Le Tre Leggi della Robotica
1) A robot may not injure a human being or, through inaction, allow a human being to come to harm.
2) A robot must obey any orders given to it by human beings, except where such orders would conflict with the First Law.
3) A robot must protect its own existence as long as such protection does not conflict with the First or Second Law.
Poche altre figure partorite dalla fantascienza – forse nessuna – hanno colpito la fantasia e modellato l’immaginario più di quella del robot, l’uomo metallico. Antecedenti di uomini meccanici, statue animate e quant’altro ve ne sono sin dall’epoca omerica, ma il robot nella sua incarnazione di moderna icona fantascientifica è recente e ha un’origine precisa: il dramma teatrale del 1920 R.U.R. (il titolo originale per esteso è Rossumovi Univerzální Roboti: Robot universali di Rossum) dello scrittore ceco Karel Čapek. Il termine venne probabilmente suggerito a Čapek da suo fratello Josef dalla parola ceca robota, lavoro pesante, servile. I robot nascono dunque come creature destinate a servire l’uomo con il proprio lavoro forzato. I robot di Čapek non sarebbero mai considerati tali ai nostri giorni, sono più quelli che noi chiameremmo androidi, o ancora meglio una sorta di organismi biologici artificialmente creati, ma cambia poco: l’idea del robot era nata e avrebbe avuto vita propria. L’idea di un doppio artificiale dell’uomo, di prova del suo potere di creare la vita, seppure così limitata, e di usarne per i proprii scopi. Un golem moderno, tecnologico, che del golem conserva l’ambiguità e la pericolosità. Infatti i robot del dramma si solleveranno contro l’umanità sterminandola e inaugurando in tal modo un cliché che sarebbe durato a lungo. Sul valore dell’opera in questione faccio affidamento sul Buon Dottore, Isaac Asimov, che la reputava illeggibile.
Da allora è passata acqua sotto i ponti, e tanta. Il robot come dicevo è entrato nell’immaginario collettivo e si è ramificato. Isaac Asimov ha ovviamente elaborato le celeberrime “Tre Leggi” riportate qui all’inizio del testo. Non più soltanto schiavo ribelle il robot è divenuto di volta in volta pienamente simbolo del doppio umano; minaccia incarnata della scienza disumana; prova della creatività dell’uomo; essere amputato di parte della propria umanità che aspira alla pienezza di essa (o, infuriato, la ripudia e la combatte); guida saggia dell’uomo o sua super tata (spesso con coloriture sinistre); essere superiore distaccato dai bisogni umani o parodia dei più bassi tra questi bisogni; giullare o filosofo dell’uomo. Sempre e comunque creatura in rapporto simbiotico con l’uomo.
Sembrerebbe dunque che debba esservi gran copia di opere letterarie, cinematografiche e quant’altro sui robot. E’ certamente così, ma non quanto ci si aspetterebbe. Certo, di robot sono pieni libri e pellicole di fantascienza, ma spesso la loro funzione è quasi di soprammobili. Le opere che fanno del robot il loro centro speculativo, o comunque un elemento di rilievo sono in numero molto più esiguo. Limitandomi alla letteratura di fantascienza e tentando un ordine sistematico propongo di seguito un mio breve elenco di romanzi, che come per l’analoga lista incentrata sulla figura dell’alieno può essere intesa come una tra le diverse, possibili strade per inoltrarsi nell’argomento.
Chip di silicio ma non solo
I.A. Intelligenze artificiali. Che siano computer coscienti di sé, network di computer o reti neurali o altro ancora che abbiano sviluppato raziocinio e pensiero autonomi, le I.A. emanano l’idea del potere insito nelle capacità del pensiero. Possono governare astronavi, pianeti, e comunque dirigere la vita umana - come il Multivac protagonista di diversi racconti di Asimov, tra i quali Diritto di voto: http://olivavincenzo.blogspot.com/2009/01/fantascienza-il-classico-diritto-di.html - e possono sviluppare le nostre stesse psicosi, come lo Hal 9000 di 2001 Odissea nello spazio (1969) di Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke.
Simulacron 3 (Simulacron-3, 1964)
di
Daniel F. Galouye (1920-1976)
Questo romanzo non tratta propriamente di Intelligenze Artificiali, quanto dei presupposti stessi della coscienza e della conoscenza. Esplora il concetto di realtà e della sua (ri)conoscibilità. Cosa sia vero e cosa sia falso è dunque il nucleo concettuale che viene investigato all’interno di una realtà virtuale che mima la società umana in molti suoi aspetti (è quindi l’intera umanità quale corpo sociale a essere replicata in un doppio artificiale). Ma in un gioco di specchi la società mimata è ugualmente una realtà simulacrale e così il suo tessuto pare collassare su sé stesso. Qual è a questo punto, a livello di intelligenza, un sensato discrimine tra reale e artificiale, posto che abbia ancora senso tale discrimine? Galouye, uno degli autori meno noti ma più autenticamente visionari del campo ha fortunatamente goduto in anni recentissimi di una riscoperta sulle pagine di Urania e collane collegate.
Software – i nuovi robot (Software, 1982)
di
Rudy Rucker (n.1946)
Matematico e informatico oltre che saggista e acclamato autore di fantascienza, Rucker ha più di ogni altro contribuito a ridisegnare concettualmente il robot e l’I.A. negli ultimi decenni. I suoi bopper, robot, ma soprattutto le colossali derivate I.A. bopper, che hanno sviluppato un’autentica coscienza autonoma in seguito all’innesto nel loro software di un principio “evolutivo” di casualità, non a caso negano programmaticamente le tre leggi asimoviane, e sono al centro di vicende tra il thriller puro e il noir; e i grandi bopper ordiranno e falliranno un tentativo di assorbire non solo le menti umane ma anche quelle dei piccoli bopper. Ma nel frattempo, con semplicità e scioltezza, Rucker utilizzando un sapido registro satirico compie una serie di riflessioni estremamente acute sull’intelligenza artificiale, i confini tra umano e meccanico, le vie evolutive dell’umanità e dell’intelligenza. Il romanzo avrà tre seguiti, che amplieranno la riflessione di Rucker anche ad altre aree della conoscenza e della possibile storia futura dell’uomo.
L’intrigo Wetware (Vacuum flowers, 1987)
di
Michael Swanwick (n.1950)
Halo (id., 1991)
di
Tom Maddox (n.1945?)
Aleph è la macchina che esplora sé stessa. Giunta all’autocoscienza, l’I.A. di Maddox, protagonista principale del romanzo, non si accontenta e indaga le radici, i limiti e il significato di questa autoconsapevolezza. Cogito ergo sum non è sufficiente, l’intelligenza deve risalire alla propria identità in un percorso esistenziale di conoscenza. Maddox fu tra gli iniziatori del cyberpunk letterario, e in questo romanzo che come è classico per molte opere sue contemporanee contamina le atmosfere più prettamente fantascientifiche con le suggestioni del noir egli va al cuore dell’estetica cyberpunk. Sulla scia dei bopper ruckeriani il suo Aleph è la chiave per un indagine sulle prospettive dell’intelligenza artificiale e sul concetto di Sé e di Altro in campo cognitivo.
Manufatti d’acciaio e vari
L’immagine classica del robot è quella di un manufatto di metallo più o meno vagamente umanoide, sicuramente meccanico nell’aspetto. E’ questa la rappresentazione dell’uomo artificiale entrata nell’immaginario, veicolatavi soprattutto dal cinema. Metropolis (1926) di Fritz Lang per iniziare, Il Pianeta proibito (1956) di Fred Macleod Wilcox con il suo Robbie per continuare, e, giungendo a tempi più prossimi a noi i due film che hanno trasposto sullo schermo (e come, ahinoi, come…) L’uomo bicentenario E Io, Robot di Asimov. E’ questo il robot che può spaziare da buffo soprammobile (come in Star Wars) a simbolo flessibile: schiavo o guida, stolido doppio dell’uomo o maestro filosofo.
Gli Umanoidi (The Humanoids, 1949)
di
Jack Williamson (1908-2006)
Espansione del racconto del 1947 With folded hands, questo romanzo, oltre che uno dei migliori risultati di un autore che è stato in grado di essere produttivo e apprezzato in nove diversi decenni, è un brillante aggiornamento del cliché del robot che si ribella al suo creatore (aggiornando a sua volta il mito della creatura di Frankenstein). Certo nessun robot ribelle potrà mai essere genuinamente sinistro e pericoloso come i servizievoli Umanoidi, sempre pronti e solleciti a esaudire ogni bisogno dell’uomo, prevenirne ogni necessità, impedire che egli si metta in pericolo… se pensate che sia il Bengodi fatevene regalare uno. La nera parodia disvela una applicazione implicita davvero implacabile (e la più vera) del dettato delle Tre Leggi che Asimov era andato elaborando in quegli anni.
Io, Robot (I, Robot, 1950)
di
Isaac Asimov (1920-1992)
E’ il primo e il più celebre dei volumi che raccolgono i racconti dei robot che Asimov iniziò a scrivere al principio degli anni ’40. E’ qui che compaiono quelle Tre Leggi divenute il tratto distintivo per antonomasia dei robot. Qui appare il personaggio di Susan Calvin, riuscitissima e umanamente realistica figura (a dispetto di quanto dicesse lo stesso Asimov) di scienziato. I racconti robotici di Asimov operano su un doppio livello: ludicamente sono dei mirabili giochi logici dove l’autore si diverte a mettere in crisi le premesse razionali del suo universo roboticamente ordinato; per contro il robot asimoviano simbolizza la tecnologia e i suoi effetti sulla società e la psicologia umane, e in tutte le opere dello scrittore dove appaiono il conflitto generato dal progresso è sempre presente e operante, e spesso acutamente analizzato.
Anni senza fine (City, 1952)
di
Clifford D. Simak (1904-1988)
Scritti a partire dal 1944, più Epilogue risalente 1973, i racconti che compongono la storia futura di Anni senza fine (talvolta anche in Italia il ciclo è stato pubblicato sotto il titolo originale) costituiscono un’affascinante creazione mitica e una tessitura di simbologie che hanno la base nel sostrato umanistico del lavoro di Simak – e più che umanistico: solidaristico al di là dei generi e delle specie. Sullo sfondo della storia umana che attraversa le epoche e si trascolora in declino e fine dell’umanità, trapassando nell’alba della civiltà dei Cani e di quella delle Formiche, si staglia la figura di Jenkins. Il robot che nei tempi serve fedelmente – e guida - i suoi padroni umani Webster incarna forse la coscienza migliore dell’umanità e il lascito di saggezza (non a caso inumana…) a chi viene dopo.
Cyberiade (Cyberiada, 1965)
di
Stanisław Lem (1921-2006)
Trurl e Klapaucius, i Costruttori, sono i personaggi principali di questa raccolta di racconti di Lem. L’ironia affilata, l’estrapolazione filosofica, la riflessione sulla natura dell’uomo, la sua inesausta ricerca della felicità e altri dilemmi e questioni morali o epistemologiche sono invece gli strumenti e i temi che Lem utilizza in un caso e indaga nell’altro. Trurl e Klapaucius sono i due robot che si muovono in un mondo vagamente di aspetto medioevale, ma dove la tecnologia si esplica in una fantasmagoria di invenzione assurde. E i più fantasmagorici facitori/artefici sono Trurl e Klapaucius, ovviamente. Si perde ogni connotato robotico che non sia simbolico, e sulla “carne” metallica dei due Costruttori si cuciono gli abiti dell’umanità, con una sottigliezza metafisica che va al di là della semplice satira per costruire un apologo dell’uomo.
Acidi nucleici, più o meno
Come si diceva, in R.U.R. il robot nasce proprio come androide, creatura artificiale di aspetto umano. Nonostante questa primogenitura gli androidi danno l’impressione di essere più “moderni” di un semplice robot di metallo. A volte l’androide ha solo fattezze umane (come il Data di Star Trek: The Next Generation), altre volte si tratta di una creatura sì artificiale, ma creata su basi biologiche, per certi versi apparentabile a un clone. In ogni caso esso si presta a estremizzare le simbologie implicite nella figura dell’uomo artificiale: nostro doppio, nostro schiavo che ingiustamente sfruttiamo, ribelle contro l’autorità (paterna o politica che sia), fratello evoluto, mentore o ancora altro.
Il cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968)
di
Philip K. Dick (1928-1982)
Reso universalmente noto dalla sua trasposizione cinematografica nel Blade Runner diretto da Ridley Scott (1982), questo romanzo che è uno dei affascinanti e riusciti di Dick mette in scena alcuni dei temi a lui più cari: i confini dell’identità e della realtà, la creazione biologica artificiale, i problemi identitari della coscienza, i diritti dell’intelligenza autocosciente, il discrimine tra umanità e non umanità, la figura simulacrale. Nessuno meglio dei suoi androidi modello Nexus-6 si presta a questa indagine epistemologica/riflessione sulle diseguaglianze nella nostra società. Nella tangibile, corporea ambientazione di una Terra in disfacimento lo scrittore americano attraverso i dolenti personaggi dei suoi androidi pone con forza al centro della narrazione i risvolti etici e filosofici di esseri (umani) viventi trattati come cose e cacciati come animali.
Solo il mimo canta al limitare del bosco (Mockingbird, 1980)
di
Walter S. Tevis (1928-1984)
Tradotto spesso con il titolo Futuro in trance, Mockingbird è uno dei risultati più maturi dell’ottima attività letteraria di Tevis. Tra i personaggi principali del romanzo si erge la figura di Spofforth, l’androide immortale che desidera la morte. Vertice (con gli altri robot) della sapienza tecnologica di un’umanità immemore della storia, privata di slanci creativi e di ogni scintilla di vita, immersa in una beatitudine ebete garantita, Spofforth simboleggia in parte una proiezione di questa umanità, ma è difficile sfuggire alla suggestione di vedere nel desiderio di morte dell’androide quella pulsione distruttiva che lo stesso Tevis visse per l’alcoolismo. E tuttavia, pur incapace di provare quel sentimento d’amore che attraverso i due principali protagonisti umani del libro, Bentley e Mary Lou, pone le basi di un rinnovato futuro, Spofforth si dimostra il solo in grado di comprenderlo appieno.
I robot e l’Impero (Robots and Empire, 1985)
di
Isaac Asimov (1920-1992)
Non è certo il migliore tra i romanzi di Asimov e neppure tra quelli del ciclo robotico, protagonisti dei quali sono l’investigatore umano Elijah Baley e il suo “collega” androide R. Daneel Olivaw, poi rimasto solo dopo la morte del primo e assurto al ruolo di demiurgo della Storia Futura asimoviana. L’interesse del libro è dato però dal fatto che in esso è per la prima volta resa esplicita, da parte appunto di Daneel, l’implementazione delle proverbiali Tre Leggi con la formulazione della Legge Zero: A robot may not harm humanity, or, by inaction, allow humanity to come to harm. Come Jenkins o Spofforth, ma con logica asimoviana a dettare le differenze, è in base a questo enunciato che Daneel assume su di sé il compito di guida dell’umanità, a simbolizzare il primato del razionale.
Wetware, Gli uomini robot (Wetware, 1988)
di
Rudy Rucker (n.1946)
Con la consueta abilità affabulatoria e l’ironia mordace che lo caratterizza, in questo diretto seguito di Software Rudy Rucker rovescia il consolidato universo delle storie robotiche. I bopper, i suoi nuovi robot, creano i meatbop, esseri umani con del software innestato nel loro materiale genetico per vendicarsi di quanto avvenuto in precedenza. Da qui parte una girandola di avvenimenti che vede senza sosta umani, bopper e meatbop cercare di farsi vicendevolmente la forca con successo variabile. Muore (ri-muore, dopo essere stato roboticamente riportato in vita) Cobb Anderson, l’uomo che aveva creato i bopper autocoscienti grazie al software “evolutivo” che aveva inventato e innestato nei primi di loro. L’altro principale protagonista umano, Stahn (lo Stan Mooney/Sta-hi di Software) stermina i bopper, ma è proprio in lui che rivive il sogno di creare il wetware, la forma di “vita” che concretamente realizza il binomio software+biologia.