I libri donano piacere a chi li ama. A leggerli. A guardarli, anche. Alcuni a soppesarli in mano, leggeri con copertine lucide, fresche; o alle volte solidi, spessi, la copertina un po' ingiallita e ferita dal tempo, illustrazioni che testimoniano un gusto un po' passato, ma anche una sorta di calda e confortevole personalità del volume. E' il caso della storica edizione dello S.F.B.C. (Science Fiction Book Club) di una storica antologia braduryana, Le auree mele del sole. Alcuni libri acquistano vigore con il tempo; o più precisamente un sapore deciso e definito, come un vino che invecchia bene nella sua botte. E' di nuovo il caso di questo volume, stampato or sono quarantacinque anni, che talvolta riprendo in mano sfogliandone piano qualche pagina a caso, invecchiata e ammantata da quella patina di incanto anacronistico che hanno le vecchie storie di fantascienza; leggendo qui e là qualche riga. Ieri mi sono soffermato qualche secondo di più, e ho preso a rileggere l'ultimo racconto del volume, quello che gli dà il titolo. Appartiene, il racconto come l'antologia, al periodo del maggior fulgore di Bradbury, tra la metà degli anni '40 e la metà dei '50 del secolo scorso.
Non credo di dover presentare l'autore. Ancora oggi credo che sia, come sottolineava anche allora il prefatore del volume, l'autore di fantascienza più noto al di fuori dell'ambito dei fan della fantascienza; e questa è forse una delle cause per le quali, tra costoro, Ray Bradbury è probabilmente più famigerato che famoso: Bradbury si emancipò rapidamente dal mercato delle riviste di settore, povero di compensi e inevitabilmente spesso di bocca buona, scrivendo copiosamente per le pubblicazioni più prestigiose degli Stati Uniti, dal New Yorker a Collier's a, in seguito, Playboy (ma questo racconto, l'oracolo della fantascienza italica Vegetti lo dà pubblicato in origine su Planet Stories, rivista pulp quanto altre mai); e questo per i fan è tradimento. Del resto, i fan sono quei bizzarri individui per i quali l'universo coincide con la loro ossessione a senso unico, quindi trascurarne i furori è virtù ;-). Certo, loro - e con loro i colleghi di Bradbury - si sono vendicati: l'autore delle Cronache Marziane non ha vinto un premio Hugo o Nebula che sia uno; i colleghi lo hanno tuttavia onorato con quel titolo di Grand Master che la fama e le sue opere gli avevano meritato.
Un secondo più specifico e più sensato motivo di disagio per i fan è dato dalla natura della narrativa bradburyana, sempre al confine tra la fantascienza e una dimensione più libera, più liberamente fantastica. Sfugge a ogni facile catalogazione, e questo la rende scomoda, provoca sofferenza intellettuale al pensiero di non sapere se sia science fiction oppure fantasy - perfino horror. Al di fuori di scopi di mera catalogazione, anche questo aspetto può essere però accantonato con tranquillità: che sia l'una o l'altra, la sua lettura è un piacere che a volte sconfina nella pura sensualità.
Le auree mele del sole in questo è un racconto esemplare. C'è un'astronave piena di intrepidi astronauti, e questo è naturalmente molto fantascientifico. Tuttavia L'interesse di Bradbury per lo specifico fantascientifico è nullo, e del resto le sue descrizioni tecniche e scientifiche sono quanto meno fantasiose e servono ad affascinare e non certo a spiegare alcunché - Bradbury non è certo un uomo di scienza. Il breve racconto narra di una spedizione, nientemeno, verso la nostra stella, allo scopo di catturare l'essenza stessa del Sole: il suo fuoco eterno dove avviene la fusione atomica, Sacro Graal per un'umanità affamata di energia. Questo è tutto, e tutto quanto serve. Ciò che nelle mani di uno scrittore di sf ortodosso sarebbe un'impresa scientifica e tecnologica senza pari da descrivere, per Bradbury è materia scelta di invenzione squisitamente poetica. Space-opera che in qualche modo coinvolgano la realtà fisica del Sole o altra stella sono prevedibilmente poche, e può essere interessante confrontare questo racconto con Il Sole è abitato (1942) di Hal Clement, forse il più ortodosso degli scrittori di fantascienza hard, al cui confronto Arthur Clarke potrebbe sembrare un poeta filosofeggiante; il racconto di Clement è reperibile nella celebre Antologia Scolastica curata da Isaac Asimov (le ultime edizioni italiane sono state rititolate Dove da qui?, in modo più aderente al titolo originale). Le auree mele del sole è scritto nell'inconfondibile stile dell'età migliore di Bradbury, inconfondibile persino oltre la traduzione: le frasi, i vocaboli, le atmosfere bradburyane resistono al passaggio e restituiscono sempre una profonda impressione unitaria di amore smodato per la parola e per il narrare. Bradbury è sempre in primo luogo uno scrittore; uno scrittore innamorato del suo mestiere, che con costanza manipola, batte, assembla, cuce assieme aggettivi e verbi alla ricerca del risultato ogni volta esteticamente più soddisfacente. Un Narciso che vi si specchia dentro. A prima vista la sua scrittura può apparire superficiale, un puro esercizio di bello stile e ricercata letterarietà allo scopo di incantare il lettore come il proverbiale serpente ipnotizzato dalle movenze dell'incantatore. Tuttavia sarebbe questa a essere una letteratura superficiale. Tra una citazione colta e l'altra, a partire da quella programmatica di Yeats che ispirerà al capitano dell'astronave l'elegia in morte del suo primo ufficiale, Bretton, Bradbury pare farsi autenticamente poeta, nel senso antichissimo dei cantori creatori di miti. Come le sue migliori opere, Le auree mele del sole, è proprio questo: un mito: di cui ci viene mostrata la genesi. Bradbury prende nelle sue mani la punta più avanzata dell'immaginario avventuroso dell'epoca - il viaggio spaziale - per ricavarne, o meglio per forgiarne, una mitologia ad essa adatta. Confluiscono così in questa sorta di letteraria coppa alchemica, che rimanda a quella solare, le suggestioni della cerca del Graal; il senso prometeico della sfida all'indicibile - non più il dio olimpico, ma l'astro apportatore di luce e vita; la duplicità del viaggio di Odisseo - ricerca della conoscenza e tensione verso il nòstos, il ritorno alla propria casa. Per questo il suo capitano resta anonimo, anonimo declamatore di scheggie liriche che sembrano versi di epiche del passato: riassume in sé tutti coloro che l'hanno preceduto nella Ricerca, per mare o per terra, e per lo spazio (e coloro che a lui seguiranno). Bradbury ci riconduce in tal modo alle radici della letteratura occidentale; per questo il suo lirico fraseggiare non scade nella leziosità - a meno che l'ispirazione non faccia un sonnellino - e ci porta invece l'eco lontana di quelle antiche scaturigini. Per questo le frasi dell'ignoto capitano dell'astronave sfuggono al loro retorico abito palese per rivestirsi con sincerità di dignità poetica.
Un distillato di simboli leggendari e suggestioni verbali è quanto risulta dunque dall'assemblaggio che Bradbury fa dei materiali mitopoietici più antichi e più moderni di cui si serve allo scopo. La narrazione bradburyana ammalia il lettore anche lontano da quel magico rurale del suo natio Illinois. E' anche fantascienza? Con la fantascienza, in particolare quella sua coeva, condivide con certezza gran parte del corredo genetico: il senso del meraviglioso; la costruzione di storie che eccedono la realtà; l'immaginazione di una frontiera umana oltre i limiti del quotidiano; la sfida baldanzosa all'ignoto; il gusto di stupire il lettore con voli pindarici dell'immaginazione che veniva a tanti scrittori della generazione di Bradbury dalle letture fatte da ragazzi sulle riviste pulp. Forse per il fan non basta e addirittura è un tradimento; per me è sufficiente. E davvero io non sono un appassionato di fantasy :-).
Letture e visioni 2020
3 anni fa
12 commenti:
Temo di non conoscere nessuno dei racconti della raccolta... Provo a recuperarla!
L'ultimo racconto letto di Bradbury è giusto di questi giorni: "Il pedone" (The pedestrian)ne "Le grandi storie della fantascienza" vol. 14.
E' sempre un piacevolissimo incontrarsi, con quest'autore.
Lo zio Ray ha scritto centinaia di splendidi racconti, hai molto da gustare ancora :-)
V.
Direi proprio di sì. ;-)
Sai, i primissimi -inconsapevoli - passi nel mondo della sf li ho fatti in sua compagnia con il classicissimo "Fahrenheit 451". Potrei quasi considerarlo una sorta di... "padrino". ;-))
:-)
V.
E' già ottobre, sir! :-)
d'Ottobre ;-)
V.
Ce l'ho!
Wow, in inglese?
V.
Scansioni ;)
Non so se la 001 l'abbia in programma: era in Shock Suspenstories, per cui non faceva parte delle collane piu' famose che stanno ristampando...
Mi pare di ricordare però un oscar fumetti di Bradbury o sbaglio?
V.
Yes, e celavevo anche quello, ma gioco d'ottobre mi pare non fosse presente... dovrei controllare, ma e' tutto archiviato in scatole in cantina, dannaz
o pure io... in qualche scatolone in cantina :-/
:-)
V.
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