domenica 30 agosto 2009

I 10 libri da riscoprire

Dieci fondamentali, quasi sempre ;-), libri o cicli di fantascienza non più ristampati in Italia da almeno dieci anni. Ma dieci non scalfisce neppure il numero delle opere che mancano da troppo tempo.



1 Un cantico per Leibowitz, di Walter Miller jr. Manca da ventun anni, dalla ristampa nel volume dei Massimi dedicata all’autore. La sf, nei suoi autori migliori, si è sempre distinta per come ha saputo riflettere speculativamente sulla dimensione religiosa degli uomini. Il romanzo di Miller è probabilmente il miglior risultato raggiunto sul tema.



2 Davy l’eretico, di Edgar Pangborn. Il romanzo di Pangborn manca da tredici anni, dall’ultima ristampa della Nord. Intenso e struggente racconto del dopobomba, una delle più belle rappresentazioni dell’umanità post-catastrofe mai fatte.



3 Lot, e La figlia di Lot, di Ward Moore. Il primo dei due racconti, Lot, manca all’appello “solo” da dodici anni, ma il dittico completo di questo folgorante e crudelissimo miniciclo del dopobomba è indisponibile per i lettori da ben quarantaquattro anni, dalla ormai preistorica pubblicazione su Urania.



4 Il Ciclo della Strumentalità, di Cordwainer Smith. Qualche racconto sparso si è visto perfino all’inizio del presente decennio, ma l’edizione organica dei racconti della Strumentalità risale a vent’anni fa, ai due volumoni della Fanucci. La scrittura di Smith è un unicum nella sf, per la bellezza e l’eleganza dello stile. E le sue storie sono ricche di pathos e umanità, come di profondità analitica.



5 Nel migliore dei mondi, di William Tenn. Tenn è un novellista d’eccezione, e qualcosa di suo si è visto anche nel decennio corrente. L’ultima antologia pubblicata in Italia, appunto “Nel migliore dei mondi”, vide la luce trentuno anni fa dalla Longanesi. Sarebbe bello avere una riproposizione organica di quanto ha scritto.



6 Codice 4 GH, di John Brunner. Se “Tutti a Zanzibar” è stato ristampato lo scorso anno, Codice 4 GH è assente da undici anni, quando fu ripubblicato con il titolo “Rete globale” (chissà perché, poi). Per soprammercato, “L’orbita spezzata” manca da quattordici anni, e “Il gregge alza la testa” da quindici. Sono i quattro romanzi con i quali tra il 1968 e il 1975 Brunner affrontò i principali argomenti di crisi, conclamata o incipiente, della nostra civiltà.



7 Campo Archimede, di Thomas M. Disch. L’oblio calato sull’opera fantascientifica di Disch è avvilente. “Le ali della mente”, un capolavoro dove c’è tutto – l’incanto del sense of wonder, la profonda speculazione sull’animo umano, una scrittura controllatissima ed elegante – è stato pubblicato una sola volta, tredici anni fa, in una delle collane da edicola correlate a Urania. “334” manca da vent’anni; così come “Campo Archimede”, nei Classici Urania, romanzo tra i più forti e acuti sul controllo sociale oppressivo dell’ autorità, e fino a quale punto esso sappia spingersi.



8 Guerra al grande nulla, di James Blish. Risulta mancare da ventotto anni, e del resto i lavori di Blish appaiono negletti da tempo; un peccato vero per uno degli scrittori più rigorosi e attenti allo stile e agli argomenti (quando non era costretto altrimenti, e ne soffriva). Il romanzo è incentrato sulla crisi di coscienza (e infatti il titolo originale è a”A case of conscience”, quello italiano fa pena) di un sacerdote al cospetto di qualcosa che scuote la sua fede alle fondamenta. Non secondo al libro di Miller.



9 Dangerous visions, a cura di Harlan Ellison. Alcuni racconti della fondamentale e ciclopica antologia curata da Ellison nel 1967 sono riapparsi qui e là negli anni, ma il volume manca ormai da diciotto, e in questi tempi grami appare improbabile la speranza di rivederlo. Rare volte un titolo è stato così accurato: Dangerous visions, visioni pericolose, l’essenza della fantascienza. E questi racconti lo sono, perché costringono a riflettere.



10 Motore Rotto Blues, di Ron Goulart. Un tempo vera e propria colonna di Urania, ne venne in seguito bandito. L’una e l’altra cosa eccessive, e la seconda assurda. Goulart al suo meglio è uno scrittore satirico forse non profondissimo, ma urticante e divertente a un tempo, come dimostra bene – un libro per tutti – questa antologia di grotteschi gioiellini, che manca da ventinove anni.

venerdì 28 agosto 2009

MOST WANTED – I 10 scrittori di cui non si è visto nulla o si è visto troppo poco negli ultimi anni

Ovviamente ce ne sono molti altri di autori “classici” di cui non si è visto nulla, o troppo poco, da troppo tempo; ma sarebbe già tanto se si cominciasse a ristampare organicamente per uno o due di questi, figuriamoci per tutti e dieci o per altri ancora.




1 Cordwainer Smith (Paul Myron Anthony Linebarger) – 1913-1966



2 William Tenn (Philip Klass) – n.1920



3 Thomas M. Disch – 1940-2008



4 Samuel R. Delany – n.1942



5 Judith Merril (Judith Josephine Grossman) – 1923-1997


6 John Brunner – 1934-1995



7 Henry Kuttner – 1915-1958 & Catherine L. Moore - 1911-1987



8 Leigh Brackett – 1915-1978 (qui con il marito Edmond Hamilton)



9 Edgar Pangborn – 1909-1976



10 John Varley – n.1947



Fuori quota - Gli scrittori non anglofoni

giovedì 27 agosto 2009

[fantascienza] I contemporanei - Stelle morenti (Étoiles mourantes - 1999) di Ayerdhal (1959- ) e Jean-Claude Dunyach (1957- )

L'esperienza è saper affrontare la novità in modo nuovo. La frase, pronunciata da uno dei grandi AnimaliCittà, i personaggi non umani di questo fluviale e stratificato romanzo, può esserne il manifesto finale.

La pubblicazione italiana di Stelle morenti risale al 2000, l'anno seguente quella francese. Erano i bei tempi, tra la fine degli anni '90 e i primi del nuovo decennio, nei quali l'orizzonte fantascientifico dell'editore Fanucci non si era ristretto alla pubblicazione fin anche della lista della spesa di Philip K. Dick, e solo di Philip K. Dick. Meritorio, ma limitante. E limitato al passato. Per il resto, oggi pubblica cavolate per il 90%. Erano i tempi nei quali la Fanucci è stato forse il miglior editore italiano di sf. Certo le edizioni erano a dir poco discutibili - cura editoriale pressoché assente, traduzioni non poco sciatte -, però il materiale presentato era spesso molto interessante, e anche coraggioso, come è il caso di questo grosso volume; l'anglofilia dei lettori italiani di fantascienza è tutt'ora un limite forte: Jean-Claude Dunyach e Ayerdhal (nom de plume di Marc Soulier) sono da molti anni tra i nomi di maggior prestigio di una fantascienza d'oltralpe descritta in piena fioritura (e di cui solo Fanucci presentò allora qualcosa), e questo romanzo è un capolavoro; ma in Italia è giunto pochissimo di quanto da loro scritto.

Stelle morenti è in prima istanza una complessa e perfino difficile space-opera, e uno squarcio di storia futura. Anzi di una pluralità di storie future. Si presenta dunque in modo molto classico. La sua complessità stilistica e la sovrastruttura scientifica si approfondiscono e completano tuttavia in autentica riflessione filosofica e sociologica sull'umanità e sulle direttrici del suo sviluppo. Sullo sfondo di una teoria cosmologica grandiosa, deus ex machina dell'opera, che per l'audacia dello scenario avrebbe fatto la felicità dei lettori americani degli anni '30 e dei loro autori preferiti - da Edmond Hamilton a "Doc" Smith, da John Campbell a Jack Williamson - i due scrittori francesi innestano e innescano uno studio psicologico e antropologico fin troppo minuzioso e spassionato. Se il manifesto del romanzo potrebbe essere quello che indicavo, il suo legato finale è sicuramente il riconoscimento e l'accettazione delle differenze e delle diversità. Individuali e di gruppo. Riconoscimento e accettazione pure dell'esistenza di una conflittualità inevitabile ad esse legata. Ma riconoscimento anche della necessità di trascenderle sulla base di una necessaria collaborazione. Quanto meno, o forse solo, per obiettivi limitati e specifici: al minimo per non scannarsi fino all'estinzione. Apprendere insomma a gestire la conflittualità in modo sano, convivendoci. Meglio ancora: con-vivendoci. Ma riconoscimento anche della forza dell'istinto primario - che sia amore o solo attrazione sessuale (se vi è poi reale differenza) - sempre in grado di travalicare i limiti culturali posti dall'uomo, in ragione e in forza dell'imperativo biologico da una parte, e dall'altra di quella curiosità intellettuale che è il motore alla base della cultura umana. Per lo meno di una cultura vitale, che faccia proprio il manifesto del romanzo. Alla base di tutto questo vi è un solido realismo; verrebbe da dire un razionale realismo molto francese.


Ayerdhal

A diversi secoli dalla nostra epoca, intuitivamente una decina, l'umanità è dispersa nella galassia. Una dispersione che è prima fisica, ma è culturale molto di più. Un'umanità che si è irrigidita, sclerotizzata in quattro Rami superstiti, ciascuno con la propria ferrea organizzazione sociale, esclusivista e chiusa. Da molti secoli, gli uomini hanno a che fare con l'altra specie intelligente della Galassia, gli AnimaliCittà. Organismi colossali che sanno spostarsi nello spazio in modo quasi istantaneo sfruttando i nodi del Ban (la struttura dello spazio-tempo dell'universo), e che con l'umanità hanno intrecciato una complessa serie di relazioni. Più precisamente alcuni AnimaliCittà hanno intrecciato tali relazioni con alcuni Rami; e ancor più specificamente con alcuni esseri umani. Relazioni nelle quali non è estranea una compnente erotica. Longevi fin quasi ad apparire eterni per i parametri umani, gli AnimaliCittà non hanno ispirato la Ramificazione, ma hanno quasi imposto la dispersione dei Rami, la Diaspora, al fine di evitare un'estinzione completa dell'umanità dopo che le guerre tra i Rami avevano portato alla distruzione di uno di essi. Per viaggiare a distanza ultraluce gli uomini hanno bisogno degli AnimaliCittà. La relazione instauratasi non è però risolvibile in una sorta di tutela paternalistica da parte delle gigantesche creature. Non fosse che solo una frazione quasi marginale di esse pare occuparsi degli uomini, e instaura rapporti preferenziali con solo una frazione della popolazione umana; e che due rami umani su quattro hanno soltanto rari e occasionali rapporti con le Città. Noone, Turquoise, Nostra Madre delle Ossa, Lapis Lazuli - le Città che si affermano nelle pagine del romanzo - sono personaggi complessi come e più di quelli umani; la loro alienità si intesse a volte di sentimenti lontanamente umani, sfociando in una psicologia coerente seppure di non facile accessibilità: i moventi degli AnimaliCittà appaiono misteriosi e alieni, come devono essere; ma ciascuno di loro ha una propria condotta e una propria risposta agli eventi, e tutti insieme hanno una precisa biologia da osservare e che determina i loro comportamenti. Come è per noi esseri umani.


Jean-Claude Dunyach

I quattro Rami umani (sopravvissuti) rappresentano altrettanti grandi orientamenti psicologici. I Meccanicisti sono potenti tecnocrati bellicosi, le loro mire egemoniche mettono in reale pericolo l'oikoumene complesso e precario di Umanità e AnimaliCittà; gli Originari sono i custodi di una tradizione che è più che conservatorismo: la personae, la tecnologia attraverso la quale gli Originari si procurano una continuazione fantasmatica della vita dopo la morte è qualcosa più di una tecnologia, è un'ipostatizzazione del passato; gli Artefattori sono anarchici ed ecologisti, arditi sperimentatori sociali e biologici, pacifisti che all'occorrenza combattono come truppe scelte; i Connessi vivono in rete, hanno rinunciato a ogni idea di privacy, e anzi senza il contatto continuo e pervasivo con le menti di tutti gli altri la loro coscienza non può che collassare: la loro società reticolare è ormai fragilissima, il loro stesso livello di complessità li condanna. Tutto ciò, ovviamente per sommi capi.

Quando i grandi AnimaliCittà indicono un Ricongiungimento, il periodico ritrovarsi dei Rami attraverso una sorta di conferenza di "ambasciatori", chi più e chi meno essi innescano con cosciente incoscienza un pericoloso jeu au massacre di cui conoscono i termini iniziali ma del cui esito possono soltanto sperare.

Gli autori innescano a loro volta una macchina narrativa elaborata e inesorabile, partendo dalla presentazione delle varie culture e dei vari personaggi e portando lentamente questi ultimi a incontrarsi, scontrarsi, conoscersi, disconoscersi, interagire e contrapporsi. Tra loro e con le Città. E' privilegiata l'analisi dei rapporti di Nostra Madre, la Città albina e invalida, con gli Originari Gadjio e sua figlia Marine, e in seguito con Erythréé degli Artefattori; così come della stessa Erythréé e di sua madre Tachine con Lapis Lazuli prima e Turquoise in seguito: sono il motore centrale della narrazione, insieme a quelli che i personaggi dei vari Rami svilupperanno tra loro: il Meccanicista Tecamac con Erythréé e la Connessa Nadiane; Eythréé con Nadiane e con Marine; Tecamac con Marine; Gadjio e il Caronte, il leader degli Originari; e quest'ultimo che intesse da lungo tempo rapporti segreti e interessati con i vertici del Meccanismo. Ovviamente Tachine con Erythréé, una delle situazioni di conflitto/attrazione narrativamente più ricercate e riuscite. Resta più sullo sfondo la relazione tra il Caronte e Noone, la più antica delle Città. E' una subalternità narrativa che cela la centralità della strategia di Noone. E' il rischioso gioco di Noone, che non spoilero, a fare di questo Ricongiungimento un evento completamente nuovo nella storia dell'universo cambiando in tavola le carte del cosmo.

Sia i personaggi umani che le loro Società che l'umanità tutta non potranno che uscire cambiati dall'esperienza del Ricongiungimento; senza illusioni o forzature idealizzanti o moralistiche, ma sulla base molto razionale che conoscere è un passo verso la comprensione, al di là di quelle che sono le differenze. La scommessa della veneranda Noone, basata su quella che non è altro se non una lontanissima, leggendaria reminiscenza cosmologica, realizza il manifesto del romanzo, indicando che il cambiamento non è un'alternativa alla conservazione, ma è la sola alternativa al declino e alla morte. Saper mutare è realizzare il nostro programma biologico, trascendere il nostro bisogno culturale di staticità. Una scommessa non facile, che o si vince o si perde, ma non si pareggia.

[fantascienza] I contemporanei - Risen!/Risen. Lo sterminio dei mondi (The Risen Empire/The Killing of Worlds - 2003) di Scott Westerfeld (1963- )


Cara, vecchia space-opera. Ma assai moderna. Benché edito in due volumi su Urania nel 2007, come già si era fatto negli USA quattro anni prima, si tratta di un romanzo unico, non di una serie. Romanzo originariamente pensato per essere pubblicato in un solo volume, come ogni altro romanzo ammodo; poi forse per ruspare qualcosa in più venne spezzato in due. I sudditi di Sua Maestà Britannica hanno però avuto modo di leggerlo come libro unico; misteri delle varie editorie.

Cara, vecchia space-opera. Ma, come dicevo, debitamente modernizzata. Da uno scrittore che certo non sarà venuto a miracol mostrare, e però si dimostra un fior di professionista, padrone accorto dei ferri del suo mestiere.

Della space-opera classica abbiamo i maestosi scenari galattici; le grandi astronavi irte di armi possenti; gli arditi capitani; gli imperi carichi di età e corruzioni; le società umane più esotiche e bizzarre; le sconfinate masse umane anonime sullo sfondo; la tecnologia (alcune tecnologie) così avanzata da essere, clarkeanamente, magia. E poi intrighi che attraversano le epoche e i millenni, misteri delle stanze del potere, eroismi, battaglie degne di Omero ed emozioni palpitanti. O almeno emozioni abbondanti: e dall'avventura, di fantascienza o meno che sia, questo si esige.

Questo per la classicità. Westerfeld è però autore di questi nostri giorni, e pur non mancando nessuno degli elementi di cui sopra, e tutti spogliati della loro ingenuità in eccesso senza perdere la fascinazione del sense of wonder, egli ben si inserisce nei modi e linguaggi della space-opera contemporanea, dove il realismo (ebbene sì) si innesta nel fascino puro dell'avventura. Il chiacchiericcio scientifico è allora accuratissimo, dettagliato e perfino pignolo. Isaac Asimov, cui qualcosa il romanzo deve negli scenari, lo avrebbe letto con il piacere dello scienziato prima che del lettore di sf. La scelta di Westerfeld di non negare Einstein e prendere la scorciatoia dei viaggi a migliaia di parsec fatti in poche ore dà un sapore di concretezza a quegli scenari grandiosi, e senza che la limitazione diminuisca in qualche modo lo "stupore" del lettore. Anzi: forse gli effetti relativistici lo accrescono.


Per decreto imperiale la velocità della luce resta quella stabilita dalla natura
. Così esordisce Westerfeld, evidenziando da subito il delirio di onnipotenza del suo Risen, l'imperatore immortale. Evocando poteri sovrumani e inumani, slegati dalla realtà sensibile di noi esseri viventi. Poi però entrando nelle pagine del romanzo si scopre una realtà più complessa, più prosaica. Anche più interessante. Il Risen è molto, molto potente; ma non onnipotente. Al suo potere se ne contrappongono altri, con deferenza ma con estrema fermezza: un senato legittimo e tutelato che non recede di un millimetro dai propri diritti. E il potere dell'informazione diffusa - inequivocabilmente della stessa nostra "Rete" - si rivelerà in tutta la sua forza. Il Risen è senza dubbio sovrumano e inumano - è immortale! Ma è anche irrimediabilmente umano: un politico astuto che traffica, che complotta, che ordisce meschinamente dietro le quinte per proteggere i suoi segretucci, i suoi inconfessabili peccati. E può pagarne lo scotto. Poiché il potere logora chi ce l'ha, la poderosa maestà incarnata dal Risen nasconde l'avanzato stato di declino del suo più che millenario regno, l'Impero degli Ottanta Mondi. Premuti da ogni lato da altre società della Diaspora Umana, più dinamiche e aggressive (non necessariamente migliori: le bellicose e monogenere Rix, che hanno eretto un culto alle Intelligenze Artificiali, appaiono altrettanto inumane. E altrettanto umane nelle loro bizzarria e follia).



Certo, in tutto questo, ben narrato, e ben concepito soprattutto, Westerfeld non si rivela fine cesellatore di caratteri. Neppure i personaggi principali si impongono per profondità: il capitano d'astronave Laurent Zai, eroe di guerra; la sua innamorata, la senatrice Nora Oxham, portavoce dell'opposizione al Risen; la commando Rix chiamata h_rd; Rana Harter, l'ostaggio di cui la Rix finisce per innamorarsi, ricambiata. L'intento di Westerfeld di mostrare una crescita umana ed emotiva di questi personaggi è evidente, ma l'autore non sa andare oltre una rappresentazione accademica dei sentimenti, tutta di superficie e parole, con una sovrabbondanza di melodramma e una penuria di autenticità. Ciascuno di loro, come alcuni degli altri personaggi, è rappresentante di un punto di vista (anche evolutivo) rispetto alla situazione dell'Impero e dell'Umanità; ma la pluralità delle loro voci troppo spesso si riduce a una pluralità di schematismi. Così come i pur buoni ma brevi squarci di riflessione e approfondimento sociale non cancellano l'impressione di sostanziale anonimità dell'universo umano del romanzo al di fuori dei suoi personaggi. La prolificità fa pubblicare in abbondanza, ma evidentemente costringe a scrivere con la macchinalità dei tempi ristretti. Zai, Nora e gli altri acquistano rilievo unicamente come maschere, pedine di un gioco ammaliante. Adatte alla parte loro assegnata.

Inutile comunque focalizzarsi su difetti che non inficiano la godibilità complessiva di Risen. Non un capolavoro, ma un romanzo appassionante e stimolante, il cui finale quasi aperto (nel senso che Westerfeld non conclude completamente la storia, forse in previsione di una continuazione che a tutt'oggi non mi risulta esserci stata) lascia al lettore di immaginarsi quale sia la strada che imboccherà l'Impero del Risen per porre fine al potere del suo Imperatore. Pura avventura, per larga parte pura avventura di guerra tout court oltre che indiscutibilmente di fantascienza. Ma fossero sempre così i romanzi di guerra e di fantascienza di puro consumo. Westerfeld sa avvincere il lettore per seicento pagine, senza veri e propri cali di tensione, e senza prenderlo mai in giro. Lettura da ombrellone, ma sostituirla al solito giallo dozzinale, all'inevitabile noir in escalation di macelleria o all'ultimo best-seller fotocopiato dai precedenti trecentoquarantotto vorrebbe dire volersi, finalmente, del bene.

martedì 18 agosto 2009

[fantascienza] Il classico - La nemesi dei robot (Robot nemesis 1934/1939) di E.E. "Doc" Smith (1890-1965)


Questo racconto è un reperto archeologico. Anzi geologico. E' come una di quelle rocce civetta che identificano immediatamente l'epoca cui appartiene il loro strato e permettono una catalogazione agevole. Ciò non tanto per la data in cui fu pubblicato, ma perché il suo autore, l'ingegnere chimico Edward Elmer Smith, detto "Doc", è in assoluto il più tipico rappresentante della fantascienza delle origini. Origini della fantascienza di genere, naturalmente, quella che si fa nascere per convenzione nel 1926 quando la rivista Amazing Stories inizia le sue pubblicazioni; e su Amazing, due anni dopo, Smith esordisce diventando immediatamente la prima superstar di quel piccolo ma agguerrito mondo, e restando lo scrittore più celebre e amato almeno fino alla metà degli anni '30.

Oggi Smith è praticamente ignoto in Italia; ignoro se negli Stati Uniti sia ugualmente dimenticato o quasi; nel caso lo sarebbe giustamente :-). Con tutta la buona volontà e la nostalgia che fanno riscoprire e rivalutare artisti da tempo dimenticati, "Doc" Smith non è tra quelli che lo sarebbero a ragion veduta. Al suo meglio è uno scrittore per lo meno rozzo, e molto ingenuo. Per carità, chili, anzi quintali, o ancora meglio teratonnellate di sense of wonder; ma se i ragazzini e gli adolescenti sparsi per un America in forte depressione e che usciva dalla sua fase di conquista della terra erano giustamente eccitati dalle visioni grandiose proposte dalla sua prosa fantasmagorica e rutilante quanto elementare e ripetitiva, oggi appare impossibile non annoiarsi leggendo le sue opere.

La nemesi dei robot è però un'opera singolare nel corpus smithiano; in Italia è certamente un unicum, in effetti: il solo suo racconto pubblicato nel nostro paese. Ignoro se e quanti altri ne abbia pubblicati, ma di certo non possono essere che una manciata: sin dal suo esordio "Doc" Smith scrisse romanzi a manetta, e anzi serie di romanzi, spesso pletoriche. Fu probabilmente l'iniziatore dei serial di fantascienza, e di certo lo fu delle cosiddette storie di super-scienza, quelle dove le si sparava sempre più grosse in merito a invenzioni, armi favolose, multidimensioni, galassie sempre più lontane eccetera: non fu uno stilista ma fu uno scrittore seminale nella storia delle riviste americane di sf.

Entrambi i suoi due serial maggiori sono stati pubblicati in Italia, quello dell'Allodola dello Spazio (lo Skylark, dal nome delle astronavi), con cui esordì, e quello dei Lensmen, spesso considerato il suo miglior lavoro.

Entrambe le serie sono mortalmente noiose, come dicevo. La nemesi dei robot, invece, non lo è. Eppure è scritto nello stesso identico modo: continue iperboli linguistiche, sempre più iperboliche; per ogni sostantivo dieci aggettivi - il più sobrio farebbe venire un infarto a uno scrittore tardobarocco; l'inevitabile protagonista, inevitabilmente uno scienziato, Ferdinand Stone, emblema della pura logica disincarnata - roba che un vulcaniano è un ribollire di emozioni. E poi fasci di raggi sempre più potenti (e misteriosi), equazioni matematiche sempre più difficili da padroneggiare per una mente umana (ma non per l'eroe di turno), astronavi sempre più colossali, flotte gigantesche, battaglie omeriche, armi inenarrabili, nemici - i robot che si sono ovviamente ribellati all'uomo - sempre più inumani, potenti e malvagi nella loro assenza di emozioni. Insomma, un continuo BOOOOOOM. A riscattare questa materia, questo bolo grezzo di sense of wonder non trattato, è la brevità. Se negli interminabili cicli di romanzi la ripetizione sempre uguale a sé stessa di personaggi, schemi narrativi e voli pindarici della fantasia finisce per provocare solo tedio e desiderio di abbandonare la lettura, nell'economia di una ventina scarsa di pagine è come fare un tuffo nell'essenza primitiva della narrativa fantastica: stupire, stupire e stupire. Pazienza se non c'è altro, e se lo stile è approssimativo. E poi è commovente, in questa orgia di super scienza, vedere Stone che per calcolare una rotta spaziale prende regolo calcolatore e tavole logaritmiche. La fantascienza può anche parlare dell'uomo di qui a migliaia di anni, ma i suoi autori sono uomini del proprio tempo. E si vede.

C'è da tener presente, naturalmente anche un altro fattore: noi abbiamo a disposizione i cicli di "Doc" Smith completi, pronti da leggere tutti di seguito. Allora i romanzi apparivano non solo anche ad anni di distanza l'uno dall'altro, ma soprattutto erano pubblicati a puntate mensili sulle riviste. La "dose" di sense of wonder a cui erano sottoposti i lettori era di certo ragionevole, omeopatica.

La nemesi dei robot fu pubblicato in origine sulla rivista Thrilling Wonder Stories nel 1939, in una versione definitiva rispetto a una precedente di circa cinque anni. In Italia è apparso due volte: nella corposa antologia I guerrieri delle galassie, e poi in una seconda antologia intitolata La guerra nelle galassie, entrambe edite dalla Nord.

lunedì 17 agosto 2009

[fantascienza] I contemporanei - Impatto mortale (Hard landing - 1992-93) di Algis Budrys (1931-2008)


I lavori di Algis Budrys sono stati pubblicati con regolarità in Italia a partire dai primi anni '60, pochi anni dopo l'inizio della sua carriera letteraria, e dopo un racconto isolato nel 1954; Budrys tuttavia può essere poco conosciuto. In parte ciò si deve al fatto che non abbia mai scritto una serie di opere collegate; e d'altro canto Budrys è stato anche uno scrittore poco prolifico, soprattutto a partire dalla fine degli anni '60 (negli ultimi quarant'anni di vita pubblicò tre romanzi, tra cui il capolavoro Michaelmas, in italiano Progetto Terra). Tuttavia, Budrys è stato uno degli scrittori di maggior rilievo della sua generazione, molto apprezzato dai colleghi per le sue doti di autore, e se non ha acquisito una vasta fama forse è anche perché è uno scrittore complesso, dallo stile molto elaborato e poco appariscente, il che risulta in un approccio non popolare al genere, e comunque più intellettuale della gran parte degli scrittori americani del suo periodo.

Impatto mortale è il suo penultimo romanzo. A quel che ho raccolto in rete, fu dapprima edito sulla rivista Fantasy&Science Fiction nel 1992 e successivamente in volume nel 1993; quello stesso anno apparve in Italia, pubblicato nel volume Urania Millemondiestate 1993. Di dimensioni modeste, il romanzo è un ritorno a molte tematiche delle origini di Budrys, e una profonda riflessione sull'identità, individuale, psichica e sociale. Il tema dell'identità è centrale in tutta la prima parte della carriera di Budrys, conseguenza della sua storia personale: lo scrittore era un autentico deraciné. Si chiamava Algirdas Jonas Budrys, era nato da genitori lituani in una regione della Germania oggi in territorio russo, ed emigrato negli Stati Uniti, dove poi visse sempre, all'età di cinque anni. Emblematico in tal senso è il romanzo del 1958 Incognita Uomo (Who?). Per la trama si veda: http://en.wikipedia.org/wiki/Who%3F_(novel)

Impatto mortale parte come un thriller, e del thriller e della spy-story manterrà la tensione fino alla fine, con pochissimi cali in sequenze più distese e narrative. Impostato come un reportage redatto da uno scrittore nel quale Budrys identifica sé stesso firmando A.B. le parti autografe, si apre sull'apparentemente banale caso di un uomo morto per cause forse accidentali. La reale identità dell'uomo assume rapidamente connotazioni misteriose, e il primo ansiogeno capitolo si chiude sulla prima nota genuinamente fantascientifica: a quanto pare si ha a che fare con un alieno. Di qui, il romanzo si svolge sempre più approfondendo e rendendo complessa la situazione di partenza con il sapiente uso alterno di sequenze in flashback, inserti pseudodocumentali e parti ambientate nel presente narrativo. Lo stile di Budrys è lento e compassato, a tratti faticoso, ma comunque avvincente: la trama si arricchisce via via e con essa monta l'interesse nella lettura. Gradualmente, il lettore è portato a conoscenza che Sealman/Selmon, il morto all'inizio del romanzo, non è il solo alieno giunto sulla Terra. Uno dopo l'altro, Budrys introduce gli altri tre personaggi alieni (e alcuni umani di complemento), e nelle "parole" dei quattro extraterrestri ricostruisce l'evento drammatico che li ha fatti precipitare sul nostro pianeta e la vita che da allora hanno condotto su di esso.

L'alieno è certo uno dei grandi temi della fantascienza, ma il modo in cui Budrys qui lo sviluppa è peculiare. Privo in sostanza di vera e propria azione, thriller "burocratico" che arriva a saldarsi con la storia americana e i suoi meccanismi di potere, il romanzo ha la sua chiave di volta nella descrizione analitica e acutissima degli alieni, o più precisamente dell'alienità. Di sequenza in sequenza, di pagina in pagina, Budrys trasforma quelli che inizialmente erano gli alieni - o meglio un Alieno Indifferenziato, un Altro sconosciuto e statutoriamente inconoscibile, forse buono o forse cattivo; sicuramente da temere - in quattro personalità fortemente distinte, perfino idiosincratiche. Olir Selmon, Ditlo Ravashan, Hanig Eikmo e Dwuord Arvan sono dunque i protagonisti di un dramma identitario, di una ricostruzione minuziosa delle sensazioni, aspirazioni, moventi, passioni, paure, ossessioni e quant'altro dei profughi di ogni tempo e luogo. Degli sradicati come Budrys. Per nessuno di loro la decostruzione dell'identità originaria e la ricostruzione dell'identità terrestre sarà uguale o anche solo simile a quella di uno degli altri. Ciascuno ha strategie e obiettivi ben differenti. L'illusione dell'Altro-Da-Noi come serie infinita di esseri tutti uguali è smontata pezzo per pezzo: esistono gli individui, e ogni individuo è diverso da quelli che con lui condividono la storia, le conoscenze, perfino le ideologie. Ciascuno di loro - e ciascuno in modo accuratamente diverso e realistico - colpisce per l'alienità e l'umanità contemporaneamente. Ci appaiono diversi da noi e tanto simili a noi. Perché ciascuno di noi è tanto diverso e tanto simile a noi. Siamo circondati di una alienità che ci è così familiare, e di una familiarità che ci è del tutto aliena. Budrys lo mostra senza fronzoli letterari, ma con una narrazione letterariamente rigorosa e raffinata, giungendo a un risultato stilistico e di contenuti non lontano dai suoi lavori più noti.

Gli elementi più genuinamente spionistici e thriller si articolano in quella che non è tanto una sottotrama laterale, quanto, paradossalmente, la trama vera e propria del romanzo, per quanto essa risulti secondaria rispetto alla analisi psicologica dei quattro personaggi alieni. Budrys li sviluppa nella elegante ricostruzione dall'interno di una vera e propria teoria del complotto in atto, che andrà a concludersi, con beffardo sarcasmo, sull'evento par excellence della politica USA degli anni '70: lo psicodramma del Watergate.

sabato 15 agosto 2009

[fantascienza] Il classico - Juggernaut (id. 1944) di Alfred E. van Vogt (1912-2000)



Non più ristampato in Italia da oltre vent'anni, Juggernaut è un titolo atipico nella produzione di Alfred Elton van Vogt, e un classicissimo racconto della sua epoca. La sua prima pubblicazione italiana data al 1978, quando apparve sul Robot Speciale n.9, che conteneva la traduzione dell'antologia The Best of Alfred E. van Vogt.

Racconto classicissimo perché impostato su una soluzione narrativa basilare della fantascienza dell'epoca (e non solo): il gadget. Il meccanismo, la cosa, l'aggeggio insomma che opera il cambiamento motore della storia (o che rappresenta la sfida, la minaccia ecc. da affrontare o risolvere). Nello specifico un superacciaio indeformabile e inscalfibile da nessun materiale o tecnologia in possesso degli uomini.

Atipico nella produzione vanvogtiana perché privo di complicazioni :-). Tra le altre definizioni, e un po' semplicisticamente, AEvV è infatti descritto come lo "scrittore della complicazione": l'autore canadese di nascita imbastiva generalmente trame aggrovigliate come matasse non districabili, amatissime dai lettori, perché come pochi sapeva essere avvincente e trasportarli davvero in mondi alieni e dentro avventure scandite a ritmi folli e sovraeccitati. Senza limiti di fantasia. In quei voli pindarici di una fantasia così sbrigliata che il visionario Dick lo sentì come un precursore o un fratello maggiore in spirito. Senza vergogna di spararle enormi, si potrebbe dire :-). Nell'accusa mossagli da Damon Knight di non essere un gigante del genere ma un pigmeo che usava una gigantesca macchina da scrivere c'è del vero, però Knight era un intellettuale, mentre le storie di van Vogt sono per i puri e semplici di cuore (in senso positivo, eh!).

Juggernaut è invece un breve racconto lineare, con un inizio chiaro, uno svolgimento altrettanto lineare e una conclusione logica e conseguente. Con una punta di civetteria letteraria e di sottigliezza stilistica van Vogt sottolinea più di una volta come i nomi dei personaggi e in definitiva i personaggi stessi siano puri meccanismi narrativi, necessari alla storia ma ininfluenti singolarmente e perfettamente fungibili. La gran parte degli autori di fantascienza degli anni '30 e '40 è sempre stata accusata di scrivere storie con personaggi privi di un qualunque spessore o personalità o tridimensionalità umana. AEvV si toglie lo sfizio di evidenziare come tali caratteristiche fossero assenti perché narrativamente superflue, e perfino negative, nell'ambito del genere - oltre che perché la gran parte degli autori del periodo erano obiettivamente degli scrittori quanto meno rozzi ;-). Van Vogt stesso non era davvero un ricercato stilista, e Juggernaut conferma la cosa: il periodare è a volte faticoso e involuto, e la narrazione di sicuro non brilla per scioltezza della lingua e ricerca di eleganti soluzioni stilistiche (fatta la tara alla traduzione, naturalmente). Racconto atipico anche perché assente quell'emotività a tutti i costi, quella ricerca di sentimenti esplosivi sulla pagina che è un'importante cifra stilistica dell'autore, sicuro retaggio della gavetta fatta come scrittore di racconti "rosa". Una volta superato il bizzarro incipit (che torna nel finale, a suggerire una qualche risposta metafisica agli eventi), il racconto si fa piano e calmo, procede in modo quasi inesorabile fino alla sua conclusione: il superacciaio, che pareva una benedizione dal cielo per una nazione in guerra, sembra mutarsi in una catastrofe, una peste dei metalli e dei minerali tutti, per poi... Per poi porsi nuovamente alle coscienze umane, come interrogativo: una catastrofe benedetta?


C'è, in Juggernaut, un cautelosissimo ottimismo che contempera lo slancio fiducioso della (fanta)scienza del periodo con la cupezza del tempo di guerra. C'è, soprattutto, una tensione utopica che si disvela nel finale. E' questa tensione, oltre alla semplicità e linearità del racconto, e al fascino della storia, certamente ingenuo, che oggi appare deliziosamente vintage e un tempo era avveniristico, a dar corpo al racconto. E' questa tensione utopica, che si concreta nel richiamo metafisico finale cui accennavo, il residuo della grandiosità - onirica, linguistica e quantitativa - vanvogtiana. Residuo che van Vogt inserisce controllatamente nel racconto conferendogli quel di più che giustifica il suo inserimento in una antologia del The Best. Un racconto che diversamente apparirebbe come più consono a un Hal Clement (ma certo non scritto con il rigore scientifico di Clement: la chimica e la fisica di van Vogt sono un tantino approssimative ;-)). In tal modo torna invece a mostrarcisi come genuinamente vanvogtiano, grazie a uno spiraglio su quel fascino psichedelico (e un po' anche primordiale) che caratterizza i suoi lavori più fantastici - e riusciti.

venerdì 14 agosto 2009

Una terra dai moltissimi colori: Denti bianchi, di Zadie Smith (1975- )

Un libro troppo splendido perché la fantascienza
non ceda il passo una seconda volta.




Ci sono libri che affascinano. E questo è banale. Ma ogni libro affascina in un modo che è suo, unico. Anche se certe familiarità tra l'uno e l'altro è possibile rintracciarle; è possibile riunire in gruppi questi libri affascinanti. Denti bianchi appartiene alla famiglia allargata di quelli che ti trascinano all'interno delle proprie storie stordendoti di colori, di voci, di suoni, di rumori, di odori, di personaggi. Di vita vitale e vissuta; di parole che sfuggono e si rincorrono sulla pagina, a comporre un linguaggio che ipnotizza il lettore e lo fa voltare di qua e di là sulle tracce dei mille rivoli in cui la storia e i suoi personaggi si frangono e sciolgono per ricompattarsi e consolidarsi quindi.

E poi c'è l'impronta individuale di ciascun libro. Denti bianchi ha una leggerezza che incanta la lettura. Una leggerezza che gli è propria sia quando l'autrice affronta argomenti peculiarmente leggeri, sia quando incide la carne viva dei suoi personaggi per farli sanguinare e soffrire per bene. Una leggerezza che nasce da una lingua che, pur mediata dalla traduzione, si riesce a intuire vivace e anarchica non meno che controllatissima e padroneggiata da vera maestra (meno errori tipografici sarebbero stati apprezzati; grazie editore italiano). Che nasce da un'attitudine mentale all'azione figlia di una precarietà vissuta come spinta e stimolo: non per scelta, ma per l'inevitabile meccanismo della vita.

Un contenuto autobiografico è evidente nel romanzo, ma non è pedissequo. Il personaggio di Irie, figlia di un uomo inglese e una donna jamaicana, come è la Smith, è tra quelli principali, ma non il solo. E' l'intero ambiente umano, familiare e sociale, di Irie a essere il protagonista del romanzo. Irie, come gli altri in primo piano, è una delle articolazioni di questo grande affresco londinese, di questa epica tra omerica e aristofanesca di un'immigrazione che è il legato ultimo (e, chissà, migliore) dell'ex impero. E' questo il dato autobiografico decisivo: questa perfetta ricostruzione di un tempo, dei luoghi, dei suoi uomini e donne: in ultima analisi la realtà è ciò che percepiamo, e l'interpretazione che diamo delle nostre percezioni è la nostra biografia: emozionale, sentimentale, e razionale. E ricostruzione minuziosa di una storia familiare - anzi di storie familiari - che impregnano e avvelenano il presente e il futuro dei personaggi. La condanna e la benedizione di una coazione a ripetere: condanna alla sofferenza; benedizione di uno slancio vitale che si replica indefinitivamente.

Affresco di uomini e donne e dei loro conflitti. Conflitti tra loro, feroci; e molto più devastanti dentro di loro. Conflitti che non impediscono loro di vivere la vita con gioia, anch'essa feroce, e con una determinazione pari solo alla confusione che vivono nelle loro teste, nelle anime e nei cuori, e che si riflette su esistenze che disperatamente aspirano a una stabilità, e altrettanto disperatamente giungono a una stabile precarietà, fonte di guai, dolori e irruenza vitale. Denti bianchi è un quadro fauve dove colori violenti si organizzano in anarchico ordine; l'ossimoro è la miglior chiave interpretativa per un romanzo che nutre le contrapposizioni della vita, e si nutre dei conflitti che la vita genera dalla contrapposizione delle irriducibili (quanto sciocche) differenze che gli esseri umani hanno creato per fornirsi di identità culturali - cioè psichiche - che dessero loro l'illusione di esseri migliori dei vicini che ne avevano altre. Gli uomini e le donne del romanzo combattono duramente per non perdere sé stessi, per non lasciare che i figli si perdano, per non perdere un'identità che dovrebbe proteggerli dalla durezza della vita, dall'ignoto che è rappresentato dall'Altro, dalla corruzione morale che l'Altro rappresenta. Alcuni lo fanno abbandonandosi alla follia o alla disperazione; altri usando di un'ironia anche crudele oppure di una lucidità e di un cinismo che nascondono le ferite sotto la forza che deriva dall'ispessimento del carattere causato da quelle ferite. Altri ancora si rifugiano nelle certezze di nevrosi compulsive che sconfinano nella psicosi. Ancora altri, infine, attraversano tutti gli stadi per approdare con fatica immane a quella stabile precarietà che riaprirà indubbiamente le danze alla generazione successiva.

Questa ribollente temperie nasce dall'accuratezza con la quale Zadie Smith fa agire i suoi personaggi, ma soprattutto dalla profondità e complessità dei ritratti che ne fa. Alsana Iqbal e suo marito Samad che lottano palmo a palmo per i loro due figli, i gemelli Millat e Magid, e per trovare un proprio posto nella vita e nella nuova non-patria in cui sono giunti dal natio Bangladesh. I gemelli che a loro volta lottano palmo a palmo con i genitori, tra loro e con sé stessi per giungere da qualche parte, per affermare e giustificare la propria esistenza all'interno di coordinate psicologiche, culturali e geografiche che non sono più quelle oppressive ma rassicuranti di un tempo. Gli Iqbal sono una cittadella assediata dalle forze disintegratrici di una globalizzazione culturale in grado di ridurre in pietrisco le mura solide di antichi conformismi, modi di essere e pensare, modi di credere; ma che non è in grado di governare la forza con cui quel pietrisco polverizzato si abbatte sulle fragili strutture che ha appena iniziato a edificare. La cittadella-Iqbal è quindi sottoposta alla pressione di questa forza, che crea al suo interno vortici centrifughi che mettono tutti contro tutti. In questo continuo eruttare emotività e drammi naufragano la scettica saggezza femminile di Alsana come l'iniziale intelligenza di Samad, l'orizzonte razionale di Magid come il ribellismo istintivo e sensuale di Millat. Irie Jones deve combattere ogni giorno la vita con la sola arma della sua intelligenza, barcamenarsi tra l'eredità di una fortissima linea matriarcale materna, le donne Bowden che non a caso per generazioni si trasmettono il nome e diluiscono il sangue paterno; eredità radicata nella e poi sradicata dalla Jamaica; un'eredità inevitabilmente meticcia nella psiche degli individui, come è delle società ex schiavili, e altrettanto inevitabilmente caratterizzata dalla propria ricerca/rifiuto di un'identità "nera"; deve barcamenarsi tra questa eredità, lascito di una bisnonna che i casi della vita hanno condotto nel seno della comunità dei Testimoni di Geova, perpetuatosi attraverso l'entusiastica adesione della nonna Hortense al credo religioso e l'inevitabile rifiuto di esso da parte della madre Clara, fino a lei, confusa ma saggia figlia di una modernità confondente ma saggia; tra questa eredità e un padre inglese, Archie Jones, discendente dei colonizzatori e padroni come lo era il bisnonno, un uomo semplice e fondamentalmente buono, che fondamentalmente attraversa la vita senza comprenderla, limitandosi a viverla. Un padre forse in linea con l'assenza di figure maschili di rilievo nella storia della famiglia Bowden (ma il personaggio è tutt'altro che privo di rilievo: ne esce il formidabile ritratto, anche affettuoso, di un uomo di poche qualità), ma la cui eredità genetica condiziona per forza la vita di Irie, così come quella del bisnonno era arrivata almeno fino alla madre di Irie. I Chalfen, middle-upper class, Marcus, Joyce e quattro figli, Joshua è quello che occupa spazio importante nella storia. Inglesi, inglesissimi, tè e giardinaggio: ovvero Marcus discendente di ebrei polacchi, immigrati da tre generazioni. Razionalità scientifica, ma ignoranza completa del mondo; la psicanalisi come interfaccia con la vita, come weltanschauung, e la matematica conseguenza di una psicosi collettiva, di una psicosi familiare che imbozzola i Chalfen nella loro condanna a essere Chalfen. La felicità come condanna esistenziale, non conquista faticosa, non come equilibrio. Zadie Smith ne fa tuttavia un ritratto scevro da ogni stereotipo. La "follia" dei Chalfen ha risvolti positivi: non esclude la capacità di influire positivamente sugli altri: Irie e Magid, e a tratti perfino Millat, non essendo parte dalla nascita della famiglia ne sono beneficiati nella loro ricerca di un equilibrio. Nella prevenzione razionalizzante di ogni possibile conflitto, la famiglia Chalfen può fallire, ma nel suo complesso il modello che offre, un modello collaborativo, suggerisce un discorso che orecchie sensate, come quelle di Irie, finiscono per cogliere; magari confusamente, ma sentitamente. Fallisce miseramente laddove, come ogni meccanismo a orologeria, un granello di sabbia si insinua al suo interno, rivelando la sua natura costrittiva: perché anche l'amore più ben diretto, unito al controllo e alla programmazione ossessivi, diventa una gabbia insopportabile, come ha mostrato James Ballard in Un gioco da bambini. Fallisce con Joshua quando l'adolescente scopre davvero il richiamo dell'amore e del sesso, approdando a una rivolta radicale e totalizzante contro il padre e l'intero modello Chalfen.


La Smith muove i suoi personaggi facendoli interagire all'interno del proprio gruppo e tra gruppi, creando le linee di tensione e le linee di sutura da cui scaturiscono i confronti, i conflitti, i drammi; e le linee di condotta, le rivelazioni, le gioie. Linee di sutura come la bizzarra e ferrea amicizia tra Archie e Samad, nata negli ultimi giorni di guerra, che collega in un improbabile alleanza due universi apparentemente inconciliabili che si uniscono nella quotidianità. Linee di sutura e di tensione tra Alsana e Clara, che si ritrovano amiche per caso e per forza. Linee di sutura e di tensione tra Irie e Millat, tra Irie e Joshua; scandite nel primo caso dal crescere fianco a fianco e dall'entrare fianco a fianco nel turbine dell'adolescenza; nel secondo caso dalla ricerca confusa e laboriosa di una propria collocazione nella vita. Linee di sutura e tensione tra Marcus e Irie, tra un'adolescente che vede un modello, e un modello che si sottrae. Linee di sutura tra Marcus e Magid, mentore e allievo. Linee di tensione tra Millat e Magid, tra Millat e Samad, tra Samad e Alsana. E tra Samad e Alsana una sutura che si ricompone e si apre di continuo. Sutura e tensione tra Clara e Archie. Sutura, e rottura, tra Clara e Hortense; a riavvicinare i labbri della ferita, senza riuscirvi fino in fondo, Irie. Feroci linee di tensione tra Alsana e Clara da un lato, Marcus e Joyce dall'altro. Disperata ricerca di una sutura con tutti e tra tutti da parte di Joyce. Una commedia umana lussureggiante, nella quale si inseriscono numerosi altri personaggi, meno presenti e meno complessi, ma spesso non meno interessanti, e che completano una visione d'insieme, come dicevo, stordente. Una rappresentazione della vita nel suo svolgersi.

Cornice e contenitore, una Londra che appare lontanissima da quella letteraria degli scrittori britannici di cinquanta, cento anni fa o più; ma che è la metropoli meticcia e cosmopolita dei nostri giorni, come e più di New York; come solo le capitali autenticamente imperiali sono state e sono. Un crogiuolo dove si vanno fondendo e confondendo uomini e idiomi, attraverso i cui conflitti scaturirà un'umanità che sarà più e meno della somma delle sue componenti. Denti bianchi è un inno a questa sfinita umanità sempre pronta a ripartire e rinnovarsi. Eterno, flessibile, adattabile, immutabile Homo sapiens.

lunedì 3 agosto 2009

[fantascienza] I contemporanei - Mixomatosi Forte (Myxomatosis Forte - 1986) di Bertil Mårtensson (1945- )


Un vecchio detto afferma più o meno che è meglio non desiderare troppo qualcosa: potrebbe avverarsi. Nel mondo descritto da Mårtensson si è avverato uno dei sogni più antichi e carichi di simbologie dell'uomo. No, non l'immortalità; piuttosto un suo parente stretto. Il XXI secolo di Mårtensson vive all'insegna dell'R14, un non meglio specificato fattore di copertura genetica completa della fisiologia umana che ha inverato il vecchio idolo alchemico della Panacea. Non ci si ammala più, neppure i morbi più terribili impensieriscono gli esseri umani, essere infettati da un virus potentissimo significa un lavoro di un'oretta per il supersistema immunitario all'R14; le peggiori malattie degenerative non fanno neppure in tempo ad iniziare la propria azione sulle cellule e sugli organi del corpo. Niente più dolore, niente più ansie per la salute, un'aspettativa di vita che oltrepassa largamente i due secoli, giusto perché le funzioni neurocerebrali e cardiache alla fine cedono per l'usura, come ogni meccanismo organico e inorganico su questa terra.

Un disastro, insomma.

Non per la sovrappopolazione, per quello è ipotizzabile che basti organizzarsi, anche se Mårtensson non dice nulla in proposito. Il fatto è che la malattia riveste (anzi rivestiva...) un suo ruolo sociale. Molto importante, come scoprono i poveri esseri umani, sanissimi più di qualsiasi pesce della storia e a cui viene a mancare un fondamentale lubrificante dei rapporti sociali. Non le malattie gravi, è chiaro, nessuno le rimpiange davvero; ma quei raffreddori che permettevano di riposarsi per qualche giorno, quelle emicranie strategiche che permettevano di declinare un invito o un impegno sgraditi: cose del genere vengono a mancare all'umanità, che privata di tante e ottime scuse, del più importante fattore di autocompiangimento, della migliore valvola di sfogo nelle relazioni personali, entra in depressione. Gli uomini scoppiano di salute, e per questo si suicidano a ritmi prima sconosciuti. Privati della funzione psicologica del dolore, taluni si trovano a esplorare le vie improbabili del masochismo. E via discorrendo, similmente. Ma sono palliativi.

Detta così pare un racconto umoristico, ma seppure un contenuto satirico e umoristico tout court sia innegabile, esso non esaurisce gli aspetti della storia. Veterano della fantascienza svedese, Mårtensson è un filosofo della scienza e studioso di problemi cognitivi, interessi che si riverberano tra le righe del racconto, sottotraccia, fornendo en passant un piccolo saggio di psicologia sociale che arricchisce e completa la riflessione satirica.

Oppressa dalla sua salute di ferro, l'umanità è costretta a rimettere in moto l'industria farmaceutica; perché inventi delle malattie. E così, quando ce n'è bisogno, ci si bombarda per giorni e giorni di poderosi agenti patogeni che infine provochino un raffreddore che regga una giornata intera. Se un medico ritiene che se ne abbia bisogno, si può ottenere una ricetta che permetta l'acquisto di una malattia ancora più formidabile, e restare fuori gioco più a lungo. Tanto, la vita non la si rischia. Naturalmente il traffico e lo spaccio di malattie gravi, così come il loro consumo non autorizzato, è un crimine punito con la massima severità: ammalarsi per gioco non è lecito, è gravemente antisociale. E può portare assuefazione. Le aziende farmaceutiche sopravvissute al primo, euforico periodo dell'R14 hanno dunque rialzato il capo, e si combattono senza esclusione di colpi per fornire agli uomini la dose necessaria di patologie sempre nuove e raffinate. Ma come dicevo, la cosa peggiore che ci possa capitare è di vedere esauditi i nostri desideri fino in fondo; e se non è bastata la prima volta...

Jason Schytte, il protagonista del racconto, lavora per una di queste nuove grandi industrie del farmaco; è un creativo pubblicitario, inventore di fortunate campagne per lanciare sul mercato gli acciacchi più competitivi. O meglio lavorava, visto che viene licenziato perché la sua vena creativa pare imbolsita. L'evento innesca un corso di azioni nel quadro della situazione descritta. Con buon mestiere, Mårtensson innesta sulle sue riflessioni sociali e psicologiche temi da spy-story e da classico plot di fantascienza medica, con minacce biologiche, l'incombente figura nell'ombra del mad doctor, e lo spettro della catastrofe. Un pepe che non solo non disturba la ricetta, ma le fornisce il giusto movimento facendo convergere il racconto sui temi avventurosi classici della fantascienza senza perdere nulla degli aspetti più speculativi analizzati nella storia, e rendendo, alla conclusione, limpido il titolo del racconto.

Di Mårtensson è prevedibilmente arrivato pochissimo altro in Italia. Mixomatosi Forte ha goduto comunque di tre pubblicazioni, con merito. La prima è avvenuta sulla Antologia internazionale di fantascienza edita dalla Nord nella collana Argento, traduzione del The Penguin world / omnibus of science fiction, che riuniva racconti di autori di ventisei diverse nazioni aderenti alla World SF, una organizzazione di autori e appassionati di fantascienza a larghissima diffusione.

sabato 1 agosto 2009

[fantascienza] La miniatura - La mano (Not with a Bang 1973) di Howard Fast (1914-2003)


Come reagireste se, osservando dalla finestra un placido tramonto primaverile, vedeste una immensa mano spegnere il Sole?

La short short story ha una lunga, onoratissima tradizione in ambito fantascientifico, e un maestro riconosciuto in Fredric Brown; ma la lezione browniana del capovolgimento di prospettiva non è ovviamente la sola alternativa. Le carte possono essere chiare in tavola sin da subito, come in questa minuscola gemma narrativa di Fast. Ciò che rende memorabile questa miniatura letteraria è il tono che Fast imprime al racconto, lo stile di cui fa uso per ottenere un effetto di perfetto straniamento surreale. E lo straniamento è una delle vie maestre del fantastico, come della sf. Seppure è obiettivamente arduo rubricare il racconto sotto il nome di fantascienza in base al suo incipit, il registro realistico, perfino naturalistico adottato da Fast nel prosieguo appartiene alla migliore sf, quella in grado di coniugare l'ipotesi, l'estrapolazione nelle premesse, con il rigore della logica nelle conseguenze.

E pluf, Al Collins vede pollice e indice di una mano titanica spegnere la nostra stella. A dio si allude pudicamente, ciascuno immagini a proprio piacimento. Da questa intrusione improvvisa dell'inaspettato nella vita di un agiato middle-class man di una classica realtà americana di campagna, Fast parte per fare in tre paginette scarse un ritratto geniale del suo protagonista, narrandone con distaccata eleganza l'olimpica impassibilità con la quale egli registra e reagisce all'evento, con la quale, parlando del più e del meno, discorre amabilmente della cosa con altri, che non avendo assistito al fatto non gli credono. L'apatica flemma con la quale cerca di rammentarsi gli effetti della scomparsa del Sole per la vita sulla Terra e il tempo che può restare all'umanità. Il supremo distacco con il quale, raggiungendo la moglie a letto al termine della giornata, aggiunge un plaid, distendendosi poi accanto al corpo tiepido di lei.

Understatement? Umorismo yiddish trapiantato in terra americana? Poco importa, si tratta di un piccolo capolavoro. Piccolo per dimensioni. Forse, per un purista, non di fantascienza ortodossa, ma per chi ama l'ibridazione dei generi (con manzoniano juicio), tranquillamente accoglibile come sf.

L'Howard Fast del racconto è proprio il celebre autore del romanzo Spartacus, dal quale fu tratto il film con Kirk Douglas diretto da Stanley Kubrick. Autore di innumerevoli romanzi mainstream di successo negli Stati Uniti, è forse meno noto (in Italia) come autore di un discreto quantitativo di racconti di fantascienza.

Il racconto è apparso in Italia nel 1974, sul fascicolo n.649 di Urania, La mano, che accoglieva la traduzione dell'antologia personale di Fast A touch of Infinity uscita l'anno prima negli USA.