Quando tre mesi dopo la
Grande Rivolta iniziò a scemare, almeno in Italia, Roma e tutto il Lazio
settentrionale erano in mano agli extraci. Le vittime ammontavano a oltre tre
milioni e i profughi, fra Cittadini ed extraci, a quindici.
Ma, come si vide poi, quello
era solo l’inizio.
Questa
è la fine, ma era iniziato in tutt’altro modo.
Cos’è la benzina, effendi? – Chiese Kuba, l’ausiliare extraci.
Così
era iniziato. Un incipit semplice ed
essenziale, che lasciava presagire un racconto sull’ecologia, sui problemi
energetici; o che magari narrasse di grandi multinazionali o di storia (storia
da un’ottica dell’epoca nella quale è ambientato il racconto, verso la fine del
secolo attuale). Verosimilmente, un racconto narrato con il – o quanto meno
venato del - tono umoristico di quel Memorie
di un cuoco d’astronave che è stato il romanzo d’esordio di Massimo Mongai
e che è divenuto a piena ragione un genuino classico della fantascienza. Mongai
offre invece una parabola assai amara sul futuro del nostro paese. Una parabola
possibile, se non probabile. Indubbiamente una parabola verosimile. Una
parabola di pura fantascienza, a onta della collocazione del racconto in un’antologia
curata per il Supergiallo Mondadori da Gianfranco De Turris (Sul Filo del rasoio – Estate Gialla
2010). De Turris scrive nella prefazione come la decisione di pubblicare tale
antologia di racconti gialli di fantascienza nell’ambito della collana
Supergiallo e non su Urania, dove pure avrebbe potuto uscire a pieno diritto, fosse
stata dettata dall’intenzione di far aprire
a nuovi orizzonti i lettori abituali del giallo che sarebbero usi (secondo
De Turris) leggere esclusivamente opere del genere da loro prediletto. È probabile
che la motivazione reale sia molto più terra terra: verosimilmente il
Supergiallo garantiva vendite superiori. Sia come sia, il racconto di Mongai
del giallo non ha praticamente nulla. Ci sono dei poliziotti, sì, e c’è un
delitto in piena regola, sì; ma questo è tutto: nell’economia del racconto non
sono centrali né il delitto, né la sua soluzione o il movente in senso
specifico, né infine i tutori dell’ordine protagonisti della vicenda. Centrale è
l’estrapolazione, base della narrativa di fantascienza: in questo caso estrapolazione
sociale. Sia come sia, nuovamente, Extraci
mostra ancora una volta come la fantascienza non sia propriamente un genere, ma
una modalità letteraria passibile di essere attraversata dai generi e
attraverso la quale si può fare narrativa a tutto tondo. Per citare Douglas
Adams: la vita, l’universo e tutto quanto
Scabro
racconto di cara, vecchia fantascienza sociologica, ancorché scritto con
sensibilità umana e letteraria moderne e una chiara consapevolezza dei tempi, Extraci è una succinta ma attenta e spassionata
analisi di alcuni fenomeni che negli ultimi decenni hanno interessato la nostra
società, come le altre società occidentali; seppure Mongai non rinunci del
tutto all’umorismo di cui è capace, facendone un uso limitato e con un registro
assai inacidito dalla materia oggetto della sua riflessione. Extraci sta per
extracomunitari, come non è difficile intuire da subito. Sebbene l’autore molto
probabilmente pecchi di ottimismo nell’immaginare un’Italia (e un’Europa
occidentale) ancora meta di grandi flussi migratori a qualche decennio nel
nostro futuro, lo scenario che raffigura mantiene inalterata la sua capacità di
rappresentazione di una società confusa, impaurita e incapace di comprendere,
introiettare e infine governare i fenomeni causati dagli eventi che accadono al
proprio esterno e al proprio interno. Una società esattamente come è quella in
cui viviamo noi. Per questo non è difficile vedere nell’Italia del 2090 circa
di Extraci la figlia legittima della
nostra – vedere in effetti noi stessi.
L’Italia
segmentata in caste di Extraci,
suddivisa in Cittadini e non cittadini, in esseri umani di prima, seconda,
terza classe e chissà quante altre (e l’essere extracomunitari non coincide con
necessità assoluta con l’essere individui di serie B, C eccetera), appare una
semplice proiezione matematicamente esatta di quella dei nostri giorni. Appare la
continuazione del ritorno al passato che negli ultimi decenni viene
propagandato per liberalizzazione, progresso, inevitabile smantellamento di
strutture pubbliche che si vorrebbero parassitarie. Ma con il selvaggio
drenaggio di ricchezza dalla disponibilità della popolazione verso poche mani
private si sta attuando contemporaneamente – e conseguentemente – il ritorno a
schemi e strutture sociali di molti decenni quando non secoli addietro. Non è
difficile vedere come sin d’ora in molte nazioni del già quasi democratico
occidente (e l’Italia è tra le prime in tal senso) si sia di fatto tornati a un’organizzazione
sociale basata rigidamente sul censo, sulla chiusura delle classi detentrici
del potere e sull’accesso alle medesime unicamente per cooptazione. Nella brevità
di questo racconto, Massimo Mongai riesce con abilità a far sì che il lettore
possa intuire questa struttura sociale dalle poche pennellate con cui la
rappresenta. Ma ancor più vi riesce attraverso la psicologia dei suoi
personaggi, perfettamente aderente a quell’Italia così come a questa nostra. Così
come a ogni altra società, passata, presente e futura che sia, nella quale vi
siano padroni, sgherri, e servi. Padroni inverecondi pieni di arroganza e
paura; sgherri pieni di cattiveria e disposti a vendere ogni dignità per
raccogliere le briciole delle tavole dei padroni; e servi – servi desiderosi di
diventare padroni e disposti a fare i kapò e vendere l’anima, servi felici di
essere servi, servi a volte inferociti.
Esattamente
così sono i personaggi del racconto, con in più le stimmate di un’umanità reale
e tangibile che rimanda ancor meglio al lettore l’idea della società in cui
vivono – che è la stessa nostra società.
Il primo, divertentissimo romanzo di Mongai |
Il capitano
Franzini è un uomo vero; cosa diversa da un “vero uomo”. Non è, cioè, un
esaltato, un uomo ideologicamente accecato o, peggio, psicotico. È un uomo come
potremmo incontrarne sull’autobus o in fila alla posta. Un investigatore sagace
e un uomo che non si fa offuscare il ragionamento dagli umanissimi pregiudizi
che pure egli ha. Un uomo fondamentalmente retto, al di là dell’essere un
tutore dell’ordine, e quindi incline a ubbidire a dei comandi prima che a
compiere azioni dettate dalla giustizia. Un uomo che pone dei limiti di decenza
alla sua appartenenza alle forze dell’ordine, e perciò inadatto a essere uno
sgherro fino in fondo. Un uomo che con tutta la sua intelligenza investigativa
si rivelerà un ingenuo.
Colpisce
davvero che nell’economia di un racconto abbastanza breve un personaggio emerga
a tutto tondo con tanta forza dalla pagina. Della vita privata, degli eventuali
vizi o malattie di Franzini nulla sappiamo; però Massimo Mongai ce ne fa
conoscere l’anima. Ugualmente, ben poco o nulla ci è dato sapere della vita
privata del suo assistente Kuba, del quale Mongai ci fa però comprendere ancora
una volta la personalità profonda: i sogni che motivano l’ausiliare extraci, le
sue aspirazioni, la sua psicologia sono in tutto adatte e adattate alla società
inflessibilmente castale descritta dall’autore: Kuba può sembrare un mero
meccanismo letterario, ma basta scalfire la superficie per osservarne la
complessità che Mongai ha sintetizzato in brevi ed efficaci schizzi qui e là. Osserviamo
come l’abilità dell’autore stia nel suggerire al lettore la vera personalità
dei personaggi con solo poche parole o lasciando che trapeli dalle impressioni
di lettura che egli fornisce al lettore. L’anonimo Commissario Capo, ci viene
anticipato nella sua natura di sgherro dal riflettere alle parole del suo
sottoposto Franzini, e poi confermato dagli eventi successivi.
Autore poliedrico, Mongai ha scritto ottimi gialli. |
Il resto
sono note di raffinato colore: Barzigò e Pardi sono uomini politici tolti di
peso dalla macchiettistica cronaca dei nostri quotidiani e tg, ma ancora una
volta danno una sensazione di autenticità (che quasi mai appartiene a quelli
che appaiono nei talk shaw); la Roma elefantesca che si protende sovrappopolata
verso l’Appennino e straripa sul litorale dal nord di Ladispoli al sud di
Torvajanica è più una profezia che ha il sapore della matematica che non di una
scolastica esagerazione; e i ghetti di ogni genere che ne formano il reticolo
urbano appaiono l’esplosione diffusa di tante realtà che la città osserva oggi
e vive sulla propria pelle.
In un
altro racconto dell’antologia, La
centesima scimmia, non meno nero e disperante dello scritto di Mongai,
Luigi De Pascalis scrive: (…) Relitti di
una civiltà che ha perso l’occasione di essere migliore e si è trasformata in
un formicaio in costante regresso: anzi in disfacimento, come un cadavere. È
la stessa civiltà di Mongai, appunto, lo stesso formicaio popolato di relitti di
un’umanità passata ma che non vuole passare, e che anzi prende il sopravvento,
nel ciclico riprodursi del collasso della civiltà. Sono ucronie, speriamo che
restino tali: potrebbe essere il ciclo finale.
2 commenti:
Mi rendo conto solo ora di non aver mai letto nulla di Mongai.
È grave?
Vedrò di rimediare.
Non è grave, però Mongai è interessante :). Il cuoco lo trovi in rete free, ed è sicuramente un romanzo divertente, uno di quei gioiellini minori che hanno il piglio del classico :).
Grande classico è il racconto di De Pascalis di cui ho parlato dopo.
Posta un commento