All’epoca non esistevano internet né tanto meno Wikipedia,
e nella sua prefazione a quel volume mirabile che è l’einaudiano Storie di fantasmi, Carlo Fruttero confessava
candidamente di non aver trovato quasi notizia alcuna sull’autore di questa
storia, di non sapere neppure se all’epoca fosse ancora vivo. Fruttero scriveva
(al più tardi) nell’autunno del 1960; e dunque in questa nostra Wikipedia age sappiamo che George Oliver
Onions, divenuto poi all’anagrafe George Oliver ma indelebilmente immortale
nella storia della letteratura come Oliver Onions, era effettivamente ancora su
questa Terra. Lo scrittore britannico fu uno dei non pochi facitori
dell’immaginario dei suoi tempi – tempi seminali per l’immaginario, tempi nei
quali furono forgiate le basi del nostro immaginario. Uno di quegli artigiani
eccellenti in grado di narrare con cura, competenza, amore e padronanza della
propria craftsmanship quasi ogni
genere di storia. Ha ragione Fruttero nella sua prefazione. E ha di nuovo
ragione Fruttero (che come prefatore di mirabili antologie einaudiane fu
infinitamente superiore al pernicioso curatore uraniano) a sostenere che sarebbe
così e basta se Onions non avesse scritto questa storia. Non è la prima volta
che mi capita di scriverlo, ma non mi stanco di farlo: ci sono storie, come
questa secca e inesorabile novella, che valgono gli interi e pletorici corpora
letterarii di scrittori incapaci di elevarsi al di sopra della propria
striminzita professionalità lungo l’arco di tutta la carriera. E’ possibile che
questa sia la più raffinata e ammaliante
ghost-story mai scritta, come recita ancora una volta Fruttero? Certe
classifiche sono prive di senso, e un volume dove sono presenti in forze
Montague Rhodes James, H.P. Lovecraft e Arthur Machen ribadisce bene il
concetto. E poi: ghost-story? E’ davvero
così semplice, questa novella è solo una ghost-story?
C’è un diavolo che tenta la nostra stupidità ogni volta che ci poniamo domande
del genere; lo abbiamo visto in questi giorni, in morte di Ray Bradbury:
abbiamo letto chissà quante volte che il bardo dell’Illinois non era uno
scrittore di fantascienza – perché ovviamente, essendo un grande scrittore non
poteva essere uno scrittore di fantascienza. Stronzate, ovviamente. Tuttavia la
tentazione è sempre in agguato. Forse perché dimentichiamo che i generi sono
strumenti classificatorii che abbiamo inventato per comodità e non Tavole della
Legge. Dimentichiamo che la differenza non la fa il genere ma il talento
dell’autore. E soprattutto la fa la storia narrata. La storia capace di
assumere vita propria, autonoma, di oscurare il suo autore per rivolgersi con
una diversa voce a ogni singolo lettore. Capace di travalicare il genere, di
trascenderlo. Di rimodularne i confini, di giocare con le sue strutture
flessibilizzandole a piacere. Storie che, non a caso, per solito occorrono una
volta in una carriera letteraria. Dunque
The beckoning fair one è senza fallo
una ghost-story. Resta
da vedere quali siano i fantasmi che ne popolano le pagine. Resta da capire
cosa sia realmente un fantasma. Il doppio livello di lettura è facillimo da
individuare, quasi insultante nella sua ovvietà. Alla lettura immediata, alla
classicissima struttura del racconto su una casa infestata, abitata da una
pericolosa e malvagia quanto elusiva presenza spettrale si affianca la lettura
di un racconto che analizza con minuzia scientifica, con spietatezza asettica
il precipitare di una mente umana nel delirio psicotico. Quale che sia la
lettura che si voglia privilegiare, quella del racconto gotico ed escapista
(scritto con maestria letteraria squisita) oppure quella del viaggio nei
recessi della mente umana e del suo scollarsi dalla realtà, sempre di fantasmi
si tratta; perché per quanto banale è pur vero che nessun fantasma è più reale,
materico e sostanzioso di quelli che la nostra mente è in grado di partorire
quando perde il contatto con la realtà.
Il protagonista della novella, Paul Oleron, è un fin
troppo scoperto avatar dello stesso Oliver Onions,
il che apre a un’ulteriore lettura della storia come riflessione sull’arte e
sul suo potere di possessione nei riguardi dell’artista. Oleron è uno scrittore
di mezz’età, squattrinato e dalle ambizioni intellettuali probabilmente
superiori al tuttavia tutt’altro che disprezzabile talento. Uno scrittore che
finirà per annullarsi, per liquefare la sua identità, la coscienza, il suo Io,
per (con)fondersi in una passione divorante e totalizzante. Passione che
nell’impadronirsi del suo corpo, della sua psiche e di tutto il suo essere, in
primo luogo fagociterà la sua creatività, privandolo di ogni energia. Una
passione che è la casa che va ad abitare, l’elusivo fantasma femminile che vi
aleggia e seduce la sua ipersensibilità emotiva. Che è l’arte. O, più
seccamente e semplicemente, il riflesso di se stesso. La follia nella quale
egli precipita (come probabilmente vi precipitò Madley, il pittore che prima di
lui aveva abitato la casa) non è infatti che un riflesso narcisistico, una
progressiva chiusura entro le maglie mentali di una propria supposta
autosufficienza (quella della propria arte dimentica della sua imprescindibile
dimensione sociale, umana); così come Oleron chiuderà attorno a sé i limiti
fisici rappresentati dalle mura e dalle porte della sua abitazione. Li chiuderà
escludendo tutto il mondo esterno, tutta l’umanità, “scegliendo” di spegnersi
sempre più velocemente nel circoscrivere l’universo a sé stesso e al proprio
doppio narcisistico. Fisicamente, con il suo corpo non più nutrito che andrà
esaurendosi; e spiritualmente con la sua anima che si distacca sempre più dalla
realtà e dalla relazione con gli altri e con l’Altro. Il fantasma elusivo della
Bella Adescatrice non è infatti altro che il fantasma stesso dell’Io di Oleron,
un Io ideale e completamente falso di cui egli idealizza, visualizza e crea le
tracce identificandole in un oggetto d’amore spettrale. Del resto i fantasmi
non sono creature immaginarie, ma immagini create. Sono reali. I fantasmi che
la nostra mente si fa, intendo. Che siano frutti allucinati e deliranti di una
psiche patologica, idealizzazioni false del mondo e di noi stessi, i costrutti
paranoici di cui intessiamo le nostre società umane, oppure ancora gli dei o il
dio che abbiamo creato nei millenni e attraverso i quali conferiamo sostanza e
vita all’immagine che abbiamo di noi stessi e che vorremmo fosse noi – che
siano queste o altre immagini ancora, le presenze fantasmatiche partorite dalla
nostra psiche popolano il mondo. Agiscono nel mondo. Plasmano le nostre vite,
la nostra coscienza, il nostro destino.
Tutto questo in una novella elegante ma in fondo semplice,
lineare nel suo scoperto doppio livello di lettura? L’eleganza e la semplicità
sono i migliori strumenti atti a nascondere la complessità sottostante; e la
linearità dà agio di osservare il brulicare intenso che si accalca ai bordi
della linea che si percorre. Leggiamo storie per divertirci, per conoscere i
mondi di fantasia immaginati da altri. Al limite per sbirciare all’interno
dell’anima di questi altri, quanto meno per dare un’occhiata da un luogo
d’osservazione privilegiato. Ma se non leggiamo soprattutto per creare i NOSTRI
mondi allora il nostro leggere è un atto passivo, tanto vale guardarsi un
reality in tv. Una storia va presa, scardinata, sventrata. Ne vanno esaminate
le viscere per trarne gli auspici, ne va isolato il DNA per comprenderne
l’ontogenesi e la filogenesi. Ne vanno assunti i succhi per impossessarsi dei
loro sapori, per assumerne i nutrienti. Non ci si può accontentare di quello
che vi si trova scritto e di quanto l’autore ha scritto nella storia, è vitale
farne affiorare tutto ciò che in apparenza (e forse in realtà) non vi è contenuto.
Ecco, un racconto come questo di Onions è perfetto per illustrare quanto sopra.
Perché la sua apparente essenzialità, la secchezza della sua trama si disperde
poi nei mille rivoli di sensazioni che suscitano e stimolano le descrizioni e
le suggestioni che vi dissemina l’autore. Se la trama è fin risibile, lo stile
e il lavoro di cesello letterario di Onions sono lussureggianti, dettagliati,
curatissimi. Fedele alla consegna che il vero orrore sorge dalla banalità della
normalità, ed impregna di sé la quotidianità, lo scrittore inglese usa
magistralmente questa quotidianità per fertilizzare il terreno dal quale trae
la pianta dell’orrore spirituale che farà provare al lettore nei precordi,
costringendolo a confrontarsi con quel generatore di orrori reali che è la sua
stessa (del lettore) mente. L’incipit
della novella riassume già la ricchezza letteraria e la sintesi narrativa della
horrorgenesi: THE THREE OR four "TO Let" boards had stood within the low
paling as long as the inhabitants of the little triangular "Square"
could remember, and if they had ever been vertical it was a very long time ago.
They now overhung the palings each at its own angle, and resembled nothing so
much as a row of wooden choppers, ever in the act of falling upon some
passer-by, yet never cutting off a tenant for the old house from the stream of
his fellows. Not that there was ever any great "stream" through the
square; the stream passed a furlong and more away, beyond the intricacy of
tenements and alleys and byways that had sprung up since the old house had been
built, hemming it in completely; and probably the house itself was only
suffered to stand pending the falling-in of a lease or two, when doubtless a
clearance would be made of the whole neighbourhood.
L’amore per la propria immagine è una passione esclusiva
ed escludente come mostra la parabola di Paul Oleron. Una passione che si
consuma e consuma all’interno del proprio essere e lascia fuori l’Altro. Di
fatto, è una passione che lascia fuori l’amore, lo distrugge. E Oliver Onions
mostra di esserne perfettamente cosciente. Ancora una volta, che si voglia
privilegiare la lettura gotica più classica o invece quella più squisitamente
psicologica, il tragico epilogo della novella, il destino diversamente
definitivo di Paul e della sua amica e innamorata Elsie, sottopone alla nostra
lettura l’evidenza del fatto che l’amore è impotente dinnanzi a una chiusura
autenticamente ermetica entro le pareti del proprio narcisismo. Chi ama il
proprio fantasma è inattingibile dall’amore e dall’Altro, è al di là del
provare emozioni reali. E’ incapace, letteralmente, di percepire la realtà
dell’Altro e dei suoi sentimenti.
Un racconto superbo, che parla della nostra testa alla nostra pancia, The beckoning fair one venne pubblicata nel 1911 nell’antologia Widdershins. Per gli angloleggenti il testo è disponibile a questi url:
Un racconto superbo, che parla della nostra testa alla nostra pancia, The beckoning fair one venne pubblicata nel 1911 nell’antologia Widdershins. Per gli angloleggenti il testo è disponibile a questi url:
4 commenti:
bah
bah
Grazie per il link. E' da tempo che volevo colmare questa lacuna.
Mi piacerebbe trovare più attenzione al genere weird (compresa la variante più recente...il cosiddetto "New Weird")sui siti italiani che si occupano di fantastico.
Squirek
Ti ringrazio. Il genere non è di quelli che frequento abitualmente, ma questa novella è una vera gemma. E in generale tutto il volume è di ottima fattura, se lo trovi non fartelo scappare.
V.
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