martedì 4 ottobre 2011

Grazie, Vic.

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Grazie, Vic. E non c'è altro da dire.

domenica 8 maggio 2011

I classici – Anime (Souls – 1982) di Joanna Russ (1937-2011)


Or sono alcuni giorni che è morta Joanna Russ. La sua è stata una delle voci più forti, singolari e significative della fantascienza americana, e di sicuro non solo tra le scrittrici. Sebbene negli ultimi trent’anni la sua produzione narrativa sia stata così rarefatta da apparire episodica, i lavori prodotti nella breve e feconda stagione più creativa sono tali da consegnarci il ritratto di un corpus letterario raro per rigore intellettuale e stilistico, accostabile a quello delle altre due grandi autrici emerse tra i sixties e i seventies, Ursula Le Guin ed Alice Sheldon/James Tiptree jr., e qualche anno più tardi Octavia Butler. Femminista militante, Joanna Russ fu un’agguerrita teorica del movimento a partire dai tardi anni ’60 e seppe riversare con coerenza il suo impegno tanto negli scritti critici sulla fantascienza che nei suoi lavori di narrativa.

Anime è l’approdo terminale del felice periodo produttivo che si apre nel 1968 con Picnic su Paradiso, il primo dei romanzi della guerriera transtemporale Alyx, una delle più riuscite figure di eroina; all’epoca Joanna Russ pubblica professionalmente già da nove anni. Anime vede invece la luce nel gennaio 1982 su Fantasy&Science Fiction, la rivista sulla quale la scrittrice pubblicò anche innumerevoli recensioni. Dei suoi non molti lavori giunti in Italia, e tra i quali spiccano il romanzo sperimentale Female Man e il racconto breve Quando cambiò, è senza dubbio il più bello e intenso, per lo stile rigoroso ed energico, per la visionarietà con la quale ella svolge i temi affrontati, per la sfaccettata ricchezza e al contempo la completa impenetrabilità della protagonista, e per la forza d’impatto dell’allegoria allestita in poche decine di pagine dense di significato e fluide alla lettura: questa è una novella che vale una carriera letteraria, un risultato che gli estensori di serie in dozzine di volumi non riusciranno mai a raggiungere.

Souls è una storia sulla maternità più che sull’identità (di genere e non) come spesso è detto.  Chiaramente il tema identitario è ben presente, e non potrebbe essere diversamente, poiché non piccola parte dell’identità culturale e biologica della donna nelle società umane viene costruita attorno e sulla maternità; e perché ciascuno di noi, uomo o donna che sia, indossa una o più mascherature nel corso della propria vita e nel dispiego della propria vita relazionale. Ma sotto la lente trasfigurante dell’osservazione russiana è posta direttamente la questione centrale della funzione materna nella storia, e nella vita umana.

L’elemento fantascientifico in Anime può apparire secondario, eccentrico, perfino ridondante se non del tutto superfluo: la vicenda della badessa medievale Radegunde alle prese con un assalto vichingo alla sua abbazia potrebbe sembrare ancor meglio affrontabile in un’ottica interamente storica (o comunque realistica). In realtà esso elemento fa davvero corpo unico con la riflessione a tutto campo di Joanna Russ sulla maternità e sulla storia femminile all’interno di quella più ampia trama che è la storia del genere umano. Solo l’alienità vera e propria di Radegunde, che prende corpo finale nelle ultime pagine della novella, può dar conto appieno dell’alienità che agli occhi del lettore (del lettore maschio in particolare, e Joanna Russ è ovviamente consapevole di come la maggior parte di coloro che avrebbero letto la novella sulle pagine di F&Sf fosse appunto costituita da maschi) rappresenta una madre così fuori dai canoni come è Radegunde - e la maternità una volta denudata della retorica con la quale siamo usi rivestirla per proteggerci dalla sua realtà. Una madre lontana dagli schemi codificati e santificati dalle religioni e dalle società patriarcali. Una madre terribilmente reale proprio per questo. E tanto più vicina a una maternità primitiva e naturale, ben lontana dalle false mitologie che verranno e pretenderanno di sostituire la natura con la propria elaborazione fantasiosa.

Ovviamente Radegunde non è madre in senso biologico, ma è proprio per questo che la sua figura costituisce un simbolo ancora più potente di maternità, una ricapitolazione psicologica, culturale, emozionale di _ogni_ madre. In senso culturale ella agisce da madre per tutta la “sua gente”: le suore del suo convento, i preti in visita a esso, la popolazione del villaggio. Finanche l’orda vichinga indifferenziata che si è spinta dalla Norvegia fin sulle coste di una qualche landa tedesca medievale dove Joanna Russ ambienta la vicenda. Ma è nei riguardi di alcuni di costoro che Radegunde assume una più precisa e circostanziata identità di madre. Per ciascuno di loro, una volta dismessa la maschera culturale della madre perfetta assegnatale d’ufficio dalla società e dal suo status, rappresenterà una delle facce reali della madre: cannibale, terribile, benevola, fonte di vita, o indifferente. E soprattutto inconoscibile nella sua identità più intima. Ciascuno di loro può, al meglio, andare a tentoni nel tentativo di comprenderla: con Radegunde l’autrice consegna ai lettori una delle più raffinate e complete interpretazioni della figura materna, e della distanza che marca ogni donna/madre reale dall’immagine mitologica che ne abbiamo. Oltre che una rappresentazione dell’infinitamente più grande ricchezza che si nasconde nelle madri reali, che appena è possibile scorgere. E questo ci accomuna tutti, uomini e donne, in quanto figli, così come accomunati sono i particolari “figli” e figlie” di Radegunde.

L’innesco, come detto, è rappresentato dall’approdo presso il convento di Radegunde di una piccola orda vichinga. L’evento, traumatico, comporterà la presa di coscienza della propria alienità in Radegunde, parallelo di un vero e proprio percorso di riappropriazione della propria autonomia identitaria di donna al di là della funzione/maschera materna da parte della badessa/madre.  Come donna Radegunde si rimpossessa della propria identità e autonomia ricongiungendosi con la propria razza; ma come madre ella è sempre presente nello spirito dei suoi “figli” e delle sue “figlie”, segnati indelebilmente, e a volte definitivamente, dalla sua azione e dalla sua parola.

All’apparenza Radegunde riserva il destino più crudo a Thorfinn, il giovanissimo vichingo verso il quale sostituisce la pietà iniziale con la spietatezza una volta dismessi gli occhi misericordiosi e ciechi della madre con quelli spassionati della donna. Che Thorfinn muoia per intervento diretto delle facoltà superumane di Radegunde o per un caso, come pietosamente e forse illusoriamente ritiene Radulphus, la sua morte è sempre e comunque riconducibile alla dissoluzione dell’identità maschile in presenza di un rapporto irrisolto e inadeguato con la madre/donna. Ma in realtà il destino di Thorfinn lo stupratore dall’anima fragile è ancora misericordioso se paragonato a quello di Thorvald Einarsson, il riluttante capo dell’orda vichinga. Thorvald è infatti condannato dalla vendetta di Radegunde a vivere. A vivere in piena consapevolezza. Thorvald che rappresenta il Padre nella sua più brutale espressione, il Padre incapace di liberarsi del retaggio della violenza insensata nonostante le sue indubbie facoltà intellettuali e spirituali, il Padre incapace di rapportarsi alla Madre quale compagno. Il risentimento di Radegunde per l’inadeguatezza di questo suo “figlio” a elevarsi a pari si sostanzia, come ella dice nel finale della novella, nel dargli i “suoi occhi”: per vedere il mondo, così come esso è percorso dalla violenza insensata che Thorvald stesso e i suoi uomini rappresentano; per soffrirne come lei (e con lei tutte le donne) ne ha sofferto. In un finale duro e spietato come pochi, e dunque autenticamente poetico, Radegunde risponde con un secchissimo No revenge? Thinkest thou so, boy? (…)Think again. . . . alle perplessità di Radulphus - al quale il destino di Thorvald, ovvero la missione affidatagli da Radegunde di divenire un Pacificatore, non sembra frutto di un qual grande vendetta.  

A Sibihd, la giovane suora stuprata da Thorfinn, e a Hedwic, la consorella sognatrice, Radegunde concede invece una solidarietà e una benevolenza un po’ d’ufficio. Come se il genere comune la obbligasse a riservare a queste due “figlie”, inadeguate ai suoi occhi di madre quanto i due bestioni norvegesi, un trattamento comunque pietoso, a tendere loro una mano perfino complice. O comunque conscia della necessità di proteggerle non soltanto da loro stesse ma anche dagli uomini. Forse la giovane Sibihd riuscirà a superare il trauma subito, ma Radegunde mostra chiaramente che neppure una madre può sostituirsi alla figlia nella sofferenza dello spirito. Ma può tuttavia fornire consolazione alla fantasia sovreccitata di una figlia come fa con Hedwic. Con una bugia: ma una madre sa bene che la verità a volte è sopravvalutata.

Non è però alle due “figlie” femmine che Radegunde consegna il lascito più prezioso. Che consegna la sua figura di madre che continua a vivere nel figlio al di là dell’assenza, della partenza, della morte della madre. Al di là dell’impossibilità per il figlio di conoscere davvero sua madre. E’ il lascito della vita stessa. E’ a Radulphus, il bambino di sette anni che poi diventa il narratore stupito della storia di Radegunde, che la badessa fa davvero dono della vita. Al di là di tutto, a me pare che Joanna Russ consegni in tal modo un chiaro messaggio di speranza e un invito deciso alla collaborazione. Radulphus che la badessa aveva già eletto e ora riconferma a figlio adottivo, a significare che la scelta cosciente dell’amore è più importante della cieca biologia, la quale assicura al figlio soltanto una vita biologicamente limitata; e Radulphus dal quale si congeda con le parole: Remember me. And be ... content. Abbi il coraggio di vivere e di assumerti la responsabilità di trovare la tua strada per la felicità… e ricorda chi ti ha dato la vita. Una madre non può salvare ogni figlio, perché questo dipende da lui. Ma può cercare di insegnare la strada per salvarsi. Radulphus si salverà e diverrà un uomo completo e sereno, nei limiti della una normale vita umana di un uomo non particolarmente brillante. Ma vivo e funzionante. E Radulphus serberà sempre l’amoroso ricordo di Radegunde.

Souls è reperibile in italiano nelle varie raccolte dei premi Hugo in cui sono presenti le opere premiate nel 1983, anno appunto nel quale ebbe il riconoscimento.

La novella in inglese:

domenica 24 aprile 2011

Sull’egoismo – note a margine di un racconto di Philip K. Dick (Cadbury, il castoro scarso - Cadbury, the beaver who lacked, 1971/1987)


I pensieri possono infine coagularsi in conseguenza degli eventi più disparati. Da giorni avevo appunto una parola e un pensiero installati nel cervello, premendo per prendere forma in qualcosa di compiuto. Una riflessione compiuta (che poi abbia anche senso è un’altra questione). Ciò che avviene intorno a noi ci stimola appunto a riflettere, e ultimamente l’osservazione mi porta alla ricerca di una definizione di egoismo. Poi un evento accade e il pensiero prende forma. Compiuta (sensata resta sempre un altro paio di maniche :-D).

Terminata la lettura di un libro è fin troppo facile perdersi alla ricerca del successivo. Iniziarne e abbandonarne diversi. Gioco forza si finisce allora a vagabondare tra le parole scritte: un articolo di una rivista, versi sparsi, una prefazione, un racconto.

Un racconto. Passando davanti a una delle poche librerie di casa ancora (abbastanza) in ordine l’occhio si sofferma sui quattro volumi de Le Presenze Invisibili, amorevolmente comprati uno per uno negli anni ’90. Tutti i racconti scritti da Philip Dick: è più o meno da allora che non li rileggo. Prendo il quarto, le opere – più rade – della maturità, e apro a caso. Non molto soddisfacente. Scorro allora l’indice e un titolo, completamente dimenticato, cattura la mia attenzione: Cadbury, il castoro scarso. Stendo un velo pietoso sulla traduzione italiana del titolo - in originale era Cadbury, the beaver who lacked - che oltre a suonare idiotamente comica viene a perdere il doppio significato che il verbo “to lack” invece sottolineava: le manchevolezze di Cadbury e il suo finale venir meno dal tessuto della realtà: un titolo squisitamente dickiano trasmuta così nel vanzineggiante.
Il quarto volume, dove è contenuto il racconto

Comunque. Nell’introduzione al volume Vittorio Curtoni spiega che si tratta di un racconto mai pubblicato in vita da Dick (dalle note dello stesso Dick risulta scritto nel 1971) e proposto per la prima volta all’uscita di The collected stories of Philip K. Dick nel 1987. Il Vic dice trattarsi di un’opera piuttosto eterodossa nel panorama dickiano, e di un capolavoro. In genere non ci sarebbe troppo da fidarsi da chi non ami Clifford Simak e lo consideri sonnacchioso, ma quando si tratta di Philip Dick di Curtoni ci si può fidare ciecamente. E infatti ha ragione.

Il Vic accenna, introducendo nel suo commento riferimenti a Poe e a Freud, sia allo sfaldamento del reale che alla perturbazione mentale, per altro i topoi più classici di Dick sebbene qui trattati in modo inconsueto, a partire dalla struttura del racconto che è quella di una favola allegorica. C’è ben poco di fantascienza a un primo sguardo (e forse anche a ben vedere), qui Dick elabora una metanarrazione della sua vita così spesso sgangherata e incasinata, della sua creatività compulsiva e totalizzante. E perciò alienante, che lo isolava dal resto dell’umanità. Di lì a poco Dick affermerà di essere stato “invaso” da una sorta di divinità benigna o qualcosa del genere, e insomma… se non è svertebrarsi del reale e psicologia disturbata questo.
Il primo volume

I due grandi temi portanti sono dunque ben presenti, ma il vero nucleo del racconto è senza dubbio tutto nella figura del protagonista, Cadbury, questo castoro che poi altri non è che Dick stesso – e forse l’identificazione tanto ovvia e scoperta e la rappresentazione per certi versi brutale di sé hanno comportato che questo racconto non venisse pubblicato se non nella raccolta postuma dei suoi racconti? Cadbury/Dick che, come dice sua moglie Hilda, è privo di “energia e spinta interiore”. Ed è incapace di un minimamente sereno rapporto con le donne: proprio come il rapporto di Dick con le donne fu assai problematico per usare un eufemismo; e così come nella sua opera affiora una sofferta misoginia. Sofferta perché non convinta, ma in certo modo subìta per l’incapacità di creare un rapporto maturo e paritario e dunque stabile.

E’ qui che il racconto e il tarlo di questi giorni sull’egoismo mi si sono fusi assieme. Non mi riferisco agli effetti evidenti, violenti e per certi versi banali dell’egoismo umano inteso come una pulsione brada e un sovrano disprezzo per l’Altro (un esempio inquietante e al tempo stesso anodino lo fornisce al solito il magico mondo dell’economia contemporanea: http://www.investopedia.com/articles/bonds/08/death-bonds-portfolio.asp). La vicenda del castoro Cadbury va invece oltre, più a fondo, alla radice interiore del sentimento egoistico.
Il secondo volume

In quanto membri della specie superstite del genere Homo, in quanto Homo sapiens, noi esseri umani siamo animali e in quanto tali soggetti agli istinti e alle pulsioni di tutti gli animali. Ma dovremmo (saper) vivere come se non fossimo animali. Non per altro, ma perché ne abbiamo le possibilità intellettuali e sarebbe utile a tutti - un “tutti” statistico, okay, chi si ingrassa vendendo mine antiuomo ha meno interesse nella questione di quelli che poi ci salteranno sopra. Questo richiederebbe una sintesi culturale superiore alle nostre - attuali? - possibilità come comunità umana. I tentativi fatti sono stati fin qui fallimentari e ancora più spesso deleteri. Le religioni non solo non si sono mai avvicinate a creare una vera cultura solidale ma come è implicito nel concetto di fede sono teoreticamente impossibilitate a farlo. Per fare un esempio più recente, il sogno titanico della psicanalisi di risolvere gli affanni umani direi abbia creato più problemi di quanti ne abbia risolti, soprattutto là dove essa è divenuta cultura dominante e infine moda. Il solo legato di valore, da Freud in poi, è la straordinaria quantità di capolavori letterari del ‘900 che hanno tratto ispirazione dalle varie formulazioni teoriche e prassi di lavoro. Dalle ristrettezze mentali di un sessuofobo misogino ottocentesco probabilmente non poteva sortire altra pianta sotto il profilo scientifico (ma teniamoci stretto il fiore letterario). Al netto del fatto che senza una comprensione davvero avanzata dei meccanismi neurofisiologici e biologici in genere, e un’accettazione psicologica profonda della nostra biologia, arrivare a comprendere la psiche umana è pura utopia. Figuriamoci curarla.

Per attenerci però a un livello più immediato, elementare (ma non semplificato) e individuale – e appunto più vicino alla radice dell’egoismo – la storia di Cadbury è illuminante. Perché vi è un aspetto decisivo al di là del fatto che Cadbury è un castoro, cioè un uomo, irresoluto e tendente alla fantasticheria fine a sé stessa; al di là del fatto che è vessato da una moglie stizzosa, non migliore di lui a conti fatti; al di là del fatto che lo psicanalista dottor Drat non gli serve a un tubo perché è tanto supponente quanto impotente; al di là del fatto che il suo incontro con Carol Stickyfoot ne mette a nudo la completa incapacità di instaurare un rapporto di mutua comprensione con i vari aspetti della femminilità incarnati da Carol (che si scinde materialmente in una rappresentazione al contempo parodistica e agghiacciante del simbolismo della Triplice Dea). Incapacità che arriva a quella dissoluzione materiale corporea di Cadbury cui facevo prima riferimento. Dissoluzione che nella dimensione di Philip Dick l’uomo è il venir meno della residua coerenza sua psiche: Cadbury, evidentemente inabile a resistere alla pressione del rapporto irrisolto e irrisolvibile, abdica alla realtà.  
Il terzo volume

Al di là di tutto questo, all’origine del dissidio di Cadbury con le donne, il resto dell’umanità, la società e in genere il tessuto stesso della realtà (psichica) vi è evidentemente il suo egoismo. Come è in genere anche per noi. Egoismo non come ricerca a ogni prezzo dei propri scopi ma come la causa e l’attitudine a ciò precedente: il fissarsi mentale unicamente su sé stessi. L’autismo emotivo che ci isola dall’Altro e non ce lo fa riconoscere come a noi simile. L’autismo, soprattutto, che ci porta a non condividere noi stessi. Che è il primo passo perché l’Altro possa a sua volta condividersi. A partire dal livello più banale, il negare le nostre confidenze, paure, speranze alla partner o al partner, all’amica o all’amico: a chi ci è più prossimo. Questa nostra avarizia ci condanna all’isolamento, e l’isolamento ci conduce alla sopraffazione: la dove non c’è comunicazione non c’è conoscenza e quindi non può esservi comprensione e mutuo riconoscersi. L’incomunicabilità è verbale, emotiva, spirituale. Incapacità di comunicare e comunicarsi. Ripiegando sul proprio ego, avviluppandocisi come nella ormai proverbiale coperta di Linus, la barriera che ci protegge e rende impermeabile l’esterno a noi, e noi all’esterno.

Cadbury nega la propria interiorità alla moglie; non è in grado di comunicare con il suo analista (che è altrettanto inetto), questo disperato surrogato contemporaneo del relazionarsi con l’Altro; e infine neppure sa davvero offrire la propria personalità per una comuni(cazi)one spirituale con Carol. Che si rivela altrettanto incapace di lui, sia chiaro (e di certo nell’ottica integralmente egoistica di Dick è escluso che il primo passo possa compierlo Cadbury: al massimo può pietirlo). Delle tre figure in cui Carol si scinde, solo quella che rappresenta la Madre mostra un barlume di affetto per Cadbury; ma è un affetto incondizionato, e per ciò stesso privo di reale comprensione. Non è un affetto per ciò che Cadbury è davvero, ma solo per ciò che Cadbury – il Figlio – rappresenta per la Madre: di nuovo una visione egoistica: anzi il suo paradigma. Mito puro, non realtà umana in atto.

Hic manebimus optime?