Il “Mare di Dirac” (http://it.wikipedia.org/wiki/Mare_di_Dirac) è senza dubbio una delle più affascinanti costruzioni teoriche della fisica del XX secolo – e non lo è meno il “Neutrino di Majorana” (http://it.wikipedia.org/wiki/Fermione_di_Majorana) che il fisico italiano ipotizzò nella sua teoria volta a confutare quella dell’inglese. L’argomento è insomma saporito assai, e non stupisce che si presti bene a una rielaborazione fantascientifica. Del resto, i viaggi temporali sono a loro volta uno dei temi più ricchi di fascino della narrativa di fantascienza. Se mai, può stupire che sia stato usato meno di quanto sarebbe lecito attendersi. Forse perché non è facile padroneggiare la teoria per utilizzarla poi con naturalezza, e il rischio di fare del puro sci-bubble diviene eccessivo.
Geoffrey A. Landis ha credenziali impeccabili per addentrarsi nella teoria evitando il pericolo della fiorita fuffa scientifica di tanta mediocre fantascienza. E’ un fisico professionista: lavora alla NASA, dove si è occupato, tra le altre cose, di esplorazione planetaria (ha collaborato al progetto del Pathfinder per l’esplorazione del suolo marziano), come anche dello sviluppo di celle solari e impianti fotovoltaici. Ed è anche apprezzato poeta. Tanto la sua preparazione scientifica quanto l’attitudine poetica si riversano in modo evidente nei suoi lavori di fantascienza, che uniscono a chiarezza e precisione teoriche una cura attenta del dettaglio umano e psicologico.
La produzione breve di Landis non è strabordante, ma neppure rarefatta: circa una settantina di racconti a oggi. Ai quali si aggiunge un solo romanzo.
Ripples in the Dirac Sea fu pubblicato nel 1988 sulle pagine della Isaac Asimov’s Science Fiction Magazine, e l’anno successivo ricevette un meritato premio Nebula per il miglior racconto breve. La storia è semplice quanto intensa. Un grande successo scientifico apre la porta a un dramma umano e personale, e innesca per il lettore una serie di riflessioni sul valore che attribuiamo al nostro tempo, alla vita e alla morte. Che a dirla così, me ne rendo conto, sembra di minacciare di tedio disumano il lettore che abbia il fegato di leggersi una tal filippica affogata nella retorica. E invece no. La scrittura di Landis è tanto leggera quanto capace di arrivare al cuore delle cose con facilità e coinvolgendolo, il lettore. Non c’è nulla che venga spiegato o imposto dall’autore, che si limita a evocare con pochi tratti le figure dei due personaggi che riempiono le pagine del racconto per fissarsi nella nostra memoria. L’uno con i suoi sogni dolorosamente infranti, e poi ricomposti nella consapevolezza dell’illusorietà della trama stessa del tempo e dell’esistenza; l’altro che nell’abbandono al ritmo naturale della vita pare giungere a decostruire il senso stesso del tempo, pura coincidenza dell’esistere. L’uno, scienziato fino all’ultimo, viene da dire; l’altro, poeta istintivo.
Diverranno amici, l’uno e l’altro, più e più volte…
L’uno è il giovane scienziato anonimo che sperimenta la macchina costruita per sfruttare le “Increspature nel Mare di Dirac” e viaggiare nel tempo – cliché assoluto, e fascino assicurato per lo scrittore cui non difettino coraggio e talento. Viaggio che per le caratteristiche della teoria è possibile solo nel passato. L’esperimento è un successo, ma quando il giovane è in procinto di presentarne i risultati a un congresso rimarrà coinvolto in un incidente: intrappolato nella sua camera di albergo nel pieno di un incendio, è condannato a morte. E condannato a fuggire continuamente e continuamente all’indietro nel tempo senza poter fare nulla per salvarsi, perché non ci sono paradossi nel cronoviaggio diraciano: qualunque cosa si faccia nel passato non è possibile mutare il presente da cui si è partiti. Le “Increspature nel Mare di Dirac”, una volta che si torni al presente, cancellano dal nastro del tempo quello che il viaggiatore vi ha inciso: solo la sua memoria conserva il ricordo di quell’illusorio passato. Degli innumerevoli illusorii passati, sempre diversi e sempre uguali. Ogni volta che il giovane deve tornare a quella stanza d’albergo in fiamme, perché costrettovi dagli eventi o perché la linea temporale che sta vivendo si è approcciata al momento di partenza in modo tale da rendere il ritorno inevitabile, egli è costretto a perdere qualche attimo o secondo prima di potersi rituffare nel passato. Ci sarà un giorno che non potrà più scampare alla morte, arso vivo o soffocato dal fumo. Ha lottato contro l’inevitabile e poi è sceso a patti con esso. Con il puntiglio e la caparbietà dello scienziato ormai sa che il tempo non è illimitato, ma la sua quantità, tanta o poca che sia, va vissuta fino in fondo, imparando ad accettare i drammi e le gioie e imparando a farlo con equanimità (I live on borrowed time. So do we all, perhaps. But I know when and where my debt will fall due. E aggiungerà: Every time I return, I use up a little bit of time. One day I will have no time left.)
L’altro è Dancer. E’ un perfetto contraltare al giovane scienziato, e la perfetta chiave perché quest’uomo che sognava di domare il tempo impari ad accettarne l’indifferente dominio sulle cose umane. Dancer è quello che si definisce un “prodotto della controcultura giovanile degli anni ‘60”. Nessuna coloritura romantica in questo da parte di Landis, che mette anzi una cura particolare nel non andare mai sopra le righe nell’abbozzarne la figura. Dancer è, se mai ve n’è stato uno, un uomo pacificato. Non nel senso di una torpidità di spirito o tanto meno di una pedissequa adesione a mode “alternative”, ma di una istintiva comprensione del ritmo naturale della vita, del senso profondo del tempo. Non in relazione alla vita umana, verrebbe da dire, ma proprio della vita dell’universo. Di puro istinto, Dancer pare comprendere la natura fisica del tempo molto meglio dell’amico che ne conosce a menadito la complessa matematica: "They're trapped in the illusion of time," says Dancer. He lies on his back and blows a soap bubble, his hair flopping back long and brown in a time when "long" hair meant anything below the ear. A puff of breeze takes the bubble down the hill and into the stream of pedestrians. They uniformly ignore it. "They're caught in the belief that what they do is important to some future goal.". In un giorno di primavera del 1965 Dancer pronuncia queste parole osservando le persone intorno a lui e al suo amico, il quale considererà che He was right, more right than he could have possibly imagined. Quella di Dancer è la serenità di chi sa che il proprio posto nella vita è semplicemente vivere, accettare il flusso del tempo fino a quando la vita individuale vi si scioglierà dentro. Dancer muore invariabilmente la mattina del 9 febbraio 1969, qualunque cosa il suo amico possa fare questo non cambia, e avverrà ogni volta che egli tornerà per far nascere quell’amicizia, e viverla con nuova e immutata intensità. Perché un uomo che abbia a disposizione una quasi eternità di tempo e di tempi, ed effettivamente sia stato a vedere i dinosauri nel Cretaceo o la Palestina del tempo di Cristo, debba tornare sulle proprie volatili e illusorie orme è forse riassumibile in quel che accade in uno di quei 9 febbraio 1965: He died with a secret smile on his face. I've never understood that smile. Lo scienziato non può accettare di non capire, ma è probabile che l’amico – lo scienziato a sua volta pacificato dal contatto con Dancer – possa farlo. E ne comprenda il valore, in uno con il senso più vero dell’amicizia: il reciproco scoprirsi. Ed è senza dubbio un privilegio poterlo fare più e più volte: Dancer, too, will never die. I won't let him. Every time I get to that final February morning, the day he died, I return to 1965, to that perfect day in June. He doesn't know me, he never knows me. But we meet on that hill, the only two willing to enjoy the day doing nothing.
Le figure dei due protagonisti e il racconto nella sua interezza mostrano davvero il vigore di uno spirito poetico indagatore, deciso a penetrare il senso della nostra vita e il mistero della natura. Il solido impianto scientifico non solo non è in contrasto con questo linguaggio narrativo, né aspetto secondario, ma ne è anzi la radice creativa. Il genio visionario di Paul Dirac, la sua teorizzazione di un mondo dove l’energia può essere negativa – o l’idea di Majorana che il neutrino esista contemporaneamente come la propria antiparticella, contemporaneamente coesistendo in ogni istante nelle due direzioni dell’asse temporale – questo e quel genio sono della stessa qualità umana del poeta-veggente che con la parola dà forma all’universo plasmato dalla sua visione profetica. Cambia la forma esteriore, perché gli uni fanno uso del simbolo matematico e l’altro del potere simbolico della parola, ma l’essenza dell’uno e l’altro atto è nell’(onni)potenza dell’Homo Faber. Landis ci rammenta che la conoscenza nasce dalla volontà creativa dell’uomo, e che il poeta-veggente precede lo scienziato che decodifica (o tenta di decodificare) la natura. Egli è (anche) poeta-veggente, un creatore di mondi e loro ordinatore: è colui che muta il Χάος in Kόσμος. Egli è l’uno e l’altro…
Vent’anni fa, quando la lessi la prima volta, questa storia mi piacque, forse per quel fondo di malinconia, e per l’immaginifico contenuto (fanta)scientifico. Ma è stato ora, rileggendola, che l’ho apprezzata davvero in ogni sfumatura. Ne ho apprezzato un’acutezza che può scivolare inavvertita sotto il velo delle suggestioni, narrative e concettuali, che Landis ha sparso a piene mani. E si apprezzano di più anche quelle suggestioni stesse, le possibilità per l’immaginazione che si aprono riflettendoci sopra.
Increspature nel Mare di Dirac è stato pubblicato nel fascicolo n.1142 di Urania, che presentava l’antologia, curata da Don Wollheim, dei migliori racconti di sf del 1988.
Si può leggere il racconto in inglese a questo url:
2 commenti:
Racconto spettacolare, lo ho ricordato giusto stamattina e sono rimasto sorpreso di trovare molti piccoli articoli, anche in italiano, al riguardo. Il tuo è quello che ho preferito ;)
Increspature, è tra i miei racconti preferiti di SF, leggetelo se potete!
Grazie :-)
V.
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