giovedì 26 febbraio 2009

Philip J. Farmer (1918-2009)

Ieri, 25 febbraio 2009, Farmer è morto. I suoi cicli, romanzi e racconti sono un'infinità. Ha dato davvero tanto alla fantascienza, a partire da quel The Lovers pubblicato nel 1952, poi espanso in romanzo, e pubblicato molte volte anche in Italia, con vari titoli, l'ultimo dei quali Gli amanti di Siddo.


venerdì 20 febbraio 2009

[fantascienza] I contemporanei - Glaciale (Glacial - 2001) di Alastair Reynolds (1966- )

A parte un paio di racconti pubblicati dalle semicarbonare edizioni Perseo (oggi Elara), questa breve novella è tutto quanto finora apparso in Italia dello scrittore gallese Alastair Reynolds. Eppure Reynolds, che ha all'attivo parecchi romanzi e antologie di racconti, è ormai uno degli autori di punta della fantascienza britannica e internazionale in genere, considerato tra i più rigorosi e interessanti di coloro che hanno ridato slancio, e profondità, alla space-opera.

Glaciale si inscrive nell'universo narrativo del Revelation Space, nel quale Reynolds ha ambientato molte delle sue opere, e il cui primo ed eponimo romanzo è stato finalmente annunciato in pubblicazione su Urania nel corso di quest'anno. L'appartenenza a un ciclo (è la continuazione diretta di un'altra novella, inedita in Italia, Great Wall of Mars) non mi è comunque parsa di eccessivo ostacolo per la lettura, che funziona perfettamente anche come lettura a sé stante, pur se ovviamente resta qualche punto in sospeso.

L'impianto della novella è quello classico della space-opera, e più precisamente dell'avventura planetaria con al centro della vicenda un mistero da sciogliere. Come è nella space-opera moderna, il fiorire della quale è largamente dovuto agli autori britannici, lo sviluppo avventuroso si salda con, ed è ampliato e approfondito da, riflessioni e proiezioni dello sviluppo biologico, tecnologico e sociale dell'umanità. Glaciale non sfugge certo allo schema, tanto più appartenendo a una future history; Reynolds arricchisce ulteriormente la trama con una crime story che a un certo punto pare prendere il sopravvento, ma che è poi abile a ricondurre nel solco principale della storia, che non ne viene banalizzato o emarginato, ma finisce invece per vivacizzarsi il giusto.

Lo sfondo è quello di una guerra tra le due fazioni dell'umanità, i "normali" e gli "unitari", i Conjoiners, i quali stanno sviluppando una forma di rete neurale di comunicazioni interpersonali, una sorta di mente Borg in nuce, e di umanità che va sempre più verso l'integrazione macchina-uomo attraverso le nanotecnologie. Un gruppo di Unitari è fuggito dal Sistema Solare alla ricerca di un pianeta colonizzabile e approda su Diadem, un mondo che sta inoltrandosi in un'era glaciale e già raggiunto in passato dall'uomo, e precisamente da una spedizione americana. Qui, come detto, si trovano ad affrontare il classico mistero planetario, complicato da un più prosaico mistero criminale. I personaggi restano in certo qual modo defilati rispetto alla vicenda e ai suoi aspetti di intreccio, ma anche rispetto a quelli filosofici e cognitivi, che Reynolds è abile ad armonizzare con le necessità dell'azione. Ma almeno i due principali, Nevil Clavain e il superstite dell'antica spedizione americana su Diadem hanno una personalità più che abbozzata per le necessità del racconto. Dal loro interagire ha origine il dilemma finale della storia, che ripropone l'eterno conflitto/dicotomia tra giustizia e legge. Reynolds sa riproporlo con vigore e convinzione, prospettando in modo spassionato al lettore i termini della questione, e in certo modo non facendoli risolvere dalla risoluzione della vicenda. Sebbene in una maniera più dark e meno buonista (o meglio, meno ottimista), Reynolds pare ispirarsi alle migliori trame del genere dell'universo trekkiano, con occhio particolarmente attento al Voyager; e del resto pare attingere alcune sue caratteristiche dalla Sette di Nove del Voyager la figura di Felka, la cui mente deumanizzata in via sperimentale con la soppressione delle reti neurali deputate alle relazioni interpersonali va ricostruendosi (o pare farlo) con l'aiuto del superstite della prima colonizzazione di Diadem. Lo sviluppo ulteriore del personaggio avverrà nell'inedito in Italia Redemption Ark, ma la via è chiaramente tracciata. Al di là dell'avventura contingente, una solida e ben scritta trama di avventura planetaria, ciò che rende interessante la novella è il tarlo interiore di Nevil Clavain, umano "normale" che ha disertato per unirsi ai Conjoiners (forse per l'affetto che ha nei riguardi di Felka, e di Galiana, la fondatrice degli "unitari"). Clavain è ancora interiormente recalcitrante rispetto all'idea di una coscienza unitaria verso la quale si sta muovendo il gruppo, ed è con grande difficoltà che riesce a barcamenarsi tra le varie istanze della sua coscienza. Nel finale pare avanzare con più chiarezza verso l'accettazione del nuovo modello di umanità profondamente interconnessa; eppure sembra di vederlo fare un passo in avanti e subito tre quarti all'indietro. Interconnessione delle menti a parte, l'umanità del futuro non sfuggirà alle necessità di un'intima connessione con le nanotecnologie, e a uno sviluppo poderoso delle scienze biologiche che muterà i suoi schemi di pensiero e modelli cognitivi e percettivi: è forse questa consapevolezza, quantunque non accettata con il cuore ma solo con la ragione, a spingere Clavain in tale direzione.

Glaciale è stata pubblicato nel Millemondi Urania n.40 del luglio 2005, che presentava l'antologia dei migliori racconti e novelle del 2001 curata da David Hartwell.

[fantascienza] Il classico - Le belle figlie di Madama Doré (1964) di Giuseppe Pederiali (1937- )

I toni soffusi della malinconia e del rimpianto venano questo singolare racconto del dopobomba, fino al guizzo finale della speranza, che illumina il futuro del protagonista e dell'umanità: la luce dell'accettazione del proprio destino. Non una resa, e neppure un'adesione a un destino rifiutato fin lì; ma l'intimo convincimento che il rifiuto è superato, reso vano dagli eventi della vita. E che la vita - la vita biologica e la vita umana - sa riconfigurare le proprie priorità. Spesso a partire da cose piccole, apparentemente laterali, come il giocare dei bambini, che non conosce che il piacere immediato del gioco per sé stesso.

In poco più di una decina di pagine Pederiali presenta il mondo privato del suo protagonista, un poeta rimasto vedovo con una figlia ancora piccola, dopo un'imprecisata guerra che ha portato alla catastrofe atomica. E il mondo di questo dopobomba: che va ricostruendosi a fatica, dopo che gli uomini sono emersi dai rifugi antiatomici che hanno permesso di salvarne abbastanza per riprendere il cammino della civiltà. E' un mondo dove il disastro nucleare ha esatto il suo tributo: i sopravvissuti hanno subito tutti danni fisici, biologici e genetici che li rendono dei mostri secondo i canoni d'anteguerra e nostri (il racconto è del 1964, e gli effetti delle radiazioni non sono esattamente accurati :-)). Pederiali non descrive nulla, si limita ad alludere tra le righe con eleganza e circospezione, e soprattutto tra le battute di dialogo. Il racconto ruota tutto attorno al differente atteggiamento che hanno nei riguardi di questo evento il protagonista, i suoi due amici e la figlia Vittoria. La perdita della bellezza, che l'umanità ha perduto anche nel suo patrimonio artistico e architettonico che nessuno pare voler davvero ricostruire, come fosse per una sorta di pudore, è il tarlo psicologico che rode il protagonista, la sua via personale di rapportarsi alla guerra, il dramma con il quale rifiuta di scendere a patti e che gli sta distruggendo la vita: l'artista non può fare sconti neppure a sé stesso, pare dirci. Enrico, l'amico medico che sta collaborando a un esperimento che si pensa possa ridare all'umanità la sua integrità biologica reagisce con solido pragmatismo: se l'esperimento riuscirà, bene, e se no la vita andrà avanti e ci si rimboccherà le maniche: è un uomo del fare, che non minimizza le perdite, ma accetta che esse siano tali. Il terzo polo è quello di Tammaccaro: osservatore disincantato, analizza gli eventi con l'occhio dello studioso, e a un tempo con quelli dello scettico, disinteressato all'esito dell'esperimento perché tanto l'umanità è già passata oltre, e che sia quella "pura" o quella "mostruosa" ha poca rilevanza, poco o nulla cambia. E poi c'è Vittoria. La figlia bambina del poeta appare a prima vista come un memento di ciò che è accaduto (La parola piccola un tempo si accostava spesso alla parola graziosa parlando di bambine dice a un certo punto il padre), ma si verrà scoprendo che il suo punto di vista muto, inespresso e inconsapevole, in un certo qual modo è non solo quello più naturale, ma anche quello più logico. Alla notizia del fallimento dell'esperimento e caduta in tal modo l'ultima speranza il protagonista entra in quella che sembra una crisi irresolvibile e finale. Vagabonda per la città con la figlia, medita sul futuro per strane e sinistre allusioni; sarà la bambina, Vittoria, a indicare la semplice soluzione: incontrati dei bambini chiede al padre di poter giocare insieme a loro, e ottenuto il perplesso assenso li raggiunge. Sarà osservando quei giochi che il poeta capirà la semplice equazione: la perdita è sua, che vive ancora secondo le coordinate, psicologiche e culturali, del passato; per la figlia - per i figli - il mondo è nuovo e aperto. Quando la figlia lo raggiunge sudata per le corse e i giochi, avrà finalmente il coraggio di affrontare il durissimo passo di Biancaneve nel quale la strega interroga lo specchio...

Un racconto, per impostazione, classico della prima fantascienza italiana, quella che si riconobbe nella rivista Futuro: letterariamente raffinato, attento alle sfumature psicologiche e alla costruzione di personaggi credibili, a tutto tondo. Il limite di alcuni di quei racconti è che a volte parevano più delle allegorie che delle storie di fantascienza; altre volte scivolavano tout court in un lirismo agreste. Le belle figlie di Madama Doré può dare l'impressione di essere effettivamente una breve e fulminante allegoria sulla diversità e il nostro modo di rapportarci a essa; e tuttavia vi ritrovo perfettamente realizzata quella razionalizzazione degli elementi fantastici, in questo caso simbolici, che è il carattere determinante della fantascienza rispetto alla letteratura fantastica in genere.

Autore prolifico, Pederiali ha progressivamente abbandonata la fantascienza cui si era dedicato con una certa frequenza agli esordi, scrivendo in seguito romanzi e racconti genericamente fantastici, noir, gialli e mainstream. Il racconto fu pubblicato in origine sul numero 5 della rivista Futuro, e in seguito ristampato sulla rivista Gamma e poi nell'antologia Futuro della Nord che raccoglieva una selezione dei migliori racconti della rivista (qui l'ho riletto). Un'ultima ristampa è recente, sul n.43 della rivista Robot, seconda incarnazione.

lunedì 16 febbraio 2009

[cinema] The eyes of Valentino


Ovvero:

Sangue e arena (1922)
Di Fred Niblo, con Rodolfo Valentino.


Diffidate di altre edizioni (o verificate la durata), potrebbero essere mutile di quasi metà pellicola.

Quasi novantenne, questo film rende giustizia del perché Valentino si impose come mito. In sé, il film si giova di una trama semplice e robustamente drammatica e romantica, di forte patetismo, oltre a singolari e interessanti trovate narrative: di durezza drammatica (il parallelo di vita tra il torero di Valentino e il bandito Plumitas); oppure fortemente evocative (il goticheggiante, quasi macabro irrompere episodico sulla scena del "filosofo" che impersona tanto l'esplicitarsi del destino quanto la riflessione dell'autore); o ancora, in un film dove i baci si danno a fior di labbra, l'esplicito affermare il carattere sadomasochistico della relazione tra Valentino e la femme fatale interpretata da una leziosa eppure credibilissima Nita Naldi. Tutto resterebbe però il patrimonio di una pellicola onesta, compreso il vampeggiare estremo della Naldi, senza la presenza di Valentino. La recitazione nei film muti può apparirci eccessiva e sopra le righe, ma non può dimenticarsi che gli attori dovevano supplire alla mancanza della parola. Il corpo, e ancor più la gestualità, e la mimica facciale dovevano comunicare tutto, e tutto quanto non si potesse far ascoltare: ciò che le didascalie non potevano esprimere. La recitazione di Rudy non si mostra mai eccessiva se non forse nel momento del suo estremo tentativo di non cedere alla Naldi, ed esprime una vitalità straordinaria. L'attore occupa completamente la scena e dà forma all'intero film: un film di sensualità e teatralità, di sentimenti estremi e di un'estetica sospesa tra passione esplosiva e morte. Una vitalità, un'espressività, una attrattività magnetica che precipitano nello sguardo di Valentino. Non mi stupisce che sia assurto al rango di prima autentica sex icon del cinema, e sia il prototipo della star cinematografica. L'espressione che Valentino riesce a far assumere al proprio sguardo (e di cui non abusa assolutamente, facendone anzi un uso parco e misurato) è realmente magnetica: uno sguardo ferino, oltre la ragione, dentro la passione.

giovedì 5 febbraio 2009

[fantascienza] I contemporanei - Le farfalle dei ricordi (The butterflies of memory - 2003) di Ian Watson (1943- )

Volafonini. Da per tutto telefoni cellulari alati. Si librano nell'aria svolazzando alla ricerca di un utente presso il quale fare il nido, o semplicemente al quale fornire i propri momentanei, ultratecnologici servizi. Il gadget è da sempre un elemento centrale della storia di fantascienza (se non l'elemento centrale tout court), che sia l'AKKA arma ti tistruzione ti mondo (anzi di universo) del ciclo della Legione dello spazio di Jack Williamson oppure l'innocua evoluzione dell'aggeggio che ha mutato radicalmente il nostro modo di comunicare. E appunto, comunicazione, linguaggi, e relativi riflessi antropologici sono da sempre temi privilegiati della narrativa dell'autore.

Ian Watson scrive ormai da più di trentacinque anni ed è pubblicato da oltre trenta in Italia con regolarità. Assai prolifico, è il solo autore britannico a essere emerso con chiarezza negli anni '70, compressi tra la generazione di Ballard, Aldiss, Moorcock e compagni (ma anche Bob Shaw e Keith Roberts), e la rinascita della sf britannica tra gli anni '80 e '90 con Iain M. Banks, Gwyneth Jones, i quattro Mac (Ian MacDonald, Ian R. MacLeod, Paul J. McAuley e Ken McLeod) e poi Stross e altri in tempi più recenti. Eppure il suo non è un nome molto conosciuto in Italia. Credo che una serie di fattori concorrano a questa relativa oscurità di fama: Watson è infatti uno scrittore non dei più facili e anzi a volte sicuramente impegnativo, che ama affrontare argomenti "filosofici" e concede poco spazio all'azione spettacolarizzata; ha scritto un gran numero di eccellenti romanzi e racconti, ma mai il romanzo che spacca (per i motivi detti); e neppure ha prodotto un ciclo di storie rimasto nella memoria dei lettori (come sopra). Si limita insomma a scrivere ottima fantascienza.

Le farfalle dei ricordi è un breve racconto che ben si inserisce in questo quadro. Ambientato in un futuro così prossimo da essere un presente appena aggiornato, propone una riflessione approfondita non soltanto sui meccanismi della comunicazione, quanto soprattutto sugli effetti spersonalizzanti di un eccesso caotico di dati che si traduce in confusione della coscienza; sullo sfondo, attualizzato, l'eterno tema, che attraversa la storia della fantascienza e non solo, delle macchine che acquisiscono coscienza e (sfuggono al) controllo. Più ancora recondita resta l'eredità del mito babelico, che è perdita della memoria prima e più del suo effetto di confusione del linguaggio, ed è connesso all'atto di superbia di Nimrod, che è poi lo stesso atto che presiede alla nascita della fantascienza con la superbia del dottor Frankenstein, il cui riflesso tecnologico più immediato sarà la mitopoiesi del robot ribelle con il Rossum di Capek (anche se quelli di Rossum erano androidi). La memoria come identità del Sé è sia il nucleo della nostra personalità che lo strumento primario del nostro relazionarci con il mondo esterno, fisico e antropico; la riconoscibilità di persone ed eventi è il programma che ci mantiene funzionali. Nel racconto di Watson la rete creata dall'uomo ha valicato pressoché tutti i suoi limiti meccanici ed è diffusa nell'aria, l'elemento connettivo più esteso e ineludibile; i terminali della rete sono ovunque, a disposizione di ogni uomo moderno connesso (e moderno in quanto connesso, forse perfino uomo in quanto connesso), a un solo cenno di mano, a un solo pensiero: pronti a inserirsi nell'Ident-Info dell'individuo per riversare nella sua coscienza dati su dati o per metterlo in contatto diretto con chiunque nello spazio di un momento. Questa rete onnicomprensiva è divenuta a tal punto complessa, invasiva e sovrapotente rispetto alle capacità umane di processare le informazioni (o forse, chissà, ha raggiunto una massa critica da generare una propria coscienza) che gli esseri umani cominciano a perdere e scambiarsi le memorie attraverso di essa. Il protagonista del racconto, Tom, avrà un solo modo per riappropriarsi della certezza e stabilità della propria memoria e quindi di sé: disconnettersi dalla rete rimuovendo il suo Ident-Info. Ciò equivale all'amputazione del suo essere in quanto uomo moderno. Che sia scelta di anacoretismo individuale o primo passo di un ritorno a una conoscenza gestibile dalle sole risorse cerebrali del singolo, la scelta di Tom è l'unica possibile risposta contraria a fronte del gigantismo assunto dall'organismo-rete e dalla altrimenti ubiquitaria onnipresenza dei servizievoli volafonini, sinistri e gentili update dei gentili e sinistri Umanoidi di Jack Williamson.

Le farfalle dei ricordi è stato pubblicato in Italia sul n.43 di Robot, terzo numero della seconda serie.

martedì 3 febbraio 2009

[fantascienza] Il classico - Bassifondi (In den slums - 1970) di Herbert W. Franke (1927- )

Austriaco, Herbert Franke è probabilmente il maggior scrittore di fantascienza in lingua tedesca, nonostante il successo in anni recenti di Andreas Eschbach.

Autore dal solidissimo background scientifico, con studi in diverse discipline, e principalmente in campo cibernetico, come scrittore è interessato principalmente allo sviluppo di tematiche sociologiche, e in particolare ai riflessi che le innovazioni tecnologiche e la ricerca scientifica comportano sulla società e gli individui. Della sua corposa produzione, in Italia sono giunti una manciata di racconti e, in anni lontani, tre dei romanzi: gli eccellenti Psicorete, Le bare di cristallo, pubblicati su Galassia, e Zona Zero, pubblicato dalla Nord.

Bassifondi è un racconto di poche pagine, indicativo delle tematiche di maggior rilievo della sua narrativa. In Italia è stato pubblicato in anni non troppo lontani nel volume dei Classici Urania Buonanotte, Sofia che presentava la traduzione della storica, imperdibile antologia curata nel 1973 da Franz Rottensteiner della migliore fantascienza europea (View from another shore), così rititolato in italiano per omaggiare il racconto di Aldani contenutovi.

In un futuro che assumiamo remoto e sconosciuto, Franke rovescia parzialmente la situazione de La macchina del tempo di Wells; a causa di una serie di variazioni riscontrate nella composizione dell'aria, una spedizione sulla superficie terrestre è inviata dalla civilità umana rifugiatasi ormai da tempo (secoli? millenni?) nelle profondità marine: un'umanità profuga negli abissi per sfuggire all'inquinamento, allo sfruttamento delle risorse e al disastro ambientale che stavano portando alla catastrofe il pianeta; una civiltà di uomini impauriti, rinchiusi in asettiche, sterilizzate cupole sottomarine; gelosi della sicurezza di quell'acqueo grembo materno vivono ripiegati su sé. In superficie scopriranno, con loro grande sorpresa, che anche lì è sopravvissuto l'Uomo: esseri umani sporchi e laceri, malati, brutali e aggressivi. Regrediti. Eloi brutti e lerci; Morlok schizzinosi.

Per i sottomarini si apre la prospettiva di un confronto con i reietti della superficie; di cosa fare dei reietti. Si mette in moto così una procedura burocratica, strumento principe del rimandare, del distinguere, del cavillare. L'Uomo appare diviso come sempre: incapace di accettare completamente l'Altro; incapace di farne completamente a meno. Sempre e comunque incapace di agire con lungimiranza, con progettualità che vada oltre l'interesse - immediato - della tribù. In un finale improvviso, e amaro - amarissimo - Franke approfondisce il suo pessimismo sull'incapacità della razza umana di apprendere dai propri errori, di evolversi e migliorarsi sotto il profilo sociale, a onta di quella che possa essere l'evoluzione tecnica.

Nello spazio di un breve racconto Franke è in grado di innescare riflessioni che ci appaiono di attualità impellente, e di validità generale: sulle dinamiche interumane, sullo sfasamento tra sviluppo scientifico e tecnologico e progresso sociale che ha segnato in profondità gli ultimi due secoli e mezzo della nostra storia - nostra europea e americana, principalmente - sull'abilità dell'Uomo di autoingannarsi e convincersi di essere ciò che non è.

[fantascienza] Il classico: L'esperimento di Daniel Kesserich (The Dealings of Daniel Kesserich - 1936/1997) - di Fritz Leiber (1910-1992)

E’ più o meno il 1936, Fritz Leiber è ancora alla ricerca della sua strada nella vita, fa varii mestieri e solo tre anni più tardi inizierà a pubblicare. Però scrive. Questa lunga novella resterà tuttavia inedita, per una serie di vicissitudini ben raccontate nel volume (pubblicato in Italia nel 1998 dalla Nord), e sarà pubblicata solo postuma. Uno stile ancora acerbo si nota, è innegabile, ma è da tener presente che un Leiber ancora non del tutto padrone delle proprie risorse stilistiche resta uno scrittore migliore della larga maggioranza degli altri nel pieno della loro maturità espressiva. L’esperimento di Daniel Kesserich presenta qualche ingenuità, ma è un’opera con una trama solida e ben sviluppata. La brillantezza e l'arguzia abituali nei dialoghi e nelle descrizioni di Leiber mostrano ben poche incertezze.

Netta e nettamente percepibile è l’influenza di Lovecraft, “padre” naturale della gran parte degli autori del fantastico della generazione di Leiber, e con il quale del resto Leiber era in contatto in quegli anni. Ma al di sotto di questa forte traccia, quasi un imprinting, la personalità di Leiber, narrativa e stilistica, emerge in modo altrettanto chiaro, e con il procedere della storia in modo più deciso, fino a ricondurre Lovecraft nell’ambito dell’influenza perfettamente metabolizzata ed elaborata.

Fritz Leiber è stato uno degli scrittori più eclettici del fantastico americano, il solo a superare in versatilità ed eguagliare nei risultati narrativi Richard Matheson. Questa novella giovanile lo mostra già nel pieno di questa sua capacità di spaziare tra i generi con facilità perfino irrisoria, anche nell’ambito di una stessa opera. E ne mette in evidenza la maestria con la quale costruisce i personaggi, rendendoli perfettamente funzionali alla storia e allo stesso tempo facendone delle persone autentiche. Così, sia il meccanismo relazionale del gruppetto di amici che fa perno su Daniel Kesserich, sia l’interagire del protagonista George Kramer con gli abitanti di Smithville assumono un sapore di credibilità all’interno di un meccanismo narrativo ben oliato.

Leiber costruisce un’atmosfera inquietante, pone il set dell’azione in una piccola cittadina inventata, uno dei luoghi più caratteristici dell’horror, e la popola di uomini e donne in preda all’inquietudine, all’incertezza e alla paura; l’oppressione psicologica in tal modo descritta si comunica al lettore con naturalezza. E’ su questa atmosfera malsana, di ansia psicologica e incertezza al cospetto dell’apparente sfaldarsi delle leggi fisiche, e dello sfaldarsi dei processi mentali e del pensiero, che Leiber innesta una trama fantascientifica che apparirebbe ortodossa anche a un purista della fantascienza. E in effetti pochi altri temi come quello del viaggio nel tempo sono emblematici per la sf. I due registri di genere si fondono armonicamente, confluendo nella figura eponima della novella, una figura di mad doctor che a perfette caratteristiche della sua maschera unisce una acuta, sintetica, esposizione di una mente borderline.

lunedì 2 febbraio 2009

[fantascienza] I contemporanei - Gli orsi scoprono il fuoco (Bears discover fire - 1990) di Terry Bisson (1942- )

E' un racconto celeberrimo e pluriantologizzato (devo averlo in una mezza dozzina di volumi), che senza dubbio merita il titolo di classico benché sia tutto sommato recente. Apparso in origine sull'Isaac Asimov's Science Fiction Magazine, vinse tutti i premi possibili consacrando la fama di Bisson, allora attivo da una decina scarsa di anni; e rimane ancora la sua storia più famosa. La prima volta che lo lessi non mi piacque; rileggendolo mi sono reso facilmente conto di aver fatto in precedenza una lettura superficiale e affrettata, non cogliendo il senso e lo spirito della storia.

Innegabili echi simakiani intessono questa fiaba allegorica che assume contorni bucolici: sorta di elegia al tempo che fu e, contemporaneamente, invito al recupero in futuro di una dimensione spirituale perdutasi nei ritmi e nei miti di una modernità che sottrae all'uomo la sua anima lasciandogli in cambio una ricchezza materiale fonte di stress e alienazione. Frammisti alla quiete evocata e che spira dalle pagine del racconto, i guizzi di un umorismo sottilissimo che Bisson utilizza per spiazzare il lettore, per precisare il senso e il significato delle frasi e il sentimento della storia; soprattutto per creare uno straniamento surreale che trasporta il racconto in una dimensione intermedia tra fantascienza e fantasy che modella i toni fiabeschi della narrazione (la prima apparizione degli orsi del titolo all'interno della storia è una vera e propria irruzione del tutto improvvisa dell'inaspettato e dell'assurdo in una trama che appariva realistica fino al naturalismo). Qui è la differenza del Kentucky di Bisson rispetto al Wisconsin di Simak: questo più precisato da una tridimensionalità umanista, quello più sfumato verso i territori di una fantasia dalle implicazioni spiritualistiche e che impercettibilmente rimandano a certe atmosfere di Bradbury.

I personaggi di Bisson sono però indubitabilmente affratellati a quelli di Simak. Straordinari i dialoghi come le descrizioni dei silenzi, attraverso i quali essi emergono con una nettezza e una forza che non si riscontrano con frequenza. Il protagonista principale Bobby, sua madre (la Mamma), suo fratello Wallace sr. e il figlio di questi Wallace jr. sono gli attori e gli interpeti simbolici del confronto antico/moderno, ma anche visione/cecità e libertà mentale/schiavitù conformistica. Wallace sr., il personaggio che più resta sullo sfondo, risalta tuttavia dal contrasto con gli altri; egli è uomo profondamente inserito nei meccanismi della vita odierna e insofferente di un fratello maggiore che gli appare retrogrado e inadeguato, il quale in realtà lo sopporta con benevolenza fino a un paterno compatimento. Tra questi e il nipote Wallace jr. esiste un legame di vicinanza che il ragazzino non può avere con il padre, spiritualmente sconnesso dalla vita e dalla sua essenza, sperso all'inseguimento di un successo che altro non è che mera sopravvivenza. Zio e nipote instaurano un legame mentore/discepolo naturale e istintivo e sono invece alla ricerca dei confini e dei contenuti di una vita che non si limita alla sopravvivenza o al raggiungimento di obiettivi profani, ma assume il significato di una comprensione di sé e ancor più del mondo circostante, fisico e meta-fisico (emblematica l'esplorazione che essi fanno di un terreno a cento metri dalla casa e dove neppure lo zio era mai stato, in una autentica e genuina riappropriazione della natura e del posto dell'uomo e della sua vita all'interno del rapporto con la natura). In questa ottica il personaggio principale è quello, praticamente muto, della Mamma. Madre e nonna degli altri protagonisti umani, ella attende da anni la morte in un cronicario; lo abbandonerà per abbandonare una vita divenuta priva di senso e recuperare un senso non soltanto ad essa, ma anche alla propria morte, che avverrà in completa e raggiunta serenità.

E gli orsi? Gli orsi sono il centro e sono al centro di tutto; sin dalla loro prima apparizione che rammentavo, danno senso alla storia e dettano il ritmo del racconto. Eppure gli orsi non fanno nulla: si limitano ad accendere fuochi e a radunarvisi attorno. Ma è questo non fare il vero fare. Muti perché la parola non serve per ascoltare, e ascoltare la natura è ciò che dona senso alla vita. Muti attorno ai fuochi, gli orsi stanno cominciando un percorso che porterebbe le loro individualità a creare il senso di fratellanza di una comunità unita: ciò che gli uomini vanno invece perdendo nella modernità. Ciò che il protagonista principale ricorda della sua infanzia e giovinezza. Gli orsi sono il richiamo a cui risponde la Mamma, e alla ricerca della nonna e madre, anche Wallace jr. e suo zio. E' nella quiete, nel silenzio totale della notte condivisa con la comunità ursina attorno al fuoco che la Mamma muore, riconciliata con la vita e la morte. Un risveglio, l'ursino e l'umano, che ciascuno potrà vedere come religioso o spirituale secondo il proprio sentire.
Bisson comprime in questo breve racconto molte altre suggestioni e riflessioni; dalle sibilline chiuse di alcune frasi dove andare a scoprire frecciate al nostro stile di vita e modo di essere portate con garbo pari alla inesorabilità si passa a considerazioni sulla giustizia e la legalità appoggiate con leggerezza sul tessuto del racconto, ma che sedimentano nella mente del lettore. Vale davvero la pena cercarlo se non l'avete mai letto.

Gli orsi scoprono il fuoco è come dicevo presente in numerosi volumi, l'ho riletto in Nuove avventure nell'ignoto il volume di Urania Millemondi del marzo 2001 che raccoglieva la seconda parte dell'antologia Fantasy Hall of Fame curata da Robert Silverberg.

Linko They're made out of Meat, un altro, assai breve, racconto di Bisson, inedito in Italia e divertente quanto terribile: http://baetzler.de/humor/meat_beings.html.

domenica 1 febbraio 2009

[fantascienza] Il classico: Scacco doppio (1972) - di Lino Aldani (1926-2009)

Il racconto è disponibile online: http://www.fantascienza.com/magazine/racconti/335/scacco-doppio/

Scacco doppio è una storia difficile da inquadrare, probabilmente impossibile da incasellare. Per fortuna. E' una storia di scacchi, sì; quasi incidentalmente; anche se non così tanto incidentalmente come potrebbe apparire a una prima lettura. E' una storia d'amore; è una storia che descrive - senza descriverla davvero, evocandone il peso opprimente - una feroce antiutopia totalitaria. E' una storia centrata sulla psicologia di un individuo - un meccanismo che ci viene dato osservare nel suo funzionamento: è una storia, infatti, scritta praticamente in flusso di coscienza. Volendo, è anche una storia di orrore: orrore puro e distillato. L'orrore che suscita l'esposizione a nudo delle paure, dei terrori più profondi di un'anima umana. L'orrore della lotta, anzi della non-lotta (non-lotta perché è insensato lottarvi contro: al sistema si è rassegnati), a un sistema sovraordinato al singolo essere umano al punto da restare sconosciuto e inconoscibile. La società evocata dai pensieri dell'anonimo protagonista del racconto è ancora più anonima di lui, totalmente spersonalizzata, riassunta nel dominio di entità (i soldi; il controllo) che hanno perduto ogni connotato materiale per divenire puramente metafisiche, e generare un terrore irrazionale che si traduce nel massimo potere di controllo sullo spirito e la psiche dell'individuo. Una forte attualità.

Con uno stile fatto di frasi smozzicate, di pensieri che si sovrappongono ad altri o ne intarsiano lo sviluppo, Aldani racconta l'attesa del ritorno a casa di Elena, la moglie dell'anonimo protagonista, convocata per un misterioso controllo dalle misteriose Autorità governanti. Elena è il pensiero che giganteggia nella mente del protagonista, che si insinua tra i pensieri delle mosse che egli fa nella partita a scacchi contro l'elaboratore elettronico mentre attende la moglie. Con simbolismo fin troppo scoperto l'imbattibile computer Mark è quel sistema inattingibile e non realmente conoscibile che manovra gli esseri umani come appunto Mark manovra le pedine del gioco (anzi: come le fa manovrare allo stesso protagonista, con metafora qui più sottile). Mark è il sistema il cui funzionamento, le sue regole, rimane incomprensibile, ma che inevitabilmente schiaccia le speranze, la tensione alla libertà, i desideri. La distruzione del tessuto sociale e umano dei lavoratori che si ricostruisce nei pensieri del protagonista sui dialoghi con i colleghi appare il risultato finale del gioco del ragno che il moloch elettronico attua nei suoi confronti. Un consegnarsi (un consegnarci) alle regole (che ci vengono) date da un sistema completamente eterodiretto. Una complicità, anche.


Buona notte, Sofia, precedente di dieci anni, anticipazione disperante del cyberpunk, è il racconto di Aldani che preferisco e ritengo migliore, ma Scacco doppio non gli è davvero inferiore. Uno dei più ostici, certo, per la spigolosità dello stile e la sostanziale inesistenza della trama. Non avviene nulla, e ciò che leggiamo sono gli sprazzi, le finestre che si aprono nel flusso mentale di un uomo; le pause, i picchi della sua angoscia. Controllatamente caotico nello stile, rigoroso nell'analisi, Scacco doppio sembra assumere oggi inflessioni amaramente profetiche, scritto com'è all'inizio di quel grande ripensamento economico arrivato a maturazione in questi ultimi mesi. Profetico o semplicemente attento alla storia di qualche decennio prima.

Storia d'amore, dicevo più su; una storia d'amore priva di ogni tono di delicatezza. Il protagonista ama indubbiamente Elena, ma non può fare nulla per salvarla da un destino di cui in realtà non si sa nulla (e quindi appunto appare più terrorizzante).Né può fare alcunché contro regole che impongono una vera e propria soppressione identitaria della donna e di tutte le donne. La sconfitta è inevitabile anche su questo piano, prettamente privato viene da dire, e tanto più netta quanto più la mera apparenza della normalità sembra ritrovarsi sul finale. Il protagonista si priva anche della sua dimensione intima.

Un racconto che non fa sconti; non ce ne fa, perché nelle sue pagine non è difficile riconoscere le paure, lo sconforto, il senso di inutilità che a volte a tutti capita di provare. Un invito alla riflessione che tuttavia incute il timore di farlo. Tutta la narrativa di Aldani, quanto meno la migliore, propone poca o nulla speranza, o assume una vena malinconica di pessimismo ragionato; questo racconto non solo non vi si sottrae, ma ne è un manifesto.
Ho riletto il racconto in appendice al volume Eclissi 2000 del 1979 che pubblicava il suo secondo romanzo.