Con questo racconto caliamo agli albori, al primo vagire della fantascienza. Di fatto, esso è pubblicato nel numero dell’agosto 1926 di Weird Tales, a pochi mesi dall’uscita del primo fascicolo di Amazing Stories sulle pagine del quale Hugo Gernsback conia quel “scientifiction” che in capo a qualche anno evolverà nel canonico “science fiction”: sono insomma a malapena i mesi iniziali della presa di coscienza della fantascienza - ché ovviamente una letteratura dotata di tutte le caratteristiche che saranno proprie del genere esisteva da almeno un secolo, sia in forme “alte” che “popolari”. Ma non aveva ancora ricevuto una sistematizzazione. Arriverà in quegli anni, da un lato stimolandone la crescita e l’affinamento attraverso un mercato dedicato, autori specializzati e lettori attenti e attivi; d’altro canto tale mercato comporterà anche irrigidimento stilistico e (auto)ghettizzazione. Anche perché quel che si pubblicava non era sempre rose e fiori; anzi lo era assai di rado.
Hamilton fu tra le levatrici di spicco di questa fantascienza di genere, e contemporaneamente una delle sue primizie: The monster-god of Mamurth è il primo racconto che egli abbia pubblicato, il che fa di lui un coetaneo della science fiction ;-). Una science fiction che sin lì, priva com’era di un mercato ad hoc, era stata ospitata su una galassia disparata di riviste, più o meno rivolte ad argomenti attigui, dove riceveva ospitalità senza esservi fuori posto e contribuendo all’edificio complessivo della letteratura fantastica. Riviste come Weird Tales, principale magazine della letteratura del bizzarro e fucina dell’immaginario popolare di quegli anni. Era una fantascienza che si ibridava in libertà e naturalezza con tutti gli altri filoni della narrativa popolare, dal fantastico puro all’orrore ad atmosfere noir. Le ibridazioni attuali, specie con il noir e il thriller, sono sovente presentate come frutto di modernità e audacia: chiacchiere e millanterie di furbastri; oppure ingenuità e candore di smemorati. Il dio-mostro di Mamurth è in ogni caso un bellissimo esempio di questa fantascienza ibrida e ibridata, o se vogliamo di una narrativa liberamente fantastica.
In un certo qual modo Edmond Moore Hamilton fu un autore a due facce. Divenuto in breve una delle tre-quattro firme di maggior prestigio di questa fantascienza dei primordi, si trasformò in una sorta di fabbrica di romanzi a getto continuo (a partire dalla celebre serie di Captain Future, di cui scrisse gran parte dei libri): space-operas quasi sempre una la fotocopia dell’altra, scritti sbrigativamente per far cassa, ché i compensi erano magri e s’aveva da faticare per la pagnotta. Quei romanzi che gli diedero la fama di world smasher perché in uno sì e l’altro pure Hamilton faceva fare alla Terra, al Sole o qualche altro corpo celeste una brutta fine. Nei racconti, di cui scrisse ugualmente gran copia, mostrò altra cura stilistica e inventiva narrativa. La sua maturazione stilistica ebbe luogo soprattutto a partire dalla metà degli anni ’40, ed è facilmente ipotizzabile un’influenza benefica sulla sua scrittura da parte di Leigh Brackett, con la quale si sposa nel 1946 e che fu autrice dai notevoli talenti letterari, dotata di una solida padronanza della lingua. Hamilton resterà un romanziere d’avventura, un cantore degli spazii e del sense of wonder primordiale, ma le serie si approfondiranno negli scenari e nei personaggi, lo stile si farà più ampio, fino all’avventura pienamente matura del ciclo dei Lupi dei cieli nei tardi anni ’60 che conclude idealmente la carriera dello scrittore. Tuttavia, già negli anni ’30 e perfino prima i racconti hamiltoniani mettono in luce le potenzialità dell’autore, capace di coniugare il fascino della sfrenatezza di quel sense of wonder primevo con l’utilizzo consapevole dei cliché di genere, di far uso di una lingua più preziosa e meditata che nei romanzi, e di una modulazione molto più varia di argomenti e soluzioni: L’isola degli irragionevoli (The Island of Unreason) del 1933 è l’esempio più noto, ma è ben lungi dall’essere l’unico o anche soltanto episodico. Del resto questo stesso racconto d’esordio mostra già le qualità che Hamilton verrà affinando nel prosieguo della sua carriera.
Racconto horror e di fantascienza, avventura esotica e fantasticheria romantica. Un lavoro senza dubbio in tutto organico alla sua epoca e sede di pubblicazione. Hamilton vi mescola l’ispirazione merrittiana dell’avventura in luoghi remoti e sconosciuti, il gusto per l’esotismo e la mitizzazione romantica di perduti passati di gloria e barbarie; e insieme, evidenti influssi di Lovecraft. Un racconto compiutamente di genere, e che, pure, letto oggi conserva un fascino che non è solo dato da passione antiquaria, ma nasce da pagine dove il ritmo del racconto, le parole, gli scenari evocati e le corde emotive sollecitate sono tutti in funzione di un meccanismo narrativo montato con perfetta professionalità e gusto per il raccontare.
Il tema dell’invisibilità è ricco di fascinazione e riflessi orrorifici quanto fertile terreno di speculazione (fanta)scientifica, e certo non era nuovo neppure ottanta e passa anni fa: a volersi limitare agli esempi più prossimi a Hamilton ci sono That damned thing di Ambrose Bierce e The invisible man di H.G. Wells. E certamente il racconto di Hamilton non porta nessuna innovazione. Tuttavia l’invisibile mostro aracnomorfo cui egli dà vita nel racconto non è per questo meno suggestivo. La sua visione (o non visione) è fatta precedere da un lavoro preparatorio che monta l’attesa e l’ansia del lettore. La figura dell’archeologo morente, arso dal sole del deserto maghrebino, che introduce il racconto della solitaria spedizione ed esplorazione della classica città perduta è condotto con una mano padrona dei meccanismi emotivi del lettore e degli strumenti narrativi atti a innescarli. La città in rovina, i resti di una civiltà sconosciuta, non solo incredibilmente remota nel tempo, ma quasi inumana nella sua diversità, gli indizi di una scienza ancor più disumana e ormai dimenticata. La scoperta del ciclopico tempio invisibile, l’introdursi dell’archeologo innominato al suo interno. E poi l’arrivo dell’essere e il confronto con esso. La progressione è scandita in modo da ottenere il miglior effetto ansiogeno, fino a far conflagrare il conflitto tra l’uomo e il mostro, la bestia forse immortale, sopravvissuta alla polverizzazione della città e della civiltà che l’avevano adorata e temuta (adorata perché temuta), la bestia sicuramente più antica della stessa città. Con la forza della disperazione l’uomo si metterà in salvo, riuscendo anche a ferire il dio-mostro – la scena è descritta con maestria da Hamilton, attingendo alle risorse di un linguaggio ricchissimo di coloriture emotive. Non è per caso che siamo nel regno di Lovecraft, Howard e Clark Ashton Smith: Weird Tales. Sarà però il deserto, più remoto e divino del dio-mostro, a punire la sua hybris, la sua pretesa di volersi impicciare in faccende nelle quali è meglio che l’essere umano non entri.
Semplice e lineare, come si vede. Commerciale. Però per non scadere nella corrività, e anzi continuare a sedurre dopo più di ottant’anni, bisogna saperci fare.
La prima pubblicazione italiana del racconto risale al 1980 sulle grandi, riccamente illustrate pagine del fascicolo numero sei di Aliens, rivista tanto bella quanto assai poco di successo.
2 commenti:
Bene, bene; direi che aprile si sta rivelando proprio un buon mese!:-P E mancano ancora non pochi giorni alla chiusura! :-P
Vediamo, vediamo... :-)
V.
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