Qualcosa nella terra è una fiaba ecologica delicata e amarissima narrata in chiave di fantascienza. L’allegoria scoperta del futuro senza speranza cui l’avidità condanna il genere umano conferisce quella brutalità realistica che appartiene appunto alla migliore fantascienza, controbilanciando il lavoro elegante che con stile rarefatto, leggiadro perfino, l’autore compie sull’atmosfera della storia, trasognatamente fantastica per lunghe sequenze. Beaumont fu eminentemente uno scrittore che spaziò in ogni campo del fantastico e le sue storie di fantascienza recano chiara l’impronta di una libertà tematica e stilistica sconosciuta agli autori che lavoravano in esclusiva o quasi per il mercato più specializzato delle riviste.
In un futuro intuitivamente molto lontano, Gerald Markeson è il custode dell’ultima foresta, l’ultima area verde di una terra cementificata in ogni metro quadrato della sua superficie. Le montagne livellate, i fondi oceanici svuotati delle loro acque: tutto per edificare nuove città, nuovi edifici, nuove industrie, nuove strutture militari come quella che dovrebbe sorgere nel luogo ancora occupato dall’ultima foresta. Gerald è un uomo vecchio, vecchissimo – la scienza del futuro permette di raggiungere età di duecento anni e oltre; ed è un uomo antico. E’ antico il suo attaccamento alla terra; agli alberi di quella foresta che sente sua; agli insetti che ne popolano le fronde. L’antichità di Gerald viene dalla saggezza della memoria. Gerald rammenta – anzi egli sa – che l’Uomo è tutt’uno con gli alberi, con la natura. “Ci uccideranno tutti fino a quando non ci sarà più nessuno di noi, ci squarteranno e ci taglieranno gambe e braccia, ci bruceranno fino a ottenere soltanto nere ceneri... poi si dimenticheranno che siamo esistiti”: così dice a sua moglie la sera prima del previsto arrivo delle squadre che devono spianare la foresta. Dice “Noi”, non gli alberi, o la foresta. Ma ormai neppure più la moglie è disposta ad assecondare questa sua difesa appassionata e disperata dell’ultimo fortino della natura sulla Terra.
Gerald parla con le piante e con gli alberi. Dopo il “tradimento” della moglie egli esce di casa e vagabonda tra gli alberi della sua foresta, si rivolge loro con veemenza e ardore, urla il suo furore alla Luna annunciandole il suo turno una volta che la rapacità dell’uomo avrà completato la propria opera sulla Terra. Gli alberi risponderanno; non a parole, ma il loro muto responso sarà portato dal vento. Del resto, chi può dire quale coscienza potrebbe aver sviluppato l’ultima foresta sulla Terra, l’ultimo ecosistema sopravvissuto? Beaumont ha un’abilità sopraffina nel creare un credibile clima letterario di sospensione della razionalità, e una squisitezza di linguaggio che rende una simile atmosfera concreta. La lunga sequenza del febbrile errare di Gerald in quello che a tutti gli effetti è un giardino dell’Eden assediato dall’inferno in terra del cemento e della frenesia di ricchezza e guerra dell’uomo non è solo una potente diversione fantastica e un esercizio di maestria narrativa e letteraria; in essa il piccolo, arcaico uomo Gerald pare assumere i connotati di una primitiva divinità. Una divinità che appare debole, ma che va radunando tutto il suo potere, sepolto nel passato ma non estinto.
Il sogno/delirio trapassa nella giornata fatale, quando le ruspe arriveranno. Quando le ruspe scopriranno che non è possibile abbattere gli alberi della foresta: né lama né esplosivo, di nessun genere, riesce nell’impresa. Si apre allora il confronto tra antico e moderno, tra natura e tecnologia inanimata, tra apparente debolezza e apparente forza: tra Gerald e gli alberi da un lato, e dall’altro il presidente del Mondo Unito e tutta la potenza bellica e industriale del pianeta. “Qualcosa nella terra...” mormora il presidente ogni volta che una nuova e più potente arma vede il suo potere infrangersi contro la passiva inamovibilità della foresta di Gerald. E in effetti nella terra c’è davvero qualcosa: che il presidente non è in grado di capire. E Gerald appollaiato sul ramo alto di uno di quei giganti ormai pietrificati del suo giardino continua, inascoltato, a lanciare il suo avvertimento: lasciate stare la foresta, la natura che ci è rimasta, non tirate troppo la corda: noi dobbiamo essere tutt’uno con essa, o non saremo. Il racconto di Beaumont è del 1963, quando la coscienza ecologica era perfino più negletta di oggi. Anzi, molto più negletta. Eppure, nella sostanza, Gerald è ancora inascoltato in questo 2009. Ovviamente, a ogni azione corrisponde una reazione. Le azioni del presidente avranno le ovvie conseguenze, e
La fantascienza è una letteratura abbastanza giovane da potere ancora, senza retorica, contare le proprie storie umane infelici. Talento precoce e dotato di una penna dalla scrittura brillante e ingegnosa e di una fervida e facile ispirazione, Charles Beaumont abbandonò ben presto il mondo più angusto delle riviste di genere per pubblicare su quelle letterariamente più prestigiose, a partire da Playboy, e approdare in seguito come sceneggiatore a Hollywood. Se il suo nome non vi dice granché nonostante una produzione imponente in un arco temporale tutto sommato ristretto e della quale poco è giunto in Italia, forse The Twilight Zone può accendere una luce: a Beaumont si devono infatti molte delle migliori storie del serial, e definirlo un autore seminale è la semplice ricognizione di un dato di fatto. Aveva 34 anni quando gli venne diagnosticata una malattia degenerativa non meglio individuata dai medici, se non per il fatto che fosse mortale e che le sue facoltà mentali si sarebbero deteriorate in modo grave; cosa che puntualmente avvenne, fino alla morte pochi anni dopo. Questo racconto è dunque tra le ultime cose che deve aver scritto prima che la malattia emergesse, quasi uno dei frutti residui del giardino di Gerald. E’ stato pubblicato una prima volta in Italia nel
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