domenica 8 maggio 2011

I classici – Anime (Souls – 1982) di Joanna Russ (1937-2011)


Or sono alcuni giorni che è morta Joanna Russ. La sua è stata una delle voci più forti, singolari e significative della fantascienza americana, e di sicuro non solo tra le scrittrici. Sebbene negli ultimi trent’anni la sua produzione narrativa sia stata così rarefatta da apparire episodica, i lavori prodotti nella breve e feconda stagione più creativa sono tali da consegnarci il ritratto di un corpus letterario raro per rigore intellettuale e stilistico, accostabile a quello delle altre due grandi autrici emerse tra i sixties e i seventies, Ursula Le Guin ed Alice Sheldon/James Tiptree jr., e qualche anno più tardi Octavia Butler. Femminista militante, Joanna Russ fu un’agguerrita teorica del movimento a partire dai tardi anni ’60 e seppe riversare con coerenza il suo impegno tanto negli scritti critici sulla fantascienza che nei suoi lavori di narrativa.

Anime è l’approdo terminale del felice periodo produttivo che si apre nel 1968 con Picnic su Paradiso, il primo dei romanzi della guerriera transtemporale Alyx, una delle più riuscite figure di eroina; all’epoca Joanna Russ pubblica professionalmente già da nove anni. Anime vede invece la luce nel gennaio 1982 su Fantasy&Science Fiction, la rivista sulla quale la scrittrice pubblicò anche innumerevoli recensioni. Dei suoi non molti lavori giunti in Italia, e tra i quali spiccano il romanzo sperimentale Female Man e il racconto breve Quando cambiò, è senza dubbio il più bello e intenso, per lo stile rigoroso ed energico, per la visionarietà con la quale ella svolge i temi affrontati, per la sfaccettata ricchezza e al contempo la completa impenetrabilità della protagonista, e per la forza d’impatto dell’allegoria allestita in poche decine di pagine dense di significato e fluide alla lettura: questa è una novella che vale una carriera letteraria, un risultato che gli estensori di serie in dozzine di volumi non riusciranno mai a raggiungere.

Souls è una storia sulla maternità più che sull’identità (di genere e non) come spesso è detto.  Chiaramente il tema identitario è ben presente, e non potrebbe essere diversamente, poiché non piccola parte dell’identità culturale e biologica della donna nelle società umane viene costruita attorno e sulla maternità; e perché ciascuno di noi, uomo o donna che sia, indossa una o più mascherature nel corso della propria vita e nel dispiego della propria vita relazionale. Ma sotto la lente trasfigurante dell’osservazione russiana è posta direttamente la questione centrale della funzione materna nella storia, e nella vita umana.

L’elemento fantascientifico in Anime può apparire secondario, eccentrico, perfino ridondante se non del tutto superfluo: la vicenda della badessa medievale Radegunde alle prese con un assalto vichingo alla sua abbazia potrebbe sembrare ancor meglio affrontabile in un’ottica interamente storica (o comunque realistica). In realtà esso elemento fa davvero corpo unico con la riflessione a tutto campo di Joanna Russ sulla maternità e sulla storia femminile all’interno di quella più ampia trama che è la storia del genere umano. Solo l’alienità vera e propria di Radegunde, che prende corpo finale nelle ultime pagine della novella, può dar conto appieno dell’alienità che agli occhi del lettore (del lettore maschio in particolare, e Joanna Russ è ovviamente consapevole di come la maggior parte di coloro che avrebbero letto la novella sulle pagine di F&Sf fosse appunto costituita da maschi) rappresenta una madre così fuori dai canoni come è Radegunde - e la maternità una volta denudata della retorica con la quale siamo usi rivestirla per proteggerci dalla sua realtà. Una madre lontana dagli schemi codificati e santificati dalle religioni e dalle società patriarcali. Una madre terribilmente reale proprio per questo. E tanto più vicina a una maternità primitiva e naturale, ben lontana dalle false mitologie che verranno e pretenderanno di sostituire la natura con la propria elaborazione fantasiosa.

Ovviamente Radegunde non è madre in senso biologico, ma è proprio per questo che la sua figura costituisce un simbolo ancora più potente di maternità, una ricapitolazione psicologica, culturale, emozionale di _ogni_ madre. In senso culturale ella agisce da madre per tutta la “sua gente”: le suore del suo convento, i preti in visita a esso, la popolazione del villaggio. Finanche l’orda vichinga indifferenziata che si è spinta dalla Norvegia fin sulle coste di una qualche landa tedesca medievale dove Joanna Russ ambienta la vicenda. Ma è nei riguardi di alcuni di costoro che Radegunde assume una più precisa e circostanziata identità di madre. Per ciascuno di loro, una volta dismessa la maschera culturale della madre perfetta assegnatale d’ufficio dalla società e dal suo status, rappresenterà una delle facce reali della madre: cannibale, terribile, benevola, fonte di vita, o indifferente. E soprattutto inconoscibile nella sua identità più intima. Ciascuno di loro può, al meglio, andare a tentoni nel tentativo di comprenderla: con Radegunde l’autrice consegna ai lettori una delle più raffinate e complete interpretazioni della figura materna, e della distanza che marca ogni donna/madre reale dall’immagine mitologica che ne abbiamo. Oltre che una rappresentazione dell’infinitamente più grande ricchezza che si nasconde nelle madri reali, che appena è possibile scorgere. E questo ci accomuna tutti, uomini e donne, in quanto figli, così come accomunati sono i particolari “figli” e figlie” di Radegunde.

L’innesco, come detto, è rappresentato dall’approdo presso il convento di Radegunde di una piccola orda vichinga. L’evento, traumatico, comporterà la presa di coscienza della propria alienità in Radegunde, parallelo di un vero e proprio percorso di riappropriazione della propria autonomia identitaria di donna al di là della funzione/maschera materna da parte della badessa/madre.  Come donna Radegunde si rimpossessa della propria identità e autonomia ricongiungendosi con la propria razza; ma come madre ella è sempre presente nello spirito dei suoi “figli” e delle sue “figlie”, segnati indelebilmente, e a volte definitivamente, dalla sua azione e dalla sua parola.

All’apparenza Radegunde riserva il destino più crudo a Thorfinn, il giovanissimo vichingo verso il quale sostituisce la pietà iniziale con la spietatezza una volta dismessi gli occhi misericordiosi e ciechi della madre con quelli spassionati della donna. Che Thorfinn muoia per intervento diretto delle facoltà superumane di Radegunde o per un caso, come pietosamente e forse illusoriamente ritiene Radulphus, la sua morte è sempre e comunque riconducibile alla dissoluzione dell’identità maschile in presenza di un rapporto irrisolto e inadeguato con la madre/donna. Ma in realtà il destino di Thorfinn lo stupratore dall’anima fragile è ancora misericordioso se paragonato a quello di Thorvald Einarsson, il riluttante capo dell’orda vichinga. Thorvald è infatti condannato dalla vendetta di Radegunde a vivere. A vivere in piena consapevolezza. Thorvald che rappresenta il Padre nella sua più brutale espressione, il Padre incapace di liberarsi del retaggio della violenza insensata nonostante le sue indubbie facoltà intellettuali e spirituali, il Padre incapace di rapportarsi alla Madre quale compagno. Il risentimento di Radegunde per l’inadeguatezza di questo suo “figlio” a elevarsi a pari si sostanzia, come ella dice nel finale della novella, nel dargli i “suoi occhi”: per vedere il mondo, così come esso è percorso dalla violenza insensata che Thorvald stesso e i suoi uomini rappresentano; per soffrirne come lei (e con lei tutte le donne) ne ha sofferto. In un finale duro e spietato come pochi, e dunque autenticamente poetico, Radegunde risponde con un secchissimo No revenge? Thinkest thou so, boy? (…)Think again. . . . alle perplessità di Radulphus - al quale il destino di Thorvald, ovvero la missione affidatagli da Radegunde di divenire un Pacificatore, non sembra frutto di un qual grande vendetta.  

A Sibihd, la giovane suora stuprata da Thorfinn, e a Hedwic, la consorella sognatrice, Radegunde concede invece una solidarietà e una benevolenza un po’ d’ufficio. Come se il genere comune la obbligasse a riservare a queste due “figlie”, inadeguate ai suoi occhi di madre quanto i due bestioni norvegesi, un trattamento comunque pietoso, a tendere loro una mano perfino complice. O comunque conscia della necessità di proteggerle non soltanto da loro stesse ma anche dagli uomini. Forse la giovane Sibihd riuscirà a superare il trauma subito, ma Radegunde mostra chiaramente che neppure una madre può sostituirsi alla figlia nella sofferenza dello spirito. Ma può tuttavia fornire consolazione alla fantasia sovreccitata di una figlia come fa con Hedwic. Con una bugia: ma una madre sa bene che la verità a volte è sopravvalutata.

Non è però alle due “figlie” femmine che Radegunde consegna il lascito più prezioso. Che consegna la sua figura di madre che continua a vivere nel figlio al di là dell’assenza, della partenza, della morte della madre. Al di là dell’impossibilità per il figlio di conoscere davvero sua madre. E’ il lascito della vita stessa. E’ a Radulphus, il bambino di sette anni che poi diventa il narratore stupito della storia di Radegunde, che la badessa fa davvero dono della vita. Al di là di tutto, a me pare che Joanna Russ consegni in tal modo un chiaro messaggio di speranza e un invito deciso alla collaborazione. Radulphus che la badessa aveva già eletto e ora riconferma a figlio adottivo, a significare che la scelta cosciente dell’amore è più importante della cieca biologia, la quale assicura al figlio soltanto una vita biologicamente limitata; e Radulphus dal quale si congeda con le parole: Remember me. And be ... content. Abbi il coraggio di vivere e di assumerti la responsabilità di trovare la tua strada per la felicità… e ricorda chi ti ha dato la vita. Una madre non può salvare ogni figlio, perché questo dipende da lui. Ma può cercare di insegnare la strada per salvarsi. Radulphus si salverà e diverrà un uomo completo e sereno, nei limiti della una normale vita umana di un uomo non particolarmente brillante. Ma vivo e funzionante. E Radulphus serberà sempre l’amoroso ricordo di Radegunde.

Souls è reperibile in italiano nelle varie raccolte dei premi Hugo in cui sono presenti le opere premiate nel 1983, anno appunto nel quale ebbe il riconoscimento.

La novella in inglese: