domenica 28 febbraio 2010

[fantascienza] Il classico – Passeggeremo ancora al chiaro di Luna (We’ll walk again in the Moonlight - 1974) di Tom Godwin (1915-1980)


Okay, forse il nome di Tom Godwin non vi dirà molto. Però questo poco prolifico autore ha scritto uno dei racconti più celebri nella storia della fantascienza americana: Le equazioni fredde (The cold equations, 1954); nonché un romanzo piuttosto cult quale I superstiti di Ragnarok (The survivors, 1958) - rititolato recentemente Gli esiliati di Ragnarok – e il suo seguito: I reietti dello spazio (The space barbarians, 1964). Data l’esiguità della sua produzione, una trentina di racconti e tre romanzi tra il 1953 e la morte, e una vita a dir poco travagliata, non è davvero poco.

L'antologia dove venne originariamente pubblicato "We'll walk again in the Moonlight"
 
We’ll walk again in the Moonlight è tra i suoi ultimi racconti, venne pubblicato originariamente in una antologia curata da Roger Elwood, Crisis; in Italia è apparso nel 1980, in appendice al fascicolo n.826 di Urania, e mai più. Un vero peccato.

Nell’Encyclopedia of Science Fiction, John Clute, nel tessere le lodi della chiarezza concettuale e della verve narrativa dell’opera di Godwin ne puntualizza anche una certa vena eccessivamente sentimentale nelle caratterizzazioni. Questo racconto è un ottimo esempio di quanto egli afferma, ma anche del fatto che, al suo meglio, la narrativa di Godwin non risente di tale relativa debolezza, e ne esce perfino in qualche modo esaltata.


La prima e unica pubblicazione italiana fu su Urania 826, che presentava "Ragnatela", l'ultimo romanzo di John Wyndham

La trama è presto detta: Billy e Lora Lee si amano a tal punto che per non stare mai separati l’uno dall’altra accettano di farsi spedire su un pianeta a decine di anni luce dal più vicino altro essere umano per lavorare come guardiani di uno dei molti “fari” planetari necessari alla navigazione iperluce. Lora Lee morirà cinque anni più tardi, gettando Billy nella disperazione e nella più nera delle depressioni. E… e non voglio dirvi di più, nel caso riusciate a leggere il racconto. Anche perché in fondo, la conclusione non è così importante.

Scarno ed essenziale, come si vede; e di sicuro esile nella componente più propriamente fantascientifica.  E infatti non è quest’ultima a rendere interessante, e tanto meno avvincente, la lettura del racconto: è molto semplicemente la sua bellezza. Un tratto sfuggente, che cercherò di precisare.

Godwin narra la vicenda con limpidezza, lasciando che la linearità, quasi la ovvietà, dei personaggi, emerga con naturalezza dai loro discorsi, scelte e azioni. Sin dall’incipit mescola con accortezza il dramma del presente e l’idillio del passato, lasciando che quel sentimentalismo richiamato da Clute impregni le sue frasi fino a occasionali picchi di lirismo sincero e si infiltri nelle emozioni del lettore. Con forza, perché l’autore procede con inesorabilità in una descrizione progressiva di amore, autoinganno, follia, conclamata morbosità; dove il “colore” sentimentale è al servizio – serve a preparare – la cupezza delle ultime pagine. 

Urania Collezione 61 ha presentato per la prima volta insieme i romanzi del dittico di Ragnarok

E così, anche l’ambientazione fantascientifica, pur restando vicaria, trova un suo perché nel rendere assoluta la reclusione in sé di Billy, la separatezza dei due innamorati dal mondo e dal consesso umano, e l’ossessione esclusivista del loro rapporto. Un rapporto più importante dei suoi stessi protagonisti, il vero perno del racconto, che ne lascia in ombra le personalità; salvo poi accorgersi di come, sottilmente, i labili e scarsi indizi di esse si incasellino con coerenza in quel rapporto e ne prefigurino  il prodotto finale. Si è allora in grado di apprezzare anche l’ironia nera, o forse meglio tutta l’acidità, del sarcasmo contenuto in quel titolo così all’apparenza tenero, e anzi smielato. All’apparenza.

Una storia dove regna il romanticismo, insomma, ma la cui superficie tersa e incantevole viene frantumata per rivelare quella materia che vi ribolle sotto, gravida di pericoli e in grado di distruggerci attraverso le nostre debolezze (o, peggio, attraverso i nostri punti di forza).  Una storia che è un ottimo esempio di come la fantascienza possa venir usata con duttilità, in ambiti che l’opinione corrente le vorrebbe preclusi. E di come, in ultima analisi, essa si occupi di nient’altro che di esseri umani.

The cold equations: http://www.oakmeadow.com/curriculum/overviews/english10_sample.pdf (il racconto inizia a pag.2 del documento)


domenica 14 febbraio 2010

L’ultimo rintocco (mio racconto)

Una piccola invasione di campo, chiedo perdono. Ogni tanto azzardo la scrittura di qualche racconto breve o brevissimo, niente di che. Uno, però, ho la presunzione che mi sia riuscito bene; è questo, scritto ormai quasi sei anni fa.



L’ultimo rintocco

Roma, 16 febbraio 2072 – quartiere “Alta Torre del Paradiso”

Rientrò a casa trafelato dalla quotidiana passeggiata mattutina nel Parco dell’Alta Torre, sempre più breve e stancante. A 107 anni, nonostante i miracoli della medicina dell’Unione Euroamericana, era divenuta un’impresa anche solo camminare tranquillamente, nei giardini sorvegliati dalle guardie armate. Poggiato il bastone all’ingresso e appeso il cappello a tesa larga – il sole romano di febbraio era già pericoloso per anziani e bambini – si recò a brevi passettini stanchi verso la cucina. Sui muri degli ampi corridoi della casa facevano bella mostra di sé quadri, arazzi e sete. Varcò la porta della cucina e rivolse un saluto gentile alla donna che da ormai più di vent’anni si occupava dei suoi pasti ed alla giovane cameriera; respinse cortesemente le premure dell’infermiera che voleva eseguire un controllo delle sue condizioni; si sedette al grande tavolo pulito al centro del locale, con mosse aggraziate e fragili, stanche. Attese in silenzio, regolando il ritmo affrettato del suo respiro su una frequenza più consona alla sua età, fin quando la cameriera gli apparecchiò davanti una tazza fumante di Darjeeling proveniente dalle superstiti coltivazioni dell’Himalaya, cloni delle varietà più selezionate. Con una goccia di latte.

Era un’abitudine che aveva preso più di ottant’anni prima, quando era giunto a Roma dagli allora Stati Uniti d’America, per restarvi sei mesi a fare esperienza all’estero. Erano invece passati quasi ottantadue anni. Al ritorno dalle sue occupazioni, qualunque ora fosse, si preparava la tazza di tè. Darjeeling. Poi era venuto il tempo in cui qualcuno la preparava per lui. Ed era stato sempre così. Ora la cerimonia era anticipata al ritorno dalla sua breve passeggiata: rito nel rito.

Avvicinò il naso alla tazza e lasciò che l’aroma ricchissimo e delicato gli salisse su per le narici e svuotasse i suoi sensi.

Improvvisamente, nel suo cervello si formarono immagini di morte e distruzione, strazianti, terribili; masse umane bruciate vive, scie di fuoco che attraversavano un cielo spesso come catrame e si abbattevano tra case e strade, seminando paura e disastro. Durò forse un secondo, ma fu l’esperienza più dolorosa che avesse mai provato, e riuscì a stento a non urlare. Riuscì a calmarsi, bevve un sorso profumato e appoggiandosi allo schienale della sedia si abbandonò ai ricordi.

Aveva forse quattro o cinque anni quando si rese conto del primo degli strani “poteri” che manifestò di possedere negli anni: intuiva, con sempre maggior chiarezza, le emozioni ed i sentimenti delle persone intorno a lui. E si rese conto che gli altri non potevano farlo. Imparò istintivamente a nascondere questa sua facoltà che divenne via via più forte e precisa; ancor più la nascose quando intorno ai vent’anni si rese conto che “premendo” su certe emozioni e sentimenti degli altri poteva indurli entro certi limiti a compiere o non compiere determinate azioni. Non abusò né usò di questa facoltà, neppure quando significò pagare il prezzo più alto in termini personali.

In seguito giunsero le “visioni”. Rare, brevissime, confuse all’inizio. E poco intense. Aveva quarant’anni quando si manifestarono per la prima volta, e quasi cinquanta quando si rese conto che erano finestre aperte sul futuro, squarci nel continuum temporale attraverso il quale penetravano caotici momenti di realtà dell’umanità di là da venire. Ne fu terrorizzato, anche per la chiarezza e forza sempre maggiori che ebbero. Ancor più terrorizzato fu dall’ultimo “potere” che insorse in lui passati i sessant’anni.

Di nuovo le immagini: meno brutali, ora, come se fossero state ben sintonizzate, e per questo più nitide. Non le contrastò…

Questa volta fu l’esperienza più lunga ed intensa che avesse mai avuto, durò almeno due minuti reali: ore di tempo soggettivo. Gli parve che i decenni futuri scorressero ordinatamente, come una pellicola, impressionando direttamente il suo cervello. Vide i molti uomini, che morivano: di fame, di malattia, di guerre: le guerre infinite, repliche l’una dell’altra, di uomini infernalmente abili nell’essere ogni volta più crudeli della precedente; le malattie sempre più cattive, sempre nuove, a passarsi il testimone in una staffetta di morte; le fami sempre più totali partorite da terre sterili. Vide i pochi uomini che si arroccavano e si armavano sempre più spaventati. Vide la natura sempre più aggredita e abrasa, sempre più aggressiva e abrasiva, in un gioco con l’uomo a chi più sapesse fare del male all’altro. Vide una Terra sfatta.

Ne restò sconvolto come mai prima; spossato, del tutto sfinito. E comprese. Che la decisione presa venticinque anni addietro, che da venticinque anni lo faceva soffrire e lo teneva abbarbicato alla sua vita, era giusta. E che l’avrebbe portata a compimento.

Bevve l’ultimo sorso, tiepido, di Darjeeling. Chiuse gli occhi, e sentì la stanchezza dei due secoli più difficili calargli tutta addosso. Non c’era più tempo, quell’ultima visione lo stava stroncando, i battiti del suo cuore si stavano facendo deboli ed irregolari. “Non ancora!”, pensò; lottò per riottenere il controllo: restava poco da fare, e andava fatto. Estese la sua coscienza, senti la sua rete neurale riprendere il controllo di tutti i gangli che aveva già censito, incasellato, imbrigliato; cercò i nuovi, i pochi che restavano sparsi – non era facile per la sua coscienza sempre più senile tenere il passo delle nascite, cercare nei luoghi più remoti. A un certo punto non trovò più nulla, nessuna coscienza ulteriore. “L’ultimo sforzo.”, si disse. Sentiva il cuore indebolirsi, ma bastava poco ormai. Regolò la sua pulsazione, lavorò come se il suo cervello, unico al mondo, fosse un cesello perfetto in mani infallibili: sentì che tutti i fili erano stati annodati, che il meccanismo si era incastrato. I suoi battiti rallentarono; infine non ve ne fu uno seguente, e ventiquattro miliardi di cuori sincronizzati su quello ebbero il loro ultimo battito. L’ultimo rintocco.

martedì 9 febbraio 2010

[fantascienza] I contemporanei - Il quinto principio (2009) - di Vittorio Catani (n.1940)

Avendo esordito quasi cinquant'anni fa, Vittorio Catani è un veterano della sf italiana; e senza dubbio ne è uno degli scrittori più rappresentativi. Il quinto principio è tuttavia appena il suo secondo romanzo; il primo essendo stato il pregevole Gli universi di Moras che inaugurò il Premio Urania nel 1989. Gran parte della sua produzione di racconti e novelle è stata raccolta abbastanza di recente nel corposo volume L'essenza del futuro edito da Perseo (oggi Elara).


Non è facile commentare quest'opera. Nella sua vastità è fin troppo compressa; nella sua dispersività esige che il lettore ne rintracci la ferrea coerenza. Un tentativo si può fare iniziando dai difetti ancor prima di accennare alla trama. Difetti che sono presenti eppure a ben vedere tali non sono. La critica non è una scienza esatta - e tanto meno lo è un'analisi fatta in economia come questa. Non esistono regole valide per ogni libro, e se esistessero tanto varrebbe smettere di leggere perché da millenni più nessun libro sarebbe in grado di far provare nuove emozioni. Di un libro (come di qualsiasi prodotto creativo dell'ingegno umano) si può tentare di individuare le caratteristiche e ragionarci sopra, cercando di comprendere come funzioni, se funzioni, e se quel funzionamento sia efficace in rapporto all'opera.


Il quinto principio è un romanzo indubbiamente didascalico. In taluni passaggi Catani ardisce profondersi esplicitamente nelle spiegazioni. Se vogliamo, esso ha perfino una morale. Ma è proprio per queste caratteristiche che funziona così bene. Che si configura realmente come opus magnum dell'autore e della sf italiana. Ha una morale, ma non è mai, in nessun momento, moralistico. E' da quella morale, che si percepisce quasi da subito e che passo passo diviene sempre più concreta, che si ricava il forte senso di indignazione che l'autore trasmette e che il lettore fa proprio. E' ancora questo impianto morale lucido e virulento, e nonostante tutto mai domo o sconfortato, a rendere necessaria - e leggera - la forte sensazione di assistere a una lezione prima che di star leggendo una storia. E' questo a rendere la storia appassionante, coinvolgente E molto, anche. Certo devi essere bravo per riuscirci. Catani ci riesce perché fa uso di una lingua ricca e complessa, e modulata perfettamente sulle esigenze di una narrazione che alterna sequenze intensamente drammatiche e distese spiegazioni; che deve suscitare di volta in volta un profondo orrore interiore o l'intuizione di una gioia infinita. Non è stato raro, in questi ultimi lustri, imbattersi in autori che appoggiano un talento esitante all'imitazione pedissequa di certi stilemi del cyberpunk; o sfruttano la moda delle contaminazioni con il thriller o il noir, infarcendo i loro libri di effettacci grandguignoleschi gratuiti e sparandole sempre più grosse per impedire al lettore di soffermarsi sul vuoto di quel che scrivono e sulla banalità di una scrittura epidermica.  Se poi i lettori si fanno abbindolare avranno anche ragione, questi balbettanti campioni del vuoto. Catani invece fa percepire, vedere - vivere al lettore - un futuro dove le atmosfere cyberpunk non sono imitazione letteraria, ma vita vissuta: ha assorbito la lezione degli ultimi decenni come un dato di fatto, che manipola e plasma con maestria per dare significato e concretezza al mondo futuro che ci presenta. Utilizza gli schemi e l'impalcatura del thriller per imprimere ritmo e dunque per sollecitare l'attenzione, l'ansia e infine l'indignazione prima richiamata. E va anche oltre. Poco dopo la metà del romanzo egli violenta letteralmente la sensibilità del lettore in una scena dove gli scaglia addosso un disgusto autentico, metafora tanto scoperta quanto inesorabile del modello di sviluppo che ha guidato le nostre società negli ultimi quattro secoli circa. A una prima lettura, questa messa in scena del tabù finale era sembrata da leggere in una chiave grottesca, come rappresentazione della degenerazione ultima e completa di una classe sociale parassitaria di cui si mostra non il rituale più barbaro, ma quello più "sacro", in un rigoroso e logico capovolgimento di prospettiva. Riflettendo, si individua meglio una pura e semplice rappresentazione, per quanto caricaturalizzata, della nostra intima realtà di cannibali: delle risorse del pianeta e degli altri esseri umani. Se il lettore è disposto a seguire l'autore nella sua sfida, si tratta di una scena dove l'estremo e immediato orrore fisico finisce per tradursi in vero senso di desolazione e vuoto dell'anima al cospetto di una realtà che troppo spesso rimuoviamo dal nostro orizzonte spirituale: il prezzo del nostro benessere.

Catani riesce ad appassionarci perché la narrazione non permette perciò mai a quel senso di indignazione di scemare e costringe il lettore a mantenersi vigile. Ecco, forse oggi come oggi perfino questo può essere un difetto: Il quinto principio non si può leggere tanto per. Tanto meno a cervello spento. Esige attenzione; esige una coscienza del mondo che ci circonda. Definirlo fantascienza sociologica sarebbe riduttivo: si tratta di un romanzo fortemente politico e schierato. Un altro difetto? Non saprei. E' un difetto schierarsi in nome della dignità degli esseri umani? Della conoscenza? Perché null'altro che questo è l'impegno politico che traspare - trasuda da ogni pagina dell'opera.

E' un romanzo prolisso. Per fortuna! E' la dimensione monumentale a permettere una reale full-immersion dentro un'opera che si connota come autentica storia del futuro prossimo dell'umanità, e a permettere di esplorarne e comprenderne le implicazioni, lasciandosene impregnare i pensieri. E' questa ampiezza a costruire quel respiro globale che ha l'opera (tanto che si finisce per rendersi conto che il romanzo potrebbe perfino giovarsi di una ben maggiore lunghezza). A connotarla come la profezia - a un tempo terribile e piena di speranza - di un futuro che è già avvenuto. Come anticipavo è anche un romanzo dispersivo, fino alla caoticità; e di nuovo per fortuna. E' nel rincorrersi della miriade di personaggi diversi (e nel doverli rincorrere di capitolo in capitolo) che il lettore deve impegnarsi e restare desto per poter trovare il filo di quella coerenza morale che costituisce l'impalcatura portante del romanzo. E' il continuo saltellare dall'un personaggio all'altro, il continuo ritrovarne uno dopo decine e decine di pagine, il vederne di nuovi ancora dopo centinaia - è tutto questo a incitare, incalzare chi legge. Ma anche a permettere di centellinare e metabolizzare la lettura.



 Questo per i "difetti". :-)


Un accenno alla trama. Siamo a pochi decenni da oggi, in un mondo che appare una fin troppo realistica evoluzione del nostro, un mondo dove hanno assunto rilievo definitivo le tendenze - economiche, politiche e sociali - più inquietanti del nostro tempo. Una Terra dove a essere stato globalizzato è lo sfruttamento e dove il modello di sviluppo consumistico è giunto a piena maturazione, alla sua versione più pura - ed estrema. Una Terra dove è un dato di fatto l'esistenza di una superélite economica chiusa in casta resasi eterna (l'ultimo stadio di istituzioni come il Bilderberg Group?), frazione infinitesima della popolazione che controlla quasi ogni aspetto dell'economia e della vita di tutti. Casta che ha creato una ènclave segreta, sostanzialmente extraterritoriale, dove vivono le poche decine di milioni di individui che compongono questo gruppo parassitario: la città di Diaspar. In questo scenario, in questo pianeta che sta andando ecologicamente in malora e dove la conoscenza sta sempre più regredendo a strumento di potere oppressivo al servizio di una ristrettissima classe di persone, si agitano tuttavia forze ancora vitali, decise a reagire in qualche modo. Raccogliticce e sparse inizialmente, si coaguleranno poi in un tentativo fattivo di opposizione.  E il "Quinto Principio"? Per soprammercato, la nostra povera Terra è squassata da avvenimenti naturali catastrofici oppure scientificamente incomprensibili: gli "Eventi Eccezionali". Più spesso tali avvenimenti sono catastrofici e anche sfuggono a ogni logica scientifica nota. Forse tutto è dovuto a un possibile e non ancora formulato quinto principio della termodinamica (intanto, era stato già formulato un quarto), ma Catani non scioglierà il nodo. Come lascerà in sospeso il destino dell'umanità. Non perché il finale del romanzo sia aperto, esso è anzi perfettamente concluso con lucidità. In un epilogo che segue al più catastrofico e definitivo degli Eventi Eccezionali, un anticlimax a tratti struggente, Catani lascia aperta ogni strada agli sparsi superstiti dell'umanità: la fuga dal pianeta; la ripetizione di tutti gli errori commessi; lo sviluppo di nuove società. Il pianeta è ferito, ma le sue ferite vanno rimarginandosi: nella visione di una Terra che va rigenerandosi cogliamo un accenno finale di lirismo, e la nota di speranza più decisa. Non c'è però acritica speranza, così come non c'è assolutamente disperazione. Invece, un fortissimo senso di concreta attesa.  Che passino gli effetti del trauma subito dall'umanità, e che essa riparta. Poiché passeranno e si ripartirà, benché ancora non si sappia come. 

E' in questo scenario che si muovono i personaggi, pedine di un gioco elaborato e ritratti in rilievo di figure umane alle quali Catani conferisce tridimensionalità attraverso passioni e psicologie squadernate alla nostra vista. Personaggi a volte "sprecati": protagonisti che scompaiono dalla scena; altri che sembrano dover essere protagonisti e ballano per un solo capitolo. A ben vedere è un'altra sfida e un nuovo sfoggio di realismo: i percorsi della storia umana sono frastagliati e non obbediscono ad alcuna linearità. E questo è un romanzo storico, ancorché di storia futura. Personaggi che comunque è difficile dimenticare, sia i principali che quelli minori. Questi ultimi forse anche di più, perché Catani pare mettere una cura particolare nel concentrare il senso di un'intera personalità quanto minore è lo spazio che vi dedica. Figure, in genere, di cui ci viene mostrata la laidezza e la tenerezza (Bimba la prostituta-bambina, ma anche la sua padrona la Dama Menh; Anthuria, la volgarissima e romantica compagna di Axel/Alex, uno dei personaggi principali; gli uomini e le donne che si ritrovano a popolare la voragine aperta nel cuore dell'Africa da uno dei primi e più distruttivi Eventi Eccezionali). Tutti questi e gli altri con loro, soffrono e gioiscono; amano con rabbia o con tenerezza; fanno sesso con ardore o con dolcezza - o per prepotenza. Sono vittime o predatori. Raramente si evolvono umanamente. Yarin Radeanu, magnate di Diaspar e predatore in grande stile conoscerà l'abiezione e l'umiliazione estreme, ma non ne ricaverà lezioni: semplicemente perché la sua natura è appunto quella di un predatore; e questo Catani lascia che emerga con nettezza dalle sue azioni e dalla sua psicologia, senza indulgere in giudizi privi di senso. Nonostante gli accenni espliciti sul suo passato, ci resta invece nascosto e misterioso il personaggio di Waldemar, tecnocrate di Diaspar e figura demiurgica della "rivoluzione", quasi un deus ex machina: figura a suo modo poetica, preferendo Catani modellarlo per allusioni ed emozioni.


In questa ricchezza di argomenti, nel vorticare di fatti e personaggi, potrebbe forse perdersi il contenuto più classicamente fantascientifico del romanzo, la scoperta di una dimensione parallela al nostro universo, e molto diversa da essa. E' un merito ulteriore dell'autore il fatto che abbia saputo inserire e usare con accortezza un tema in apparenza di difficile collegamento con la vigorosa impronta politica della storia. Non solo, infatti, lo vediamo armoniosamente inserito nel tessuto del romanzo, ma è pure evidente come vada a completare la narrazione rappresentando probabilmente l'elemento di saldatura tra le varie opzioni e intendimenti dei superstiti umani.

lunedì 8 febbraio 2010

William Tenn (1920-2010)

Alla soglia dei novant'anni è morto il professor Philip Klass, noto ai lettori di fantascienza come William Tenn.

Tra la fine degli anni '40 e dei '60, quando smise di scrivere narrativa per dedicarsi completamente alla carriera accademica, Tenn è stato autore di racconti raffinatissimi nei quali ha fatto uso dell'ironia e dell'umorismo come di armi affilate, e uno dei principali autori di quella che comunemente viene etichettata come "fantascienza sociologica".

lunedì 1 febbraio 2010

Ibridazioni

La fantascienza non è un genere letterario proprio. E' certamente un genere commerciale, con pubblicazioni ad hoc, autori specializzati, lettori esclusivi, un fandom attivo e quant'altro. Se però si tenta di trovarle delle definizioni stringenti e fissarle dei canoni essa sfugge alle facili (e anche alle difficili) catalogazioni. Sicuro, si occupa del futuro; ma mica sempre. Indubbiamente ha a che fare con gli alieni; ma sono stati creati interi universi narrativi senza di essi. La tecnologia e la scienza vi giocano senza meno un ruolo principale; tuttavia sono innumerevoli le opere di fantascienza che non se ne occupano granché o ne fanno completamente a meno. I viaggi nel tempo? I robot? I mutanti? Possono esserci - in tante occasioni ci sono. Ma non sono necessari. Nessun elemento è tale da essere una conditio sine qua non. Alla fine il meglio che si possa dire è che la fantascienza è il terreno del possibile; dell'estrapolabile; dell'immaginabile con una percentuale (assai variabile) di probabilità/possibilità di realizzarsi. Ma è sempre un metterci una pezza.

La realtà è che la fantascienza è per sua natura una narrativa plastica, adattabile. Deformabile. Lo scrittore può usarne per tutti i suoi scopi.

Ed è, proprio per quanto si diceva, una narrativa ibridabile. Con facilità. Lo è sempre stata, da ben prima che Hugo Gernsback (http://en.wikipedia.org/wiki/Hugo_Gernsback) le cucisse addosso un nome le cui misure sono impossibili da trovare.

Ibridazioni e commistioni con la narrativa orrorifica, con quella che oggi chiamiamo fantasy - e in seguito con il giallo e le sue varianti - sono sempre esistite da che Mary Shelley fuse il brivido della paura e dell'orrore con la fascinazione del nuovo scientifico e tecnologico. Semplicemente, il fenomeno avveniva, nel gran calderone della narrativa fantastica: senza che nessuno si stupisse né eccitasse. Oggi troppo spesso si ciancia di commistioni tra la sf e vari generi (principalmente noir e horror) come si trattasse di una grande novità, o comunque di una patente di modernità e superiore sintonia con la temperie della nostra epoca. Una scempiaggine che serve per lo più a nascondere il fatto che si è instaurata una moda commerciale e attraverso tali patenti spesso si spacciano lavori illeggibili. Come tutte le mode commerciali è infatti abbastanza perniciosa. Le nicchie (nel caso della sf sono più che altro nicchie di dimensioni non eccezionali, ma pur sempre interessanti) di tal fatta tendono infatti ad attirare gli scrittori meno dotati: è per la rendita di posizione che esse garantiscono. Ed è così che si hanno fin troppi scadenti horror-sf, noir-sf e compagnia bella. Essendo anche che la moda si impone con la grancassa e lo sviamento pubblicitario, quando oggi si legge in una quarta di copertina che il tal romanzo è una "moderna contaminazione" tra fantascienza e qualcos'altro, purtroppo la sòla è quasi una certezza. Quasi, sia chiaro.

Ma nella sua lunga storia questa narrativa così plasmabile e plasmatrice, così in grado di infiltrarsi nei e lasciarsi permeare dai generi più vari, ha dimostrato che dal connubio con essi lo scrittore di talento è in grado di tirar fuori capolavori indimenticabili. Perché il discrimine non è mai se si scrive fantascienza pura (e che bestia sarebbe, poi...) o noir-sf. Il discrimine è se si sa scrivere o meno. Se si ha o non si ha talento.

La decina di libri che segue, ordinata più o meno cronologicamente, non esaurisce in nessun modo la sterminata messe dei possibili esempi di opere ibride che si potrebbero dare. E' solo un elenco indicativo. E un memento: accostatevi con amore ai figli bastardi della fantascienza. Ma sappiate scegliere chi deve raccontarvene le storie.

Zothique (id. 1932-1948 - 1970) 
di
Clark Ashton Smith (1893-1961)
Zothique è l'ultimo continente della Terra, in un futuro così remoto da noi da aver perduto quasi ogni residuo vestigiale della nostra storia, quasi ogni connotato umano. Magia e demonolatria sono di casa per ogni dove. Di certo è magica la scrittura di Smith, il solo sopravvissuto agli anni '30 della triade dei migliori scrittori della rivista Weird Tales - lui stesso, Lovecraft e Howard - e capace come nessun altro di intessere suggestioni prettamente fantascientifiche in una eccezionale architettura stilistica fantasy. Smith non ha scritto romanzi, Zothique è la sua serie di racconti correlati più corposa.


Northwest Smith il terrestre (Northwest of Earth 1933-1940 - 2007)
di
C.L. (Catherine Lucille) Moore (1911-1987)
La scrittura ricchissima e barocca di C.L. Moore ha inventato negli anni '30 della giovinezza della sf la figura di questo avventuriero degli spazi stellari e planetari, classicissimo furfante con un proprio codice di regole, i cui racconti riuniti in questo volume mescolano alla sf con abilità, a volte davvero magistrale, i più vari generi: fantasy, cappa e spada, horror. Il primo racconto della serie, Shambleau, può apparire datato, ma rappresenta ancora oggi uno splendido viaggio nel racconto orrorifico di mostri dal sapore quasi primordiale, in virtù specialmente della scrittura ridondante ed evocativa dell'autrice.


Il figlio della notte (Darker than you think - 1948)
di
Jack Williamson (1908-2006)
In questo romanzo di oltre sessant'anni fa una delle grandi figure archetipiche della letteratura dell'orrore, il Licantropo, è messo sulla scena e analizzato - quasi al microscopio - di un'implacabile razionalità scientifica. Il mix tra horror e fantascienza è perfetto e ne nasce una delle opere migliori e ancora più fresche di Williamson: le scene in cui la bestia prende coscienza di sé e contatto con la natura sono tra le pagine più belle della sf.


Abissi d'acciaio (The caves of steel - 1953-54)
di
Isaac Asimov (1920-1992)
Nessuno è stato capace di fondere meglio di Asimov la fantascienza più ortodossa con il giallo classico, la detective story. Abissi d'acciaio è il primo nella sequenza dei romanzi dei Robot, qui si incontrano il malinconico poliziotto terrestre Elijah Baley e l'androide impeccabile R.Daneel Olivaw, creato dagli Spaziali, dando vita a una storia dove ci si affaccia su un futuro che in buona parte contrasta con la visione rosea che in genere si ha di Asimov. E' forse il suo romanzo più cupo. In senso positivo.


Io sono leggenda (I am legend - 1954)
di
Richard Matheson (n.1926)
Questa è una delle storie più famose del suo autore, e della fantascienza tutta. L'inesorabile inversione dell'identità del diverso è perfino l'aspetto "filosofico" minore di questo romanzo dove altre due delle figure archetipiche dell'horror, il vampiro e lo zombie, mutano pelle per mostrarci l'orrore della nostra quotidiana umanità. Il futuro di Matheson in cui l'uomo soccombe, lo vede soccombere non di fronte al Male o alla morte, ma alla vita sempre in grado di cambiare e trovare la propria strada per continuare. Tutte le creature viventi hanno un ciclo, destinato a terminare.

La lunga marcia (The long walk - 1979)
di
Stephen King (n.1947)
Stati Uniti, futuro prossimo: sotto il tacco di un tiranno si celebra annualmente il rito della Lunga Marcia. Tra il sacrificio del (di molti) capro espiatorio, l'epifania messianica e il Ver Sacrum (http://en.wikipedia.org/wiki/Ver_sacrum), in un'ambientazione che da corpo alla paranoia fantascientifica degli USA ridotti a dittatura militare, King costruisce un romanzo breve e fulminante, dal ritmo perfetto, dove l'orrore è mostrato con rara efficacia sia nelle sue caratteristiche più materiali che in quelle più ambigue e sottili. La storia dell'insensata gara mortale dove sopravvive il solo che sia in grado di camminare più degli altri non si dimentica. Il Re pubblicò sotto lo pseudonimo di Richard Bachman.


I figli della paura (Children of the night - 1992)
di
Dan Simmons (n.1948)
 
Romania, vampiri. Nulla di più classico, nulla di più horror. Il regime di Ceausescu è caduto da poco, lasciando però in eredità un orrore molto reale, crudo. E privo di appeal narrativo: migliaia di bambini orfani internati. Su questo sfondo Simmons dipana una storia che unisce alla perfezione la tragedia quotidiana di un paese alla deriva, l'horror classico di sette segrete secolari e immortali esseri malvagi e il rigore dell'estrapolazione (fanta)scientifica.


Noir (id. - 1998)
di
K.W. (Kevin Wayne) Jeter (n.1950)
Il titolo non mente. L'autore dello stupefacente Dr.Adder, uno dei romanzi più bizzarri e audaci nella forma e innovativi nei contenuti degli anni '80, con questo suo altro romanzo elabora, attraverso il sapiente uso e montaggio di tutti i cliché della narrativa (e ancor più cinematografia) noir, una dura requisitoria contro le degenerazioni del capitalismo più avanzato. Noir è una antiutopia militante e un thriller fantascientifico estremo, dove la raffinatezza della fantasia (il detective protagonista vede attraverso occhi modificati che gli permettono una visione unicamente in bianco e nero, come in una pellicola della Hollywood dei tempi d'oro) è unita all'acidità di una metafora scoperta (il personaggio del detective si chiama McNihil).


Trilogia di New Crobuzon (2000-2004)
di
China Mièville (n.1972)
Mièville definisce la propria narrativa come weird fiction, in omaggio a quegli scrittori come Howard o Lovecraft (o Smith citato in precedenza) che crearono una fetta non indifferente dell'immaginario moderno sulle pagine di Weird Tales: i poeti del bizzarro. L'amplissima Trilogia di New Crobuzon - iniziata con Perdido Street Station (id.2000), proseguita con La citta delle navi (The scar - 2002) e ultimata con Il treno degli Dei (Iron council - 2004) - non rappresenta solo lo sforzo narrativo fin qui maggiore di Mièville, ma anche un allargamento dei confini del fantasy ben oltre le contaminazioni con la science fiction, l'horror, l'urban fantasy, fino allo steampunk o quant'altro, in una congerie appunto weird. La visione politica dell'autore impregna e informa l'opera, e nel brulicante di vita multiforme mondo di New Crobuzon creato dallo scrittore britannico si riflette il nostro, con le sue tensioni, le lotte, i drammi e le ingiustizie.


Trilogia di Takeshi Kovacs (2002-2005)
di
Richard K. Morgan (n.1965)
Britannico al pari di Mièville, Morgan ha dato vita con la corposa terna di romanzi aventi a protagonista il detective hard-boiled Takeshi Kovacs - Bay City (Altered carbon - 2002); Angeli spezzati (Broken angels - 2003); Il ritorno delle Furie (Woken Furies - 2005) - a una riuscita fusione della sf con altri filoni e generi della narrativa, fantastica e non. In un futuro la cui elaborazione è assai influenzata dalle visioni del cyberpunk (le personalità umane possono essere "registrate" e se ne può fare alla bisogna il download) e dalle fortissime suggestioni che a sua volta questo ha mutuato dal noir, si muove il suo protagonista, dichiaratamente ispirato ai classici dell'hard-boiled. Le ambientazioni di Morgan appartengono alla sf ortodossa (il secondo e terzo romanzo si svolgono in scenari extraterrestri), che egli ibrida abilmente con gli innumerevoli elementi che gli derivano dagli altri generi di cui si è nutrito e che vanno a comporre il mosaico di una narrativa sospesa tra crudezza e ironia.