E' difficile immaginare la fantascienza senza il rapporto con l'Alieno. Non inteso (non necessariamente) come l'omino verde di Marte o comunque come l'essere di altri pianeti, ma come la dimensione di ciò che è altro dalla nostra realtà sensibile, dal senso comune, dall'esperienza quotidiana, dalla conoscenza attuale. Dalla realtà priva di estrapolazione. In questo racconto gli alieni però ci sono: un'invasione di alieni. E benché l'Alieno tanto remoto e diverso dall'uomo da essergli del tutto indifferente non sia una completa novità, quelli (o quello?) presenti nel racconto di Varley sono tra i più alieni che ricordi.
Americano, affermatosi nella seconda metà degli anni '70, John Varley, uno degli anticipatori del rilancio della fantascienza avventurosa centrata con rigore sulla speculazione scientifica e suo profondo innovatore, è stato fin verso la metà degli anni '80 uno degli autori di maggior spicco dell'epoca; parecchio prolifico sino a lì, in seguito ha rarefatto all'estremo la sua produzione, ma decisamente non la qualità di essa: resta, la sua, una delle voci di maggior rilievo nella storia della sf.
Varley è stato spesso accostato e paragonato a Heinlein, forse per la somiglianza con molti protagonisti heinleiniani, in realtà più superficiale che altro, del suo personaggio più famoso,
Se il tempo è la stessa cosa che alto o basso, allora impiegare cinque miliardi di anni per creare il sistema solare e farvi crescere le farfalle non è più impegnativo né "dura" più che attraversare la cucina per prendere il sale da aggiungere alla minestra. Gli alieni setacciano a pettine fitto l'intera superficie planetaria per raccogliere tutte le farfalle; perché sono "la cosa più bella della Terra". Ma nel sistema solare esistono - o potranno esistere - altre cose che interessano loro. L'Uomo, non riveste interesse alcuno. Non è dato sapere se fosse un prodotto inevitabile o accidentale, necessario o eventuale, utile o inutile del processo messo in atto cinque miliardi di anni prima; di certo si sa che è superfluo ai loro ignoti scopi.
Ciò porta a conseguenze.
Varley non pone fine all'umanità - quanto meno si ferma un attimo prima, e in fondo gli esseri umani sono talmente adattabili che in un qualche modo potrebbero perfino sopravvivere; si limita anche lui a disinteressarsi del destino ultimo dell'Uomo. Con pacatezza, con un pathos depurato di ogni eccesso di drammaticità, ma con tutta la forza e grandiosità delle metafore su scala cosmica, egli pone in scena i meccanismi nudi del funzionamento della natura: la natura esiste; la natura accade; la natura muta. L'Uomo vi è inserito: esiste, accade e muta con essa, e all'interno di essa. Come ogni particella, nasce e decade. L'uomo della fantascienza di Campbell, l'uomo risolutore, è qui semplice spettatore dell'accadere e dell'esserci dei fatti. L'entomologo Andy Lewis, il protagonista, e il matematico Ward sono lontani dagli ingegneri heinleiniani. Possono solo osservare, senza neppure realmente formulare ipotesi, solo andare a tentoni. La natura (gli alieni) opera su una scala inattingibile all'operare umano, seppure con il tempo forse sarebbe conoscibile; ma è proprio il tempo a essere, pienamente, ininfluente: a perdere senso come coordinata del reagire umano.
Il racconto, uscito in origine direttamente in una delle tante antologie che affollano il mercato americano, è stato pubblicato in Italia su Venti galassie, l'Urania Millemondi edito nel luglio 2007 e che presentava l'abituale antologia dei migliori racconti dell'anno (il
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