mercoledì 28 aprile 2010

[fantascienza] Il classico – La persistenza della visione (The persistence of vision - 1978) di John Varley (n.1947)


Ho citato spesso, quale definizione esemplare del genere, quella secondo la quale “E’ fantascienza tutto ciò che il direttore di una rivista di fantascienza accetta di pubblicare”. E giacché il capolavoro di Varley è stato pubblicato nel marzo del 1978 su The Magazine of Fantasy and science-fiction, esso appartiene indiscutibilmente al campo ;-).

The persistence of vision è una delle opere più famose di Varley, autore fin troppo trascurato in Italia ma tra le voci più notevoli della sf americana, e ha meritatamente ricevuto nel 1979 tanto il premio Hugo che il Nebula, i principali della narrativa fantascientifica – più spiccioli vari. La mia apertura deriva dal fatto che, nonostante questo pedigree impeccabile, la novella ha un contenuto che un purista riconoscerebbe come “fantascienza” frazionalmente superiore a zero. E’ indubbiamente ambientata nel futuro – futuro per l’epoca in cui è stata scritta, si svolge tra il 1993 e il 1° gennaio del 2000 – ma fino alle ultime righe il suo contenuto non ha apparentemente altre caratteristiche fantascientifiche; e pure quelle ultime righe sembrano solo labilmente, nebulosamente riconducibili al fantastico o alla sf. Tuttavia è non meno indubitabile che questa novella offra al lettore un esempio di estrapolazione con pochi pari, e rappresenti alla perfezione quel tipo di narrativa che può definirsi speculative fiction – locuzione che preferisco a science fiction, del resto ormai canonica.

A prima vista la collocazione italiana della novella, nel corposissimo volume I Mutanti uscito nella collana delle Grandi Opere della Nord può apparire bizzarra: Varley racconta, con uno stile diretto e quotidiano, quasi naturalistico anche negli occasionali slanci lirici, la storia di una di quelle “comuni” che fiorirono nel New Mexico, intorno a Taos, a partire dall’insorgenza delle ribellioni giovanili negli USA nel 1963-64 in avanti. Certo, la comune in questione nasce circa  venticinque anni dopo, ed è molto particolare. I suoi membri sono tutti coetanei, sordi e ciechi dalla nascita. Nel 1964 un’epidemia di Scarlattina aveva causato negli Stati Uniti la nascita di diverse migliaia di bambini ciechi-sordi; una cinquantina di loro, dopo numerose vicissitudini, fonderà la comunità agricola dove giunge l’innominato protagonista narrante intorno al 1993. L’uomo è un randagio, un vagabondo in fuga da sé stesso, forse alla ricerca di sé stesso. Nell’approdo di Keller, come egli identificherà per sé l’altrimenti ugualmente innominata comune (da Helen Keller: http://en.wikipedia.org/wiki/Helen_keller), il suo modo di essere e pensare muterà radicalmente.

Il Mutante è uno degli archetipi più intensi e caratterizzanti della letteratura di fantascienza, perché sin dalla sua filosofia di base essa non può che essere letteratura della mutazione. Può mancare (o esserci) qualunque cosa in un racconto o romanzo di fantascienza, ma se manca un elemento mutageno – se la realtà descritta non è plasmata o integrata secondo schemi altri da quelli reali – essi saranno privi della loro ragion d’essere. E la mutazione non manca di certo in questa novella.

Ciò che Varley descrive è una mutazione multilivello e multisenso. Una mutazione sociale, in primo e più decisivo luogo. La società di Keller è l’esperimento, la realizzazione di una società autenticamente trasformata rispetto a quella della nostra esperienza di ogni giorno. Una mutazione indotta dalle caratteristiche fisiche dei kelleriti, e perfettamente logica e consequenziale ad esse. Mutazione che scardina tutte le convenzioni esterne, calibrate su una realtà del tutto differente. Mutazione perfettamente efficace, efficiente, funzionante. Mutazione (riuscita) è adattabilità, o meglio funzione di questa, come questa lo è di quella. E l’adattabilità è probabilmente la qualità cardinale di Homo sapiens. Keller è soprattutto mutazione sociale nel suo essere invenzione della ragione umana, e del tutto naturale, inevitabile. Forse la sola pecca, il solo scivolamento di Varley nella pura utopia è questa sua fiducia incondizionata nella capacità di un gruppo umano, che per quanto omogeneo al suo compiersi resta eterogeneo in partenza, di agire secondo ragione. Ma come possiamo escludere che la mutazione dei kelleriti non sia più profonda?

Mutazione antropologica e culturale – oltre che banalmente sensoriale. Difficile individuare quale preceda l’altra, ma la qualità umana dei kelleriti ne modella la cultura, ed essa continuamente trasformandosi li muta a sua volta. Lo vediamo nelle pagine in cui Varley cerca di spiegare l’ineffabile, ovvero quel Tatto attraverso il quale avviene la comunicazione più complessa e completa tra i membri della comunità, inattingibile alla comprensione non solo da parte del protagonista-narratore, ma perfino dei figli dei kelleriti. Ai vedenti appare preclusa una vera comunione con la comunità, e in questa inversione oltre alla eco lontana de Il paese dei ciechi di Wells e quella più vicina e pregnante di Io sono leggenda di Matheson, si coglie l’essenza della mutazione in un’ottica culturale: la strutturazione dell’appartenenza e dell’identità in base alle (mutevoli) caratteristiche della popolazione. E' così che si dimostra logica in modo disarmante la scelta di Janet Reilly, la donna che era stata il motore dell'iniziativa di Keller, di rinunciare a ogni funzione "pubblica" nella comunità; e altrettanto logica è la sua, come di tutti gli altri, scelta di confondere nell'identità comune ogni identità individuale, a partire dal nome: quando il protagonista la cercherà tra i kelleriti non la troverà, perché i nomi e le vecchie identità non hanno significato per la mutagena e mutata cultura di Keller.

Mutazione spirituale dell’individuo. Crescita, se vogliamo, e del resto crescere è la mutazione di cui tutti facciamo esperienza, quanto meno sotto il profilo fisico. A contatto con i kelleriti e i loro figli, a partire da Pink, la ragazza che diviene il suo Virgilio, il protagonista attraverserà tutte le fasi della crescita spirituale, il suo pensiero evolverà. Il suo ethos si conformerà a quello locale. Strato dopo strato di conoscenza, la realtà di Keller si dischiuderà alla sua comprensione, fin quando cozzerà con l’invalicabile. Il Tatto ineffabile; l’incomprensibile + + +, non meno ineffabile. Il rito del + + + al quale i figli dei kelleriti neppure possono accedere con i loro sensi troppo diversi, troppo tarati su altre esperienze (né i lettori, che, con il protagonista e narratore, devono contentarsi dei segni grafici).

Mutazione virale. Non in senso proprio. Quando il protagonista giunge al nucleo della propria inadeguatezza, inadattabilità comunicativa, il suo nuovo io entrerà in crisi. Egli, pur sentendosi felice come mai prima in vita sua, comprende che l’impossibilità di penetrare l’essenza più profonda di quel comunicare – che è poi l’identità profonda di Keller – è un ostacolo insormontabile per la sua realizzazione di individuo. E’ con senso di rimpianto, ma anche con la nuova forza e consapevolezza di sé conquistate a Keller che lascerà la comune per tornare nel mondo esterno. Ma Keller si rivelerà un virus più mutageno di quanto apparisse. Anni dopo, e nonostante l’equilibrio apparentemente raggiunto, in un impeto il protagonista tornerà. Qui non troverà altri che i figli dei kelleriti. I genitori sono andati, come dice Pink. E i figli sembrano infine pronti a seguirli, a congiungersi davvero con loro. E il tocco delle mani di Pink libera infine il nostro protagonista dal fardello della persistenza della visione

Ho avuto modo di scrivere in precedenza di John Varley. Qui: http://olivavincenzo.blogspot.com/2009/10/fantascienza-i-contemporanei-soli.html

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