venerdì 31 luglio 2009

[fantascienza] I contemporanei - Tipi diversi di oscurità (Different kinds of darkness - 2000) di David Langford (1953 - )


Immagini troppo orribili perché lo sguardo umano le sopporti. Il tema, di ascendenza quanto meno lovecraftiana ed evidenti connotati orrorifici, è passibile di usi e interpretazioni molteplici; e in mani abili non può mancare di appassionare. Langford, fisico di formazione, imbastisce una storia esclusivamente (fanta)scientifica, senza curarsi dei possibili riflessi horror se non brevemente nell'eccellente incipit del racconto, come pura coloritura di atmosfera. Disquisendo con amabilità di ottica, matematica e neurofisica, in poche pagine sa fondere le suggestioni di un classicissimo plot fantascientifico (problema/studio del problema/soluzione del problema) e di una non meno classica avventura di iniziazione adolescenziale.

Protagonisti del racconto sono i membri del Club del Tremito, Jonathan, Gary, Julie e il loro leader Khalid. E l'oscurità. Siamo in un futuro, probabilmente non troppo lontano, dove all'esterno degli edifici - ma a volte anche in reconditi locali interni - si vive immersi in una oscurità densa e spessa che inibisce ogni vista ed è impermeabile a qualunque fonte di luce. Quanto meno i giovani vivono questa situazione, perché gli adulti paiono non essere impediti da tale oscurità, o non esserlo sempre e in modo eccessivo. Le varie chiacchiere scientifiche dei ragazzi partono da qui, e da un disegno trovato casualmente in una fotocopiatrice della loro scuola: un'immagine troppo orribile perché un essere umano la sopporti, come minimo senza soccombere a un tremito incontrollato. La sfida del Club, che da ciò prende il nome, è di sopportarne la vista, e per riuscirvi i ragazzi si sottopongono a progressive e sempre più prolungate esposizioni all'immagine.

Tra ipotesi di configurazioni visive che disturbano o inibiscono le funzioni neurocerebrali fino a giungere al blocco mentale e alla morte, e la possibilità di mitridatizzare la mente dai loro effetti, è divertente seguire lo scioglimento della vicenda attraverso lo sci-bubble di Langford. Forse è però più interessante l'ambiente sociale che egli descrive, con terroristi "anarchici" che si servono delle immagini mortali per terrorizzare e mettere sotto scacco il pianeta, e una società che sa reagire solo moltiplicando le strutture di controllo e manipolando a fondo l'essere umano (ma, forse, ancora aperta a soluzioni innovative e ragionevoli). Sono solo brevi accenni, ma netti. A ciascuno le sue conclusioni.

Il racconto è parte di una serie che l'autore va scrivendo da anni, e di cui non credo sia giunto altro in Italia; tuttavia funziona benissimo a sé. Langford ha una scrittura molto semplice, priva di grandi risorse stilistiche, ma che rende bene le situazioni descritte. Come dicevo, Tipi diversi di oscurità è una storia di impianto classico, sia come trama e personaggi che come stile di scrittura, ma con un occhio attento agli interessi della fantascienza più recente, alle frontiere della manipolazione dell'informazione e delle coscienze, all'ibridazione uomo/macchina e alle sue conseguenze psicologiche e sociologiche. Senza esagerare: la componente avventurosa rimane prevalente, insieme al gustoso sfarzo delle varie ipotesi scientifiche e pseudoscientifiche. Il tutto organizzato come un meccanismo a orologeria e narrato di conseguenza, al punto da meritarsi nel 2001 il premio Hugo per il miglior racconto breve. Come tale, è apparso in Italia sulla raccolta dei premi Hugo 1999-2001 pubblicata dalla Nord, quando ancora pubblicava fantascienza :-/. In origine era apparso su Fantasy&Science Fiction, una delle più importanti riviste americane di sf.

David Langford è pochissimo noto in Italia, ma nei paesi anglosassoni è una sorta di istituzione. Britannico, è uno storico membro del fandom e da decenni pubblica una delle fanzine più seguite e famose. Da almeno trent'anni pubblica copiosamente racconti e romanzi, in netta prevalenza su pubblicazioni semi-professionali e amatoriali. E in tale doppia veste di superfan e scrittore amatoriale ha ricevuto carrettate di premi.

sabato 25 luglio 2009

[fantascienza] Il classico - Ritorno su Terra (Earthscape 1982) di Robert F. Young (1915-1986)


Non c'è nulla di più sfuggente della fantascienza. Per il profano è un cumulo di scemenze che si occupa di alieni verdi, robot impazziti ed effetti speciali cinematografici; alcuni profani si spingono, quando gli si propongono esempi di cosa possa essere, al rifiuto caratterizzato dal classico "Vabbe', ma questa NON è fantascienza!". Non lo sarebbe perché l'elemento fantascientifico sarebbe puramente accessorio laddove la storia tratterebbe essenzialmente di altro, ad esempio di riflessione sociologica (Il mondo nuovo o Il Signore delle Mosche); oppure perché sotto una sottilissima patinatura fantascientifica l'impianto sarebbe realistico (Preludio allo spazio). Per il fan è un Santuario caratterizzato da Sacre Regole; ogni fan ha le sue, ma entro certi limiti vi è una flebile, ma non troppo, comunanza di visioni: che sia il mitizzato sense of wonder o altro, la fantascienza deve differenziarsi nettamente dalla letteratura realistica. Il che pare ovvio (ma forse non è così vero, chissà).

L'intemerata qui sopra me l'ha ispirata la lettura del racconto di Young. Probabilmente metterebbe d'accordo tanto il profano che il fan: entrambi non lo considererebbero fantascienza, per eccesso di realismo. Realismo ad onta del fatto che il protagonista sia un reduce da un lungo periodo di lavoro alla costruzione della prima colonia umana stabile su Marte. Potrebbero aver ragione. Apparentemente. Il breve racconto, infatti, date per poste dette premesse, si dipana tra il racconto di costume e quello psicologico e d'amore. In realtà esso tocca il cuore, il punto nevralgico della fantascienza. Il suo nucleo: il sogno. La natura del sogno. E cos'altro è, cos'altro può essere la fantascienza se non la risposta più profonda al bisogno dell'uomo di sognare, di immaginare, di concepire una vita altra dalla propria? Una traduzione letteraria della propria inquietudine, e della sua curiosità per l'incognito. In modo schematico, data anche la brevità del racconto, Young pone il suo protagonista nella necessità di scendere davvero dentro sé stesso e comprendere quali siano i propri sogni, le proprie aspirazioni: in ultima analisi la propria identità. Protagonista che era andato su Marte perché i dieci lunghi anni della grama e dura permanenza gli avrebbero permesso una nutrita serie di privilegi una volta tornato sulla Terra. Nientemeno che di "sistemarsi": impiego statale garantito, magari in un comodo ufficio postale come auspica suo padre, e uno status di quasi-eroe abbastanza matto da essere stato su un sasso nello spazio al cui confronto la vecchia frontiera americana sarebbe un agriturismo perfettamente organizzato. Neil, il protagonista appunto, ora desidera la prospettiva apaticamente; come in modo apatico torna a frequentare Judy, un'ex fidanzata dei tempi della scuola ritrovata divorziata con tre figli, e desiderosa di ritentare la vita familiare e costruire un'esistenza perfettamente borghese, perfettamente prevedibile, sicura. Un'esistenza americana da sit-com viene da dire. Un'esistenza che egli accoglie con progressiva freddezza, quella stessa freddezza che percepisce quando ha a che fare con Judy e i suoi marmocchi, che pure lo adorano, e sono una vera cartolina dagli Stati Uniti. E' questo il sogno per cui ha lavorato per anni su Marte come una bestia da soma? Pat, ex spogliarellista, spirito libero, incontrata al bar dove lo porta il padre al suo ritorno da Marte e che lì lavora come barista, è forse l'innesco della riflessione sulle proprie aspirazioni, su ciò che egli davvero vuole, su quale sia la vita di cui ha bisogno. Se risponde alla schematicità di cui dicevo il fatto che i due si innamorino e decidano di tornare/andare su Marte, non vi è nulla di schematico nella maturità con cui Young presenta narrativamente l'evento, conducendo l'uomo e la donna a una decisione del tutto consapevole, e del tutto indipendente l'uno dall'altra: non è il loro innamorarsi a spingerli verso Marte e la dimensione "avventurosa" che esso rappresenta, ma è la coscienza infine chiara dei loro desideri, progetti e aspettative che li conduce a trovarsi e innamorarsi. E se Pat ha certamente stimolato la riflessione dell'uomo sui suoi bisogni reali, è indubbio che egli abbia canalizzato in una direzione infine netta e chiara la nebulosa dei sentimenti e la vita vagabonda della donna.

La storia potrebbe funzionare benissimo allo stesso modo se fosse un racconto su un emigrante di ritorno al paese natale da una terra lontana e avvolta quasi nel mito, potremmo immaginare un italiano di ritorno dalla Terra del Fuoco alla fine del XIX secolo: apparentemente nulla cambia, e il profano e il fan hanno ragione. Eppure a me pare che cambi la prospettiva: storicizzando, si sottrae quello che è l'elemento più caratteristico della letteratura del possibile, l'idea appunto della possibilità. Dell'ipotesi. Introdurre Marte invece della Terra del Fuoco introduce da subito l'elemento ipotetico, predispone psicologicamente a riflettere su qualcosa che non è ricordo, dato storico e realtà, ma al converso rappresenta una proiezione e quindi un'elemento speculativo sull'ignoto. Naturalmente, storicizzando si ha invece il vantaggio di individuare entro coordinate culturali e temporali precise la vicenda. Sono due strategie diverse ed entrambe stimolanti e ricche di implicazioni. Young è abile nel costruire una storia intimamente fantastica e di fantascienza, rivestendola di un realismo autentico nel delineare i caratteri umani. Un realismo a-storico, direi, rappresentando le due eterne tensioni dell'uomo tra sicurezza e irrequietezza.

L'abilità di Young nasce dal suo stile e dalla misura controllata della sua scrittura, che in genere viene definita come "poetica" e "romantica". Definizioni che quasi sempre non definiscono un emerito fico secco ;-), o peggio fanno pensare a sdolcinatezze e svenevolezze varie. Ecco, no. Il vero romanticismo e la vera poesia possono essere duri e scabri, come venati di un lirismo che nulla ha di fievole e zuccherino ed è invece ardore e se necessario dolore. C'è un breve frammento di Saffo che credo renda chiaro a perfezione cosa siano un genuino afflato romantico e la poesia autentica:
E' tramontata la luna
insieme alle Pleiadi
la notte è al suo mezzo
il tempo passa
io dormo sola

Young non è ovviamente Saffo, ma anche egli sa come toccare le corde delle emozioni del lettore senza alcuna concessione alla corrività di queste: lavora in profondità, Young, non in superficie.

Robert F. Young è un nome pressoché dimenticato in patria e pochissimo conosciuto da noi. Non identificabile con dei cicli, e autore in un trentennio abbondante di carriera di una gran messe di racconti ma di solo un pugno di romanzi, le modalità della sua produzione e il suo essere scrittore appartato dal milieu letterario lo hanno predisposto in modo quasi naturale all'oblio; il che è un peccato. In Italia sono stati tradotti e pubblicati un certo numero di racconti sparsi qui e là in antiche antologie collettanee su Urania e più raramente altrove, oltre a due antologie personali edite in tempi eroici da Galassia. Che io sappia, non è stato tradotto nessuno dei pochi romanzi, che dalle date di pubblicazione negli USA debbono essere stati scritti dopo che Young andò in pensione dal suo lavoro "istituzionale" di bidello in una scuola pubblica. Compromesso tra sicurezza e irrequietezza, tra l'ufficio postale e il Marte del protagonista di Earthscape.

Il racconto fu pubblicato nel 1982 sulla Isaac Asimov's Science Fiction Magazine, e lo stesso anno è arrivato in Italia, sul n.11 della seconda incarnazione italiana della rivista, quella diretta da Vittorio Curtoni reduce dal fallimento (in senso editoriale...) di Aliens.

V.

martedì 14 luglio 2009

[fantascienza] I contemporanei - Otto episodi (Eight episodes - 2006) - di Robert Reed (1956- )

Americano del Nebraska, Robert Reed ha ormai sulle spalle un'attività letteraria più che ventennale nel corso della quale ha pubblicato una dozzina circa di romanzi e una copiosa messe di racconti. Resta poco conosciuto qui da noi perché di quanto ha scritto è giunto poco in Italia, solo un certo numero di racconti e novelle sparsi per lo più nelle antologie periodiche dei Millemondi di Urania. E' un ospite molto frequente delle varie antologie annuali che raccolgono il meglio della narrativa breve di fantascienza, un merito in genere confermato dalla lettura dei suoi racconti apparsi anche in italiano. Come è il caso di questo, appena pubblicato sul più recente numero (il 57) di Robot.

Reed è un biologo di formazione, in genere molto attento al dato scientifico nella sua narrativa, e in particolare ai riflessi sulla società umana che le estrapolazioni scientifiche utilizzate nelle sue opere potrebbero avere. Ambientato a pochissimi anni nel nostro futuro, questo breve racconto è un buon esempio di questa caratteristica dell'autore, cui si aggiunge una riflessione soffusa di
leggerissima ironia sui meccanismi della società dello spettacolo in genere, e in modo particolare della televisione, delle sue modalità di produzione e fruizione. Il titolo si riferisce agli otto episodi di uno stranissimo telefilm americano di fantascienza, inizialmente così sottovalutato e in apparenza mal fatto, da essere cancellato dopo soli otto episodi di programmazione. Ispirandosi sicuramente alle sorti della serie originale di Star Trek, assurta a mito qualche anno dopo
essere terminata, Reed mostra come un pubblico ristretto ma appassionato e altamente qualificato - tutti scienziati - decreti a posteriori il successo di Invasione di un piccolo pianeta. Con uno stile piano e quasi ipnotico, Reed architetta abilmente il parallelo tra il destino del serial e il progressivo nascere e poi svilupparsi del dubbio che dietro di esso vi sia davvero un'invasione aliena. O più correttamente, forse, una "visita" da parte di inattesi ospiti antichissimi. Visita molto sui generis, per altro. Il tema, che sia l'invasione vera e propria in stile marziani di Wells o meno, è dei più antichi e caratterizzanti della fantascienza, ma Reed riesce a trattarlo con un timbro molto personale ricavandone un racconto quasi sardonico; di certo in grado di stuzzicare vivacemente la curiosità del lettore e fargli inarcare un sopracciglio divertito. Costruendovi attorno un'ipotesi affascinante, semina il dubbio se effettivamente si
tratti di un'invasione/visita, o se invece non sia un pacifico modo per scongiurare visite (o peggio) da parte nostra. Reed non lo dice, ma tutti sappiamo come non sia molto igienico suscitare la curiosità degli umani; foss'anche per mostrar loro che una cosa è impossibile ;-).

Nell'economia delle poche pagine di Otto episodi Reed riesce a fare davvero molto. Sviluppa in chiave attuale un plot classico e assai visitato del genere; offre un flash satirico molto acuto sui meccanismi dei nostri divertimenti televisivi; crea un'effetto di divertita e divertente storia nella storia. Fa appassionare alle stranezze di Invasione di un piccolo pianeta, dei suoi personaggi mille miglia lontani dagli standard televisivi di maggior (e miglior)
successo. Un racconto cui calza a pennello la definizione di speculative fiction coniata a suo tempo da Heinlein e che la ricchezza di suggestioni compresse nella sua brevità rende sfizioso da leggere, come un assaggio delle potenzialità della fantascienza. Un piccolo, grande racconto.

giovedì 9 luglio 2009

Sublime nulla: Io sono un gatto, di Natsume Sōseki (1867-1916)

Accantono momentaneamente la fantascienza per la bellezza e l'eccezionalità di questo romanzo, il primo di Natsume Sōseki (nom de plume di Natsume Kinnosuke).



E' possibile scrivere per cinquecento pagine senza dire nulla? Di sicuro molti scrittori di bestseller e di fumetti alla moda vi riescono. Però si può essere a tal punto abili da dare l'apparenza di farlo. Io sono un gatto sembra non raccontare nulla per le cinquecento pagine del suo fluviale fluire di pagina in pagina, al ritmo lento e torpido dei pigri, svagati giudizi con cui il felino protagonista contrappunta di svagata e a volte bislacca saggezza il suo osservare gli uomini e i loro comportamenti e pensieri. E' l'effetto ipnotico e sviante dello stile narrativo di Natsume: una scrittura che in origine è immediato figurarsi come musicale e seducente, un inseguirsi di arabeschi verbali a comporre una tela magica dentro la quale idee, sensazioni e impressioni si rincorrono, intarsiano, nascondono alla vista dei lettori per poi farsi ritrovare da quelli più attenti. La traduzione lascia scorgere quanto può di questo universo verbale e fonetico, e consegna intatta una capacità di narrare sublime. E' pura narrazione questo romanzo; nel senso di abilità di affabulare, avvincere, trasmettere il proprio pensiero e ancor più le emozioni, i moti dello spirito, e ogni loro minima sfumatura: perché la densità dei concetti, dei sentimenti, dell'analisi di sensazioni e idee, è in proporzione alla rarefazione dell'azione. Fino a comporre una realtà narrativa che pare naturalismo in presa diretta.

Davvero non accade nulla nel romanzo. Nulla di memorabile avviene nel corso dell'anno di vita di un gatto innominato che il romanzo racconta, privo com’è di una vera trama. Gatto che l’autore dota di un’umanità e, contemporaneamente, alienità, cesellate con cura maniacale: ogni parola ha un suo posto, un suo scopo, una sua funzione precisa nel libro. Attraverso gli occhi del gatto noi osserviamo però l'intera umanità dispiegarsi davanti ai nostri di occhi, rappresentata in modo esemplare e completo, fino alla minuziosità più estrema, dai membri della famiglia presso la quale il micio è ospitato. Insieme agli amici del capofamiglia, il professore di liceo nel quale Natsume ritrae sostanzialmente sé stesso, viene a formarsi un consesso che ci svela ogni piega più nascosta dell'animo umano - del nostro animo. Non esce bene, l'umanità, dalle osservazioni a volte lunari del gatto di casa. Eppure non solo non si scorge moralismo alcuno o condanna, ma sotto traccia è perfettamente percepibile una simpatia, quasi un amore per noi creature così imperfette e quasi sempre sgradevoli. Un umanesimo, che grazie allo strumento principe di un'ironia tanto sottile e impalpabile quanto pervasiva e in grado di impregnare ogni pagina del libro, mostra gli esseri umani con una serenità ed un'equanimità difficilmente riscontrabili altrove. Un'ironia che si fa satira elegantissima in alcuni personaggi dai quali Natsume lascia trasparire il suo sguardo tra pungente e amorevole nei confronti della filosofia zen, e più in generale della pensosità e sentenziosità di certo tipo di intellettuali orientali; efferata al riguardo, la figura del professor Meitei, probabilmente il più riuscito di tutti i personaggi umani, la cui lingua è tanto raffinata, leggera ed elegante quanto impietosa verso le sciocchezze e la stupidità. Per contrappasso, Natsume non ne nasconde una certa vanità di fondo che mette a nudo l'inconcludenza del cinismo, per quanto intelligente e acuto possa essere. Di nuovo e di nuovo un atteggiamento duplice, che si conferma non essere un segno di ambiguità, ma di completa, serena ed equanime accettazione della realtà. Profonda comprensione di essa.

Dai dialoghi dei protagonisti, quasi rappresentazioni teatrali, si ricava inoltre un ritratto dettagliato della società giapponese nel pieno del suo trapasso alla modernità. Il romanzo è del 1905-06; se non l'iniziatore della letteratura giapponese moderna, Natsume è stato il suo maggior rappresentante dell'era Meiji, quando il Giappone si è scrollato il medioevo di dosso e si è posto alla rincorsa dell'Occidente. E tale problematica è avvertibile lungo tutto il corso del romanzo. Non è un misoneista in linea di principio Natsume (come avrebbe potuto? Era un insegnante di inglese), e al di sotto della malinconia e della nostalgia di un Giappone che andava sparendo o era già sparito non si avverte nulla di così facile e banale come la moralistica condanna del nuovo a fronte dei valori (sempre e comunque migliori) del tempo andato. E’ ancora una volta l’equanimità con la quale si pone dinnanzi all’oggetto delle sue considerazioni a fare la differenza. A rendere la sua vista per certi versi profetica. Natsume individua con lungimiranza i nodi che verranno al pettine di questo “nuovo” Giappone. Vi è piena consapevolezza dell’inevitabilità del prezzo da pagare per la modernizzazione del paese, e dei benefici di essa. Tuttavia vi è anche un rimpianto che non è nostalgico, ma pienamente conscio, per quegli aspetti della morente civiltà giapponese che non sono/erano vuotamente tradizionali quanto invece caratteri fondanti di un’identità antropologica molto più e prima che nazionale. Un ancoraggio profondo al sé senza il quale ogni essere umano rischia la deriva.