E’ di gran lunga il racconto più antologizzato di questo,
quanto meno in Italia, assai sottovalutato scrittore. L’ultima volta in Letture pericolose, deliziosa e un po’
carbonara antologia a tema, sul tema appunto della lettura e connessi; e sul “pericolo”
rappresentato da un’attività tanto sovversiva, capace di distogliere l’individuo
dal pensiero uniformato. In passato il racconto apparve anche in una delle
antologie einaudiane dello snobbone Fruttero. Americano, John Sladek visse a
lungo in Gran Bretagna; e non a caso il suo umorismo come il suo gusto per il
surreale hanno una coloritura squisitamente british. E’ l’autore di un caposaldo
della letteratura di fantascienza quale Il
sistema riproduttivo (Mechasm),
più volte proposto anche al pubblico italiano, da ultimo in Urania Collezione
e, di nuovo non a caso, saggio pirotecnico di funambolismo surreale e di
umorismo verbale.
Giuseppe Lippi, il tizio che oggi da bravo soldatino
mondadoriano propaganda come migliorativi gli orrendi tagli operati in sede di
traduzione italiana a sconciare le opere originali presentate su Urania, lo
definisce nella sua postfazione come il più visionario dei racconti raccolti
nel piccolo volume. E una volta tanto ha perfettamente ragione: questo racconto
è una visione. O anche meglio: una fantasmagoria. Della visione possiede
certamente il rigore stilistico e contenutistico, ma la ridda di
interpretazioni che possono affollare la mente del lettore appartiene più alla
fantasmagoria. Non è certo un oggetto maneggevole questo racconto di Sladek.
Privo com’è di una trama vera e propria o di personaggi che abbiano un ruolo
più che di semplici presenze, si presta con difficoltà a essere a sua volta
raccontato. E’ un racconto che molto meglio si presta a essere “sentito”.
Toccato, forse; in qualche modo annusato. Non sono termini scelti a caso né
incongrui. Sono un tentativo di esprimere la qualità principale di questa breve
opera. La sua irriducibilità, mi appare,
a una lettura intellettuale. Può sembrare, di nuovo, incongruo; eppure questo
racconto scritto che parla di libri è in primo luogo un oggetto sensuale. Che
dona un’esperienza sensuale. Dei sensi, cioè. Non necessariamente dei sensi
classici, anche se prima richiamavo tatto e olfatto. Sensi più sottili, magari.
Come il piacere di una lettura dove la comprensione intellettuale è del tutto
secondaria rispetto al semplice godimento dell’atto in sé: perché la lettura potrebbe
essere priva di alcun senso a parte l’esercizio stesso del leggere. O come il
piacere dell’immaginazione di una realtà a tal punto insensata da divenire
prosaica, da ricostruire il reale entro nuove, aeree coordinate. Ma anche il
piacere di poter rincorrere significati profondi al di sotto di un tessuto
narrativo all’apparenza privo di qualsiasi logica. Perché anche letture
rigorosamente sensate sono legittime per questo breve racconto.
La non-trama è presto riassunta: i libri prendono il volo.
Letteralmente: le biblioteche, le librerie, le case, tutti i luoghi dove sono
ammassati i libri, se ne svuotano; i volumi prendono il volo, a milioni, come stormi di uccelli. Null’altro
ci dice Sladek. Dove essi vadano o perché si mettano in volo, come uccelli
migratori. A ciascuno la lettura che gli è più congeniale. L’autore vuole
narrarci (ammonirci, magari?) del venir meno della cultura? O dell’intera
struttura alfabetizzata della nostra civiltà, perché non sono soltanto preziosi
codici miniati trecenteschi o ponderosi tomi enciclopedici a spiccare il volo:
anche gli elenchi telefonici e i libretti degli assegni sfidano gli spazi del
cielo verso l’ignoto. Il racconto è del 1968, Sladek ci offre forse uno
squarcio profetico sulla smaterializzazione della cultura che stiamo
cominciando a vivere in questi tempi? O ancora è possibile vedervi – è sempre
il 1968 – una ribellione verso una cultura librescamente istituzionalizzata?
Quegli stessi libri che furono strumento e veicolo di libertà nei tempi
passati, e che troppo spesso si mutano in oggetti inanimati e privi di vita
nelle mani dei custodi acritici della tradizione riconquistano la propria
vitalità, riprendono letteralmente vita e lasciano un mondo e una civiltà umani
ancorati alla pesantezza della terra, ai vincoli di un reale che ha dimenticato
il potere del sogno e della fantasia, il potere creativo dell’immaginazione.
Del volo di fantasia. Forse questa è un’interpretazione più seducente di altre:
quando Sankey e Preston, i due per così dire protagonisti del racconto,
decidono di affidare al suo destino di libertà anche il rapporto che stavano
stilando sul fenomeno migratorio dei libri, si potrebbe vedere nella decisione
proprio una ribellione all’imposizione di un pensiero standardizzato, scandito
da modelli preconfezionati di comportamento e di cultura. Ci si potrebbe anche
spingere più in là, vedere nel fenomeno migratorio dei libri la manifestazione
della forza delle idee, della loro vitalità espansiva oltre i confini
(auto)imposti dall’uomo; come oltre le conoscenze contingenti del qui e ora:
quando Dante, per dire, scrive la Commedia
non può immaginare quale sia il destino della sua opera, in certo qual modo la
affida a un volo verso l’ignoto; come è (stato) per ciascuno prima e dopo di
lui. O è possibile perfino intravedervi una sorta di processo di formazione di
un (in)conscio collettivo, dove ciascuno partecipa con il suo contributo con
pari dignità, che esso sia il Tractatus logico-philosophicus
(citato nel racconto) oppure un libro mastro di contabilità. O ancora, chissà, si
può farne la lettura del venir meno di una coscienza, individuale o dell’intera
civiltà umana: erano tempi magmatici quelli in cui scriveva Sladek, anche se i
nostri ci sembrano pure più labili e insicuri.
Ciascuna delle interpretazioni suggerite è possibile, e
sicuramente ve ne sono altre che sfuggono alla mia immaginazione. Tuttavia la
mia preferenza continua ad andare alla lettura puramente sensuale del racconto
cui accennavo prima. Senza ricercarvi significati ulteriori (o sottesi) altri
dal piacere del gioco verbale e intellettuale dell’immaginazione sbrigliata.
Della fantasia non costretta da altre maglie che quelle dell’istinto ludico
dello scrittore e del suo desiderio di stupire il lettore, stupendosi a sua
volta, con l’invenzione più folle.
La fantascienza abbonda di maestri, o anche solo artigiani
di talento, semi-dimenticati o del tutto dimenticati. Maestri o artigiani abilissimi
anche nello sconfinamento oltre i territori (pretesi) rigorosi della
science-fiction. Come appunto John Sladek, capace di tessere il surreale e
farne a un tempo esercizio di gioco puro e stimolo per la fantasia e la mente.
7 commenti:
dele pagine facemmo ali al folle volo! :)
Il raffinato chiosatore :-)
V.
Ottima cosa ricordare e sottolineare il lavoro di Sladek.
Ottima cosa soprattutto perché io questo racconto non l'ho mai letto (mannaggia a me!) e ora me lo voglio proprio godere.
La fantascienza abbonda di maestri, o anche solo artigiani di talento, semi-dimenticati o del tutto dimenticati.
E Tik Tok? e Roderick?
Sladek era meglio di Sheckley, Vonnegut, Adams...
Sarò cattivo ma tutte le cose migliori della fantascienza sono sempre cresciute ai margini, raramente riconosciute dai premi, dal fandom, dal successo commerciale. La stessa Joanna Russ, mi sono accorto leggendo molte discussioni in seguito alla morte, è molto più citata che letta.
Grazie, giorgio :-)
@Marco: dei nomi che citi il solo che anche a me pare sopravvalutato è Adams: più genialoide che geniale. Ma Sheckley ha scritto cataste di racconti incredibili, e Vonnegut era un talento universale. Sladek è, purtroppo, un maestro dimenticato; però qualcuno giustamente ricordato c'è, per fortuna.
V-
Grazie di cuore per avermi ricordato alcune letture davvero importanti. Di quando l'SF era - tra le altre cose - una vera letteratura.
Grazie, Max :-)
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