È
d’obbligo una premessa: Michele Medda è un amico, e questo può naturalmente
falsare il giudizio.
È
però opportuna anche una seconda premessa: inteso in astratto, l’argomento di
Lukas non è esattamente nelle mie corde, e questo fornisce con qualche probabilità
un bilanciamento. In verità, e per dirla tutta, se vampiri, licantropi, zombie
o ridestati che siano non sono mai stati al vertice delle mie preferenze
narrative, negli ultimi anni la loro dilagante invadenza è diventata una vera e
propria rottura di… sì, insomma: di J.
Perciò quando seppi quale sarebbe stato l’argomento della nuova serie di Medda
dopo Caravan (di cui ho scritto qui: http://olivavincenzo.blogspot.it/2010/01/caravan-spedizione-verso-lignoto.html)
non ero propriamente entusiasta. Non-morti di vario genere calati nell’ambientazione
di una indeterminata città corrotta e anonima non sembravano cosa troppo
allettante. Urban fantasy? Gli amanti
delle etichette effettivamente paiono orientati verso tale sistematizzazione.
Avrei
però dovuto fidarmi quanto meno della storia dell’autore per i miei timori, e
quanto alla necessità di un’etichetta editoriale, se proprio ne dovessi
indicare una sarebbe quella di speculative
fiction, più in grado di tutte di rendere conto della densità narrativa
della storia. Quanto meno di questa prima.
Michele Medda |
Deathropolis,
primo albo di 24 di una serie che si intuisce sarà unitaria e in progressione,
è senza dubbio una storia interlocutoria, una prima presentazione del
protagonista e dei temi della serie. Dell’uno e degli altri fornisce con asciuttezza
una chiara traccia – sarà da vedere quali e quante divagazioni e quali e quanti
sovvertimenti dovessero occorrere. Sebbene questa interlocutorietà dell’albo
sia evidente, la narrazione è anche perfettamente conclusa: il primo episodio
apre gli scenari della serie e squaderna l’essenziale del protagonista (i
dettagli emergeranno sicuramente nei mesi a venire), ma è anche un racconto
compiuto in sé. È ormai invalsa l’abitudine, non saprei quanto opportuna, di
accostare sempre più la struttura del fumetto seriale a quella dei serial
televisivi parlando di “stagioni” e partendo le dodici uscite annuali di una
serie a fumetti (laddove si tratti di fumetti mensili, ovviamente) in archi
narrativi che si rifacciano appunto alle stagioni di un serial televisivo. Non
so quanto l’accostamento sia opportuno, scrivevo, tuttavia per questo primo
albo di Lukas non è davvero sbagliato parlare di un “pilot”. Un ottimo “pilot”,
in grado come detto di mettere immediatamente sul tappeto le caratteristiche
della serie e quelli che intuitivamente saranno gli elementi cardine del
carattere del suo protagonista; così come di suscitare l’interesse del lettore
per il prosieguo della serie; e infine di fare l’una e l’altra cosa attraverso
la vetrina di una storia che, nella sua semplicità narrativa, si rivela
stilisticamente raffinatissima e in grado di innescare le prime riflessioni. Non
manca nulla davvero nell’economia di una storia ricca di elementi, proiettati
nel futuro della serie e radicati nell’immediato dell’albo.
Una
volta tanto, in rete sembra che quanto meno i lettori più attivi e reattivi sui
forum dedicati al fumetto si siano resi conto delle potenzialità della serie
mostrate dal suo primo albo, e delle qualità di fattura dell’albo stesso. Che
questo si traduca in un successo di vendite è probabilmente chimerico, forse in
Italia l’epoca dei grandi numeri è definitivamente tramontata per il fumetto; e
comunque i due fenomeni della qualità dell’opera e della quantità di copie non
sono mai state grandezze necessariamente in proporzione diretta.
La prima tavola |
Il
racconto si apre su due pagine splendide, in primo luogo per la traduzione
grafica delle scelte di sceneggiatura, e in secondo luogo naturalmente per
dette scelte e per la bellezza in sé del disegno. Ché, se il lavoro di Michele
Medda è stato curatissimo in ogni particolare del soggetto e attento a che la
sceneggiatura esaltasse la storia, il creatore grafico Michele Benevento ha
saputo rendere alla perfezione tali cura e attenzione, e creare attorno al
personaggio e alla storia un’architettura grafica che trasmette con vigore le
suggestioni e le emozioni del racconto, una scenografia urbana e una galleria
umana che gettano il lettore dentro Deathropolis, dentro la città senz’anima e
senza nome che di questo anonimato e questo vuoto fa la propria cifra.
Un
modesto consiglio en passant alla redazione: quella didascalia sul frontespizio
(Quella era una città spietata ecc.)
ce la possiamo evitare: non siamo ancora al livello di dover essere assistiti –
anche se continuando con certi fumetti e certi spiegoni rischiamo seriamente di
aver bisogno di assistenza: psichiatrica.
La seconda tavola |
Le
prime due pagine: Deathropolis e
Lukas si aprono su una sequenza che con la massima semplicità fornisce il
massimo delle informazioni sul personaggio in scena. Il “risveglio” di Lukas, i
suoi piedi che sfondano la lapide del suo loculo al cimitero, le reazioni, le
sensazioni di chi effettivamente si ridesta da qualcosa di analogo a un letargo
e i cui ricordi sono confusi, a brandelli. Le didascalie, nere con il lettering
bianco, usate come fossero i pannelli del cinema muto che sostituivano un audio
ancora indisponibile, avvolgono l’intera scena, le danno corpo e la rivestono
di atmosfera – quella famigerata atmosfera che troppo spesso è ricercata come
un effetto speciale a buon mercato, e che qui emerge nitida dalla successione
di precise scelte stilistiche. Didascalie in terza persona che innerveranno l’albo,
accompagnando il protagonista non solo in sostituzione dei balloon di pensiero:
principalmente per ottenere un effetto straniante e di distanziamento, dal
protagonista e del protagonista, ma anche per marcare una precisa scelta di
narrazione più “adulta”. Il bianco e nero di Benevento è netto, violento,
nitido, dettagliato. Aggiunge una patina di elegante freddezza alla fredda
eleganza della prosa di Medda e alla secchezza della narrazione (la penultima
vignetta della seconda tavola è come una miniatura brecciana da Gli uomini dagli occhi di piombo,
suggello quanto mai adatto per questa sequenza d’esordio). Di qui la storia si
dipana di conseguenza, sviluppando le premesse quasi con geometrica
progressione. Freddamente.
Freddezza.
La freddezza che permea la prosa, i dialoghi, le atmosfere di Lukas non appare
un difetto né un limite. È anzi l’ingrediente necessario perché prosa,
dialoghi, atmosfera, personaggio, storia e tono generale della serie
sedimentino nelle emozioni del lettore e vi facciano presa. Deathropolis è di una crudezza
inaspettata e inusitata in un fumetto bonelliano, sebbene non sia una novità (è
una crudezza di ritorno, che il lettore è ben lieto di poter ritrovare in una
versione realistica e matura, non plastificata e infantile come negli ultimi
anni è capitato).
Per
certi versi è accostabile a un fumetto da lungo tempo scomparso: il Dylan Dog
degli inizi. Con una sostanziale differenza: lo Sclavi degli anni ’80 e dei
primi anni ’90 aveva una scrittura calda, di stomaco. Una scrittura che faceva
appello alle emozioni del lettore, al loro scatenarsi, per raggiungerne in
qualche modo l’anima e il cervello – ma non era una conclusione che fosse
necessaria. Medda, e sicuramente questo Medda, ha una scrittura controllata e fredda,
di testa. Fa appello alla coscienza vigile del lettore, o meglio la brutalizza,
per suscitarne le emozioni e indurre la riflessione e toccarne così l’anima. Non
vi è alcuna gerarchia nei due registri, solo differenza. Che in qualche modo si
traduce in un tono più “adulto” e “scarno” della scrittura meddiana e uno più “ricco”
e “d’impatto” di quella sclaviana. I dialoghi, da sempre un punto di forza dell’autore
non meno delle sue didascalie, sono cinici e taglienti, caratterizzati da un
sarcasmo che spesso pare andare oltre le righe, indulgere nel compiacimento e
gigioneggiare con la propria abilità, ma che non di meno sono parte integrante
del tono e dell’atmosfera della storia, difficilmente pensabile senza dialoghi
che a volte sembrano fuori misura.
Michele Benevento (più o meno ;-)) |
A
latere di tutto questo ci si può divertire a ricercare e rinvenire le metafore
sottese o più precisamente sovraestese da Medda al racconto. Divertire non
perché sia un esercizio sterile o minore, ma perché è quasi un momento di
leggerezza ludica il poter staccare dal ritmo ampio e disteso dell’albo, ma che
ugualmente richiede tutta l’attenzione del lettore; staccare da una scansione
narrativa che esige la capacità del lettore di porre attenzione alla raffinata
complessità mascherata da naturalezza facile. Metafore sovraestese, e anzi
neppure metafore, perché non vi è nulla di sotterraneo nella realtà umana e
urbana di Deathropolis. Medda costella l’albo di vampireschi, licantropici
ridestati, ma essi non mascherano nulla: l’emergenza della realtà nuda e cruda,
le nostre realtà e cronaca quotidiane, è a tal punto immediata e brutale da
apparire rozza. Non vi è nulla di sotterraneo nella prospettata dominazione di
una classe di parassiti biologici, sociali, culturali, psicologici su un’umanità
in gran parte ignara, e ignara perché troppo torpida per risvegliarsi – essa sì
– a una vita consapevole. Proprio come in qualche modo era evidente, esibita,
urlata la metafora/non metafora in Il
Quinto Principio di Vittorio Catani, splendido capolavoro e vero unicum della fantascienza italiana (http://olivavincenzo.blogspot.it/2010/02/fantascienza-i-contemporanei-il-quinto.html).
Insomma, se siete ciechi e non vi svegliate è davvero colpa vostra.
Lukas
sarà l’inevitabile granello di sabbia destinato a inceppare il meccanismo dei
dominatori? Probabilmente sì. Come sempre o quasi, Michele Medda è rispettoso
della tradizione bonelliana; non per conservatorismo, ma per consapevolezza
delle potenzialità di una formula e un formato che hanno reso possibili
innumerevoli storie che hanno fatto la storia del fumetto italiano; e perché a
onta delle rigidità di questa formula e di questo formato (rigidità, per altro,
editoriali e redazionali, non della formula e del formato) consentono una
libertà e un’inventiva narrativa molto ampie. In questo primo albo Lukas nasce “ignaro”,
come ignari sono gli uomini e le donne comuni di Deathropolis. Ma naturalmente
egli è ignaro in un modo diverso: questa sua qualità è quanto suscita in lui l’inquietudine
morale e psicologica che è il marchio di chi intraprende un percorso di
risveglio della propria coscienza. In questo primo albo Lukas si è risvegliato
come corpo, corpo che è punto dal pungolo dell’inquietudine interiore a
muoversi e cercare. È immaginabile che nel corso dei 24 albi che andranno a
comporre la serie, questo risveglio da puramente fisico finisca per
completarsi, tradursi in un risveglio della coscienza e dell’umanità del
personaggio.