Orson Scott Card è stato una vera superstar della fantascienza degli anni ’80. Non ha contribuito a forgiare l’immaginario di quell’epoca e delle successive come il profeta del cyberpunk William Gibson, né è stato un guru come Bruce Sterling o uno scrittore influente come Kim Stanley Robinson e Gene Wolfe, o stimato come Lucius Shepard. Però è stato amatissimo. Alla metà del decennio, con Il gioco di Ender (Ender’s game) – ampliamento dell’omonima novelletta scritta nel 1977 all’inizio della sua carriera - e Il riscatto di Ender (Speaker for the dead) Card vince per due anni di fila sia il premio Hugo che il premio Nebula per il miglior romanzo. Mai successo prima né dopo. Squadra che vince non si cambia, e da allora ha allungato il brodo aggiungendo romanzi e racconti a iosa (pochi quelli arrivati in Italia dopo Xenocide, il terzo capitolo lungo della serie), ma a contare davvero fu il fulminante uno-due iniziale, del resto se ne può fare sicuramente a meno ;-).
Dei mortali risale ai primi tempi della sua carriera, ma è già il racconto di uno scrittore maturo e consapevole dei suoi mezzi. Non a caso Card l’anno prima aveva ricevuto il premio John Campbell per lo scrittore più promettente nel campo della sf. Il racconto è lontano dalle atmosfere convintamente militaresche del grande ciclo che gli darà la fama (e attirerà critiche, più fondate che nei casi di Heinlein o Poul Anderson), ma esplora con finezza la dimensione religiosa e del sacro che rappresenta l’altro polo fondamentale della vita di Card, mormone devoto.
Della breve storia è presto detto: un bel dì sulla Terra arrivano gli alieni. E questi alieni, vagamente ameboidi, stipulano contratti per acquistare appezzamenti di terreno un po’ dappertutto sul pianeta e costruirvi edifici. Edifici religiosi: sinagoghe, chiese, moschee, templi vari. Edifici costruiti come lo fossero a tutti gli effetti. E all’interno arricchiti da opere d’arte e simili come chiese ecc. E nient’altro. Nessun cambiamento eclatante; anzi l’arrivo degli alieni chiarisce che non c’è molto altro da sapere in ambito scientifico (disorienta sempre un po’ la mentalità antiscientifica messa in mostra da parecchi scrittori di fantascienza).
Gli ameboidi si limitano a fare gli architetti e ad accogliere gli esseri umani che entrano nelle loro costruzioni discorrendo amabilmente con loro. Willard Crane è un uomo molto vecchio, vedovo, ormai prossimo alla morte. Sarà lui a scoprire gli scopi degli alieni. Un giorno, spinto un po’ dalla noia, un po’ dalla curiosità e in parte dal disincanto degli anni, varca la soglia del tempio alieno di Salt Lake City, e nel corso del dialogo con un alieno che si trovava lì porrà le giuste domande e otterrà le risposte che chiariscono il mistero. Egli scopre che gli alieni sono sulla Terra per adorare – alla lettera – gli esseri umani. Senza dilungarmi, è sufficiente dire che la morte, come la varietà genetica, è sconosciuta nella galassia al di fuori del nostro pianeta (questa “specialità” dell’uomo era un tema caro a John Campbell, qui Card lo tratta in modo molto particolare). Gli alieni sono giunti sulla Terra per poter penetrare il segreto della morte, venerare la creatività immortale che vi si accompagna e in definitiva struggersi per qualcosa che è loro precluso avere.
Se il tema è semplicissimo, esile, e lo svolgimento è lineare e risolto in poche pagine, ciò che risalta è la bellezza della narrazione. “Bello”, in sé, chiaramente non significa nulla. La bellezza di Dei mortali gli deriva quasi in tutto dal vigore con il quale il giovane autore ha tratteggiato la figura del suo vecchio protagonista. Crane è tutto fuorché un eroe fulgido, ma proprio per questo è descritto con un realismo e una nitidezza che dispiegano un’intera psicologia, un’intera vita nel ridotto spazio di uno schizzo. Un vecchio vinto dall’età e dalle malattie, ma irriducibile, il cui cinismo è temperato da una saggezza e una furbizia terra terra ma decisamente efficaci. Attaccato alla vita nel momento della morte come in ogni momento della sua esistenza terrena, e tutt’altro che sedotto dall’idea della benedizione della morte, chimera irraggiungibile per tutti gli altri esseri viventi della galassia. Se ne frega di tutto, Willard, se non del fatto che morire è qualcosa che non gli va proprio giù. Card descrive tutto questo con una prosa secca e colloquiale, perfino inelegante nel suo rendere alla perfezione il personaggio, ma che in bocca allo scorbutico vecchio si trasfigura in un ritratto eroico e lirico.
Seppure la figura di Willard troneggia nell’economia del racconto, i motivi di interesse in esso non si esauriscono nel suo vecchio protagonista. Il quale coronerà ambiguamente la sua vicenda qualche mese dopo quel suo colloquio con l’innominato alieno tornando al tempio e morendo al suo interno, maledicendo la morte e gli alieni stessi raccoltivisi per assistere alla teofania del suo trapasso. Ma saranno state vere maledizioni? Perché solo lei ha pensato di farci il dono più gentile. Solo lei desidera lasciarci assistere alla sua morte. Così si rivolge a Willard uno degli alieni. E Willard risponde: Credevo di essere venuto per dannare le vostre anime all’inferno, ecco perché sono qui, brutti bastardi, che siete venuti per fare del sarcasmo su di me nelle ultime ore che mi restano da vivere. In realtà entrambi mentono e dicono la verità. C’è un intreccio di emozioni e sentimenti in quel Willard Crane morente e su di lui. Odio profondo e profonda commozione nel vecchio, il cui egocentrismo è titillato dall’attenzione degli alieni almeno quanto il suo risentimento per la loro immortalità e la fregatura che la natura sta invece tirando a lui è sincero. E nell’adorazione, ugualmente sincera, degli individui provenienti da tutta la galassia si insinua con evidenza, e quasi violenza, una deriva perversa. La scena dell’adorazione finale del corpo dell’uomo morente squassato dagli spasimi vira al macabro puro, e nell’estasi mistica degli alieni la vena morbosa è chiarissima. Del resto nell’atto dell’adorazione del dolore e della sofferenza la connotazione morbosa e macabra non ha alcun sottinteso, è aspetto primario e mai disgiunto: il dolore del dio è emozione ineffabile per il credente, brivido mistico e consustanziale all’amore per il dio.
La riflessione di Card non è unicamente antropologica e psicologica. Gli “dei mortali” umani incarnano la diversità speculare del divino rispetto al proprio fattore. L’uomo mortale i propri dei li forgia immortali; l’alieno immortale riconosce l’elemento divino nella scintilla che si consuma fulminea nella gloria di una frenesia creativa che si elabora e rielabora continuamente in forme sempre diverse, in opposizione alla conservazione infinita del sé che è il destino di tutti nella galassia a eccezione dell’uomo.
Il racconto è apparso in Italia sull’Urania Millemondiestate 1992, una di quelle corposissime antologie miscellanee che sarebbe bello riavere.
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