, fondamentale; è l’approdo alla consapevolezza. Ma nel mondo – e nella
vita di Rigaut – non può esservi consapevolezza: perché non vi è identità. Ed è
questa la sola consapevolezza possibile: il rovescio vale il diritto, c’era da
aspettarselo.