martedì 11 maggio 2010

Soltanto parole II - I titoli nella sf: Bastava così poco, eppure…


Bastava così poco, eppure…
Hal Clement

Eppure, immancabilmente, quel poco è mancato ;-). Se parecchi sono gli esempi di titoli tradotti in maniera raccapricciante o che lasciano interdetti per la mancanza di un senso; molti, molti di più sono quei titoli che non possono non dirsi corretti, ma nella loro correttezza mortificano quelli originali banalizzandoli senza rimedio. Esemplare il caso di Stella doppia 61 Cygni, titolo del più famoso romanzo di un maestro della hard sf, Hal Clement, il più ortodosso, al cui confronto Clarke è un romantico appassionato ;-). Titolo assolutamente corretto: è il sistema solare su un pianeta del quale Clement ambienta il romanzo. Ora, il titolo originale è: Mission of gravity. Nulla di particolarmente eclatante o suggestivo come si vede; in fondo si limita a sottolineare un aspetto diverso del libro, con quel terribile problema della mostruosa gravità del pianeta Mesklin. Eppure… Eppure in Mission of gravity c’è qualcosa che manca nel corretto, banale titolo italiano: c’è mission, a indicare l’avventura, la sfida; e c’è gravity, a indicarne il contenuto rafforzando la sfida. Bastava poco, appunto. Di seguito una scarna selezione di titoli. 

Il mestiere dell’avvoltoio/The unpleasant profession of Jonathan Hoag (1942), di Robert A. Heinlein. Et voilà, la sgradevole professione di Jonathan Hoag, sulla quale è lecito interrogarsi, diventa un qualsiasi mestiere dell’avvoltoio. Quale che esso sia. Nulla da eccepire, in realtà, se non fosse appunto che il titolo, pur senza fornirla realmente, dà un’indicazione al lettore invece di suscitarne l’interrogativo e la curiosità contenute nel titolo originario di questo romanzo, abbastanza atipico per lui, nel quale Heinlein si districa tra i generi.

smg. "Ram" 2000/The Dragon in the sea (1956), di Frank Herbert.  Nella traduzione, il primo romanzo dell’autore di Dune perde quella forte coloritura romantica, perfino fuorviante per certi versi, che gli viene dall’accostamento di un luogo, il mare, e un soggetto, il drago, tra i più classici della narrativa d’avventura; e della fantascienza per immediata transizione. Basti pensare al verniano Ventimila leghe sotto i mari e ai dinosauri de Il mondo perduto di Doyle, sorta di upgrade del drago in chiave più fantascientificamente pura (come lo è il sommergibile herbertiano). I traduttori debbono poi avere qualcosa di personale nei riguardi di Herbert se il suo miglior romanzo, Hellstrom’s Hive, dopo la corretta traduzione primigenia in L’alveare di Hellstrom è stato più recentemente rititolato Progetto 40. Che magari non è neanche così tremendo, ma certo stempera quella minaccia naturale che non è difficile prospettarsi a partire dal titolo originale.

Incidente nucleare/Nerves (1956). Di Lester Del Rey. Se la novella del 1942 è stata correttamente tradotta con Nervi, questo romanzo del 1956 che ne è l’espansione è stato correttamente tradotto come Incidente nucleare. Peccato che un titolo così burocratico soffochi in culla il senso di ansia immediato provocato dal titolo originario del lavoro di Lester Del Rey :-/

Incognita uomo/Who? (1958), di Algis Budrys. Anche qui una traduzione impeccabile. E inesorabilmente burocratica. Il senso è quello, ma decade l’urgenza, l’angoscia di quell’interrogativo esistenziale espresso nella secchezza della domanda esplicita. E vabbe’.

Davy, l’eretico/Davy (1964), di Edgar Pangborn. Che differenza c’è? Be’, apparentemente nessuna. O quasi. Appunto, quasi. Come si diceva, bastava così poco. Eppure non si è resistito alla tentazione di apporre una qualifica al semplice nome del protagonista. Una qualifica che invece di aggiungere senso, (de)limitando la figura del personaggio ovviamente ne sottrae. Ci vuole un certo talento per fare ‘ste cose. Il romanzo è uno dei più intensi e belli nella storia della sf.

Dalle fogne di Chicago/The Clone (1965), di Thodore L. Thomas&Kate Wilhelm. Alla sua quarta ristampa, su Urania Collezione, infine ci si è decisi per un secco, preciso, minaccioso: Clone. Ma fino ad allora, questo ruspante romanzo di mutazioni e “orrori” scientifici scritto da Kate Wilhelm insieme all’altrimenti poco noto Theodore L. Thomas si era fregiato di quel titolo da rigurgito idraulico, indubbiamente corretto, ma anche tanto da presa per i fondelli.

Il villaggio dei fiori purpurei/All flesh is grass (1965), di Clifford D. Simak. Ancora una volta un titolo impeccabile, ma che annega nella banalità il portato simbolico ed emozionale di quello originale annullando la forza evocativa di quel legame/identità che esso instaura tra la carne, che percepiamo come umana e nostra, e l’erba che prima facie ci appare ovviamente aliena. Nel titolo di questo romanzo minore di Simak c’è un po’ tutta la sua poetica, insomma. Bastava così poco…

Il mondo della foresta/The word for world is forest (1972), di Ursula K. Le Guin. In genere a levare si fa bene. In genere: qui la soppressione di quella piccola parola comporta una forte perdita di senso. Da un mondo che _è_ foresta, alienità - a partire dal suo nome - si passa a un qualunque mondo della foresta. E insomma… Ursula Le Guin avrebbe poi ampliato la sua celebre novella, ma il titolo italiano è sempre quello.

La matrice spezzata/Schismatrix (1985), di Bruce Sterling. Non era facile, e alla fine il risultato non è neppure male. Però un migliore tentativo di mantenere l’ambiguità di significato contenuta nella crasi schismatic/matrix lo si poteva fare. Un tentativo per illustrare meglio non una banale rottura di quella matrix, ma la sua intima scissione. Okay, non lo si è fatto.


Il quinto giorno/Der Schwarm (2004), di Frank Schätzing. Il titolo è scelto tutt’altro che male, ha un suo senso preciso e una precisa rispondenza con il romanzo. Eppure il titolo originale tedesco (sciame, branco, frotta) con quell’indicare una pletora, una massa in movimento, esprime con immediatezza un’idea di minaccia, che con sottigliezza ben maggiore rende giustizia a questo ciclopico thriller (fanta)scientifico.


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