lunedì 24 dicembre 2012

I contemporanei – La sindrome di Wolverton (2002-2008) di Alan D. Altieri (n.1952)




Per il Vero Lettore uno dei piaceri più genuini è rappresentato dall’erratico vagabondare tra vecchi fascicoli di riviste da disseppellire, antologie poste ormai a basamento di vertiginosi pinnacoli librarii, cumuli disordinati di romanzi e volumi vari dimenticati da anni in angoli altrettanto dimenticati della casa. È un’attività riservata in particolare a quelle occasioni nelle quali la capricciosità  del Vero Lettore, che è lettore difficile e bizzoso, si muta in vera e propria incontentabilità. Non c’è nuovo racconto che soddisfi, articolo recente che stuzzichi la curiosità. E l’impresa di mettersi a leggere un romanzo è fuori discussione: un paio di frasi e si sbuffa incontentabili. Tanto meno si è nella disposizione d’animo di affannarsi su ponderosi saggi. Si esplora, dunque. Si torna sugli antichi passi. Si rilegge qualcosa che si è amato. Oppure si trova il tempo, il modo e l’occasione di leggere quanto si è tralasciato un tempo.

È il 2003: Robot, la rivista che è un mito per ogni lettore italiano di sf, è appena tornata in vita, e sul secondo fascicolo di questa sua nuova incarnazione viene pubblicato La sindrome di Wolverton, racconto a firma di Alan D. Altieri. Confesso subito il mio peccato: non ho mai letto nulla di Altieri. Nessuna pregiudiziale: se non forse che le tematiche affrontate in genere dallo scrittore milanese, o meglio le angolazioni visuali così spintamente techno-noir-thriller che utilizza per scrivere, non rientrano tra le mie preferite. Per inclinazione personale probabilmente potrei essere tentato dalla trilogia storica di Magdeburg. Mi attrae e al contempo respinge il suo stile, incontrato in alcuni articoli. Goticheggiante, quasi barocco, uno stile che seduce ma sazia rapidamente, come una cioccolata dolcissima. Ma è soprattutto la mole dei suoi libri ad avermi tenuto lontano. Passati i verdi anni, devo avere una motivazione davvero d’acciaio per imbarcarmi in letture pletoriche come quelle proposte da Altieri; e uno stile che promette di saziare in breve non è esattamente quanto invogli a iniziare letture di centinaia e centinaia di pagine. Ecco allora che un breve racconto si prospetta come il miglior viatico per eventuali futuri approfondimenti – e per allontanare la capricciosità domenicale da insoddisfazione di lettura ;-).
Il numero 42 di Robot, secondo della nuova serie, sede della seconda edizione del racconto

Come è noto, “Alan D.” è il nom de plume di Sergio Altieri. Terminata la lettura del racconto pubblicato su Robot n.42 si fa qualche ricerca in rete e si viene a sapere che esso era alla sua seconda pubblicazione, dopo quella avvenuta l’anno prima su M Rivista del Mistero, e che una terza avverrà poi nel primo volume antologico dei racconti di Sergio/Alan: Armageddon – Scorciatoie per l’Apocalisse. Si disseppellisce il volume da sotto un altro pinnacolo librario. Non fosse che per averlo a portata di mano, dal momento che la lettura del racconto è stata senza dubbio soddisfacente e c’è tutta l’intenzione di leggere altro di Altieri. La curiosità spinge a scorrervi le prime righe del racconto appena letto e, una volta registrate differenze che indicano una revisione non da poco del testo, a effettuare una rilettura completa. Se tra la prima (anzi seconda) edizione e la seconda (anzi terza) la trama non muta, tuttavia l’editing stilistico e di scrittura non risulta indifferente. E con pieno vantaggio del testo dell’edizione più recente! Ignoro come fosse il testo dell’edizione originale, ma in ogni modo tra quella apparsa su Robot e quella contenuta in Armageddon si guadagna un’asciuttezza e una secchezza verbali e del periodare che pur lasciando intatta la cupezza gotica delle atmosfere e la violenza quasi barocca delle situazioni e dei personaggi (anzi esaltandola) la depurano di quella ridondanza e del compiacimento che renderebbero indigeribili testi più ampi di un breve racconto. Uno stile sempre (sovrac)carico, in qualche modo, ma non stucchevole, che rende al meglio quella vivida visività cinematografica che viene ad Altieri dalla sua importante frequentazione della sceneggiatura hollywoodiana e televisiva. Alla ricerca di sensazioni forti di lettura si è soddisfatti di incontrare una scrittura così corposa e robusta; ma anche essenziale e chirurgica, verrebbe da dire. Un breve esempio:

L’uomo emerge dal fumo e dai miasmi. Nudo come un verme sul ghiaccio, nel vento. Ha il torace coperto di arabeschi di sangue raggrumato. Il suo mento gronda sangue ancora fresco, scintillante.

L’uomo cammina lontano dal fulcro degli incendi. Aggira mucchi di rottami irriconoscibili ancora in fiamme. Ignora la morsa da annientamento dei meno quarantadue gradi Celsius. Avanza sulla fanghiglia che diventa gelida, che comincia a solidificarsi.

Nella precedente versione su Robot suonava così:

Un uomo emerse da uno squarcio nella parete semi-cilindrica del Blocco Principale, sventrato dalle esplosioni.

Un uomo dal torace coperto di arabeschi di sangue raggrumato.

Un uomo nudo come un verme nella morsa da annientamento dei quarantadue gradi Celsius sotto lo zero.

Camminò sempre più lontano dal fulcro caldo degli incendi. Aggirando mucchi di rottami irriconoscibili ancora in fiamme, avanzando sulla fanghiglia gelida che stava già cominciando a solidificarsi. Anche l’altro sangue, quello ancora fresco che scintillava sulle sue labbra, sul suo mento, cominciò a solidificarsi.

La rete riserva un’ulteriore curiosità. Il testo del racconto è infatti reperibile sul forum di Altieri: http://alanaltieri.forumfree.it/?t=13533263. E a un’occhiata sommaria il testo sembrerebbe una versione intermedia tra l’edizione su Robot e quella in Armageddon. Sia come sia, la storia resta la stessa nella sua essenza :-).
Armageddon, pubblicato nel 2008, presenta la terza edizione del racconto.

Nell’introduzione al racconto su Armageddon, Altieri riconosce il chiaro debito verso il superbo racconto Who goes there? Di John W. Campbell jr., dal quale è stato tratto il film La Cosa diretto da John Carpenter e che in precedenza aveva ispirato la pellicola di Howard Hawks La Cosa da un altro mondo. Debito di atmosfera e ambientazione in primo luogo. Di potente carica d’orrore e sospetto. Una natura soverchiante e la propensione umana alla paranoia, esaltata dalle condizioni di vita estrema. In Altieri, tuttavia, la minaccia si sposta più modernamente dall’esterno all’interno. Non più un invasore alieno ma l’uomo stesso: l’individuo e la società di cui è parte. La “Cosa” è l’essere umano. L’umanità. La natura umana. E se è vero che La Sindrome di Wolverton è principalmente un racconto d’azione – e di magnifica azione – non è men vero che la pressione e l’oppressione psicologiche, la temperie fobica nella quale sono immersi i protagonisti del racconto è resa perfettamente da Altieri, con economia di parole al riguardo, ma senza venir meno alla chiara evidenziazione del fatto. Senza venir meno alla cifra più evidente da subito del suo narrare: la disperazione. Quanto meno apparentemente, non vi sono redenzione né speranza nel suo universo: in fondo non è casuale che il sottotitolo di Armageddon sia: Scorciatoie per l’Apocalisse. Non è casuale il setting del racconto, la Stazione Wolverton, della Gottschalk-Yutani Oil: Mastodontico, onnipotente meta-megaconglomerato planetario. Sistema che è tutti i sistemi, macchina che è tutte le macchine. Senza dubbio un cliché di tanta fantascienza, soprattutto a partire dagli anni ’50, ma un cliché efficace. E che qui colpisce nel segno per la sua disarmante verità. Altieri si premura di illustrarne l’efficacia con la smaliziata perizia del narratore di genere dalla penna accurata e dal solido vigore narrativo. Una scrittura mai scontata, neppure lì dove sembra più appoggiarsi agli stilemi di genere: c’è sempre una parola, un accenno o un sottinteso che rimandano a un senso più elaborato. Senza che il ritmo ne risenta neppure in parte.

È antropologicamente diversa l’umanità di Altieri rispetto a quella di Campbell (e anche di Hawks e Carpenter). È pertanto perfettamente consequenziale alla sua disperazione, e alle disperate premesse cui accennavo più sopra, la chiusa del racconto, quando l’ispettore capo Keller, che ne è la protagonista principale, definisce con implacabilità pari alla precisione il significato ontologico della “Sindrome di Wolverton”: La Sindrome di Wolverton è un dialogo. Con il lato oscuro della coscienza. E dopo aver ucciso i due uomini che (forse) si frappongono tra lei e la diffusione planetaria della Sindrome ella conclude: Ora quel dialogo può continuare.

La natura, l’umanità e la società di Altieri sono le nostre, appena appena nel futuro, appena appena più brutalizzate, violentate, distorte e sfruttate delle nostre. Una natura, un’umanità, una società a pochi anni di distanza nel pensiero economico uniformante che ha (s)governato gli ultimi quattro decenni della storia planetaria, inducendo un parossismo psicotico di consumismo che sta raggiungendo rapidamente il suo punto apicale e il conseguente declino verso l’approdo terminale da una “consumabilità” assoluta di tutte le cose e i viventi a, di fatto, il loro effettivo consumo ed esaurimento. La società e l’umanità di Altieri sono pronte all’opera: la base antartica Wolverton è l’avamposto deputato allo sventramento e alla devastazione dell’ultima frontiera naturale intatta, quella antartica appunto. Lo scopo: l’estrazione degli immensi giacimenti di petrolio sottostanti. Fino a consumare, sempre più rapidamente, anche quelli.

Nella migliore tradizione della fantascienza catastrofica la natura violentata reagisce con violenza contro il parassita che la infesta e infastidisce. Negli individui sottoposti alle condizioni estreme della stazione Wolverton insorge un virus atto a indurre una follia omicida e autodistruttiva. Un virus che, non è davvero difficile scorgerlo, null’altro fa se non far emergere la realtà del comportamento umano, quel parossismo predatorio e consumistico di cui sopra che non risparmia nulla e nessuno, neppure i propri simili, neppure se stessi. È l’uomo stesso, la sindrome. È malattia per sé.

Senza scomodare Freud e la sua pulsione di morte, registriamo con rassegnazione che l'evoluzione non ci ha attrezzato per governare un sistema della complessità del nostro pianeta, e che difficilmente avremo il tempo per attrezzarci visto che stiamo dimostrando di non avere intelligenza sufficiente a comprenderne le necessità.


Difficilmente sarà come racconta Sergio/Alan, è ovvio. Continuando sulla strada intrapresa è più probabile che a porre fine all’avventura elettrizzante degli ultimi secoli di Homo sapiens saranno fenomeni molto più “banali” e “prosaici”: guerre per l’acqua, per le fonti di energia, per l’accaparramento delle terre coltivabili, per lo sfruttamento di mercati del lavoro a costo praticamente zero. E altre amenità del genere, magari la “semplice” pressione demografica.      

Al netto delle amare riflessione indotte, come si diceva il racconto di Altieri resta una magnifica storia d’azione. Concitata, sincopata, dura. Senza mai scadere in una violenza che sia puramente gratuita. Violenza a volte anche pervasiva, ma sempre perfettamente giustificata dalle situazioni e dall’analisi psicologica e sociale. Una storia d’azione che non rinuncia a far riflettere, e riflettere a fondo. E lo fa con semplicità pari all’efficacia. 

domenica 7 ottobre 2012

I classici – Non avrai altro popolo (For I am a Jealous People! - 1954) di Lester del Rey (1915-1993)




Che il suo vero nome fosse quel Ramon, seguito da una sfilza di altri nomi degni di un Grande di Spagna con una schiatta millenaria sulle spalle, oppure il ben più prosaico Leonard Knapp riferito in una intervista a Locus dalla sorella Sarah che gli è sopravvissuta, “Lester del Rey” è stato un autore di rilievo primario della fantascienza di matrice positivista propugnata con forza da John Campbell sulle pagine di Astounding, principale rivista americana di sf negli anni ’40 dello scorso secolo, da lui diretta per oltre tre decenni, fino alla morte. In seguito, nel corso degli anni ’50, del Rey si affermò come una delle principali firme del campo della sf nella produzione di juveniles, romanzi che oggi si direbbero Young-adult, spartendo la maggior gloria con Andre Norton e Robert Heinlein. Se non vi è dubbio che la gran parte di quelle opere fossero alimentari, come certamente anche molte del periodo precedente, non è meno vero che nei lavori dove volle o poté permettersi di essere più curato, soprattutto racconti e novelle scritti dal suo esordio nel 1938 e nei circa vent’anni successivi, del Rey abbia saputo mostrare una cifra stilistica e di contenuti personale e la capacità di attrarre il lettore con il fascino delle trame avventurose sempre abbinato a un rigoroso stimolo alla riflessione. Nella voce a lui dedicata dalla Encyclopedia of Science Fiction curata da John Clute e Peter Nicholls, Brian Stableford scrive di del Rey che “LDR was a versatile but rather erratic writer who never fulfilled his early promise. His best work appears in the collections (…)”. E l’autore britannico commenta con acume: di rado infatti del Rey parve mantenere quelle promesse (e premesse) poste in alcuni dei suoi primi lavori, in particolar modo Helen O’Loy, scritto agli esordi, che pur presentando le inevitabili ingenuità dell’età in cui fu pubblicato e del tipo di pubblicazione su cui apparve, compresa una decisa coloritura romantica, è ancora oggi una lettura emozionante e in grado di rivolgersi ai sentimenti autentici del lettore. Oppure Nervi, la novella del 1942 poi espansa alla misura di romanzo che rappresenta il miglior risultato narrativo conseguito da del Rey e che narra, con realismo eccezionale per l’epoca, di un incidente in una centrale nucleare.

L'antologia dove apparve la novella in origine
Pubblicato in origine nel 1954, For I am a Jealous People! Fu edito per la prima volta in Italia nel 1965 sulle pagine di una bellissima antologia curata da Roberta Rambelli con altisonante prefazione di Gillo Dorfles, Fantascienza della crudeltà, con l’impeccabile titolo Perché sono un Popolo Geloso. Comparve in seguito nel 1974 nel fascicolo n.653 di Urania (si ometta pietosamente il titolo utilizzato per l’antologia), che presentava in Italia l’antologia personale di del Rey Gods and Golems, che raccoglieva la sua migliore produzione di media lunghezza della prima metà degli anni ’50; questa volta il racconto è pubblicato con l’ugualmente corretto titolo Non avrai altro popolo. Nella “migliore” tradizione della rivista mondadoriana, l’edizione ometteva di pubblicare uno dei cinque lavori presenti nell’antologia originale, Pursuit (leggibile in inglese a questo indirizzo: http://www.gutenberg.org/catalog/world/readfile?fk_files=1635003), secondo un filo d’acciaio che connette la Urania di Fruttero&Lucentini a quella dei nostri tempi nell’attitudine all’uso delle forbici. Le successive edizioni della breve novella manterranno questo titolo fino all’ultima, comparsa di nuovo su Urania (nel fascicolo n.1479) come Perché sono un dio geloso!, titolo fuorviante quanto altri mai, che travisa radicalmente il senso profondo dell’opera in precedenza sempre rispettato: tanto per confermare che se si può far peggio ci si impegna con alacrità.


For I am a Jealous People! è per molti versi un’opera tipica della Golden Age della fantascienza (http://en.wikipedia.org/wiki/Golden_Age_of_Science_Fiction), senza dubbio rispettosa del verbo campbelliano che prevedeva che gli esseri umani (o per meglio dire: gli americani rigorosamente wasp) fossero sempre e comunque in grado di vincere le sfide, le battaglie, i rovesci di fortuna, le imprese impossibili e a ogni modo qualunque avversità il destino proponesse loro attraverso le vicende narrative. E non vi è dubbio che il tipo di avversità che il reverendo Amos Strong, protagonista principale della novella, si trova a fronteggiare è del tipo più arduo: combattere avendo Dio nel campo avversario. Quale che fosse la sfida, gli uomini (americani wasp) di Campbell e dei suoi discepoli più fidati vincevano immancabilmente, per cui non dubitiamo che la sfida finale lanciata dall’uomo di Dio al suo (ormai ex) dio e al popolo eletto di questi, gli alieni invasori e sterminatori, sarà coronata da successo. Una variante potrebbe sempre essere quella della gloriosa soccombenza in stile Alamo: poco importa che il mito di Alamo sia autentico quanto una moneta da tre euro; e in ogni caso si ricordi che, DOPO, a Santa Ana gli abbiamo fatto un mazzo così. Ma sebbene del Rey non narri l’esito finale del confronto, crediamo vi sia ben poco spazio per uno diverso dalla vittoria umana (americana wasp).

L’elemento religioso ricorre in più di una delle migliori opere dell’autore americano - anche nell’antologia Gods and Golems -, compreso quello che probabilmente è il suo miglior romanzo: L’undicesimo comandamento, pubblicato nel 1962, a sostanziale chiusura del periodo creativamente felice e abbondante della sua produzione. Nella novella in esame come nel romanzo, del Rey sa miscelare sapientemente gli aspetti più tipicamente avventurosi e di intrattenimento con un’acuta azione di stimolo alla riflessione sui temi teologici e di coscienza che getta in campo, e senza che l’uno aspetto soverchi mai l’altro. Il riferimento a Kant che Amos fa (“Quindi agisci in modo da trattare l’umanità sia nella tua propria persona che in quella altrui, in qualunque caso, come un fine e assolutamente mai come un mezzo.”) non stride con la trama di una feroce, apparentemente insensata, invasione aliena: è anzi essenziale per comprendere lo sviluppo del personaggio e per inquadrare concettualmente la novella.

Nell’economia della breve novella di cui si tratta, la necessità di porre in modo succinto le questioni attinenti alla tematica religiosa non inficia minimamente l’efficacia del lavoro dello scrittore americano. Paga se mai egli lo scotto di una certa rozzezza stilistica, o meglio della brutalità con cui deve comprimere e sollecitare il suo personaggio a compiere rapidamente l’evoluzione – e anzi la rivoluzione – copernicana del suo spirito e del suo modo di essere, della sua personalità profonda. A onta di questa necessaria brutalità, del Rey è tuttavia abile a mostrare ogni sottigliezza del lavoro corrosivo che il dubbio suscitato dall’osservazione della realtà e dal contatto con lo stesso Dio, “traditore” del suo ex popolo, compie nella psiche e nell’anima di Amos Strong. Novello Giobbe, ma che infine rifiuta lo schema psicologico che riteneva Dio avesse scelto per lui – che Amos si era costruito per sé, insieme alla immagine di un dio fatto a propria immagine - , quest’uomo pio e sottomesso al verbo di Dio, ma pur ammantato sempre di una dolente e nobile dignità, giungerà nel finale della novella a pronunciare il programma (campbelliano ;-)) della guerra contro gli avversari dell’uomo (americano wasp): “Dio ha denunciato l’antico patto e si è dichiarato nemico dell’umanità – disse, e la chiesa risuonava al rombo della sua voce. – E io vi dico che egli ha trovato un valido antagonista.

Che del Rey ne fosse consapevole o meno (e probabilmente lo era eccome), in tal modo il reverendo Strong veniva anche a chiudere il cerchio, specularmente ritrovando la pienezza della sua quasi esaltata fede giovanile in Dio in tale ispirata opposizione allo stesso Dio. Minor successo ha forse l’evidenziazione del percorso interiore che trasforma l’un tempo ardente e ormai intiepidito predicatore in un profeta carismatico: qui lo spazio narrativo risulta eccessivamente tirannico. Tuttavia l’autore compensa la pochezza analitica con la vividezza emotiva con la quale descrive la (ri)presa di coscienza di Amos: “Amos passò il resto della giornata nella casa dove aveva trascinato il cadavere di Doc. Non andò nemmeno in cerca di cibo. Per la prima volta in vita sua, da quando gli era morta la madre, a cinque anni, non aveva protezione contro il dolore. Non l’amara convinzione che si fosse fatta la volontà di Dio a consolarlo della perdita di Doc. E, rendendosene conto, sentì anche l’acuto dolore per le altre perdite dolorose, come se fossero anch’esse avvenute insieme con la morte di Doc.” Lester del Rey lascia sempre al lettore il suo libero arbitrio, si residua lo spazio del dubbio, tuttavia la sua scelta di campo appare razionale. O quanto meno lo sono le scelte di campo dei suoi personaggi, Amos Strong compreso.

La vividezza cromatica delle emozioni non resta concentrata nel solo reverendo; pur nell’economia della necessità di farne giganteggiare la figura, del Rey si dimostra professionista particolarmente smaliziato nel dipingere con rapide pennellate dei personaggi di contorno credibili e in grado di andare oltre la pura funzione di mascherine e cliché. Non solo il “Doc” della citazione qui sopra, il dottor Alan Miller, figura assolutamente stereotipa del medico condotto dell’America profonda di parecchi decenni fa (l’azione si svolge in un Kansas agricolo, perfettamente aderente a quello dell’epoca in cui la novella è stata scritta) e che pure diviene materiale narrativo caldo e vivo sotto la penna di un del Rey in grado di fornire tridimensionalità al personaggio con pochi indizi sparsi ad arte. Anche figure del tutto minori come la sartina e improvvisata organista di chiare origini italiane Angela Anduccini saltano all’occhio del lettore per la chiarezza con la quale pare di poter sbirciare nel suo animo. Mestiere, senza dubbio, ma mestiere ispirato. La capacità, anche, di saper spingere i tasti emozionali del lettore con sobrietà, come del Rey mostra nelle scene delle varie morti che toccano e infine travolgono la vita di Amos: sua moglie Ruth; il cane del figlio; sua nuora Anne; infine il dottor Miller, l’amico di tutta la vita.

Leggendo la fantascienza di parecchi decenni addietro si è sempre assaliti da un senso di fortissimo anacronismo. Personalmente è un sentimento di commosso calore quello provo. Nell’era del trionfo della Rete e della comunicazione planetaria immediata è affascinante vedere all’opera l’antica fantasia dei maestri del passato che non si peritavano di costruire basi lunari, narrare di invasioni aliene, far sfrecciare razzi futuribili nei cieli; e poi passavano attraverso una centralinista umana per mettere in comunicazione due abitazioni di un paesotto del Kansas rurale. Con tutto ciò, il senso profondo di opere come questa non risente in minima misura di tale effetto straniante. E’ degli eterni interrogativi dell’anima umana, dei tormenti e delle risoluzioni interiori che lacerano lo spirito umano, che parla la novella di del Rey. E il tempo che passa e rende sempre più lontana la sua apparenza esteriore non fa che avvicinarci la sua sostanza autentica, distillandola. E’ quanto fa di un lavoro professionale un capolavoro.

Quasi trent’anni dopo la pubblicazione di For I am a Jealous People!, Raymond F. Jones, un veterano i cui esordi letterarii precedevano quello di Lester del Rey scrisse un romanzo liberamente ispirato alla novella. In Italia venne pubblicato da Urania con il titolo di Alieno in croce (sempre benedetta sia la brillantezza dei curatori uraniani nella scelta dei titoli), a firma congiunta di Jones e del Rey.

domenica 8 luglio 2012

I contemporanei – Meraviglie dell’Invisibile (Wonders of the Invisible Worlds, 1995) di Patricia A. McKillip (n.1948)


 Vi sono racconti che rappresentano un enigma e una sfida, e anche una sofferenza. Sofferenza perché vanno a toccare delle corde interiori, tese e sensibili, e toccandole, stuzzicandole, le attivano e ne attivano la carica ansiogena. A fine lettura si prova il disagio di essere appena entrati in contatto con un rovello irrisolto; o, con minor disagio, come in questo caso, con una questione lungamente analizzata e dibattuta al proprio interno senza venirne mai davvero a capo. Un enigma perché spesso in tali occasioni non è immediato riconoscere il rovello o la questione; e gli enigmi sono fatti per installarsi nella parte inquisitiva della nostra mente in modo da tormentarci perché li affrontiamo e li risolviamo. Infine una sfida per l’ovvio motivo che il racconto in grado di tormentarci a questo punto va aperto come un guscio di noce perché riveli quale sia l’elemento che sfugge alla nostra comprensione immediata.

 I am the angel sent to Cotton Mather. Così esordisce Wonders of the Invisible Worlds (che Patricia McKillip mutua dall’opera quasi dello stesso titolo del teologo e leader puritano Cotton Mather, figlio di Increase Mather, egli pure celebre leader puritano del New England coloniale). Siamo dalle parti, fantascientificamente assai e volentieri frequentate, dell’interpretazione/riscrittura in chiave fantastica dell’elemento religioso/trascendente? Da una scrittrice nata a Salem (benché l’altra, quella in Oregon J) sarebbe lecito attenderselo, ma è una lettura che si rivela povera e limitata. Nella brevità delle sue poche pagine, questo racconto è molto più ricco e sottile che non una divagazione sulla religione o sul DNA religioso degli Stati Uniti, e non stupisce minimamente che David Hartwell lo abbia incluso nel primo volume di quella che sarebbe divenuta la sua felice serie di antologie annuali del Best of the year. La figura storica di Cotton Mather appartiene di diritto ai miti fondanti della nazione e ne rappresenta alla perfezione la vocazione a un’ottusa fede, assolutista e rigorista; ma nell’economia del racconto di Patricia McKillip egli è un pretesto, seppure un pretesto esemplare. Come esemplare è per altro la descrizione che l’autrice dà dell’uomo e del suo ambiente familiare e sociale con una vividezza perfino sgradevole, sbalzandone con vigore la figura sulla pagina e illustrando con pochi tratti precisi ed energici, stilisticamente ricercati perfino, la scena del New England della fine del XVII secolo dove è ambientata la prima parte del racconto: "If your throat is no better tomorrow, we'll have Phillip pee in a cup for you to gargle." From the way the house smelled, Phillip didn't bother much with cups. Cotton Mather smelled of smoke and sweat and wetwool. Winter had come early. The sky was black, the ground was white, the wind pinched like a witch and whined like a starving dog. There was no color in the landscape and no mercy. Cotton Mather prayed to see the invisible world. Non esattamente il tipo di luogo e di gente che si sceglierebbe di visitare in prima battuta avendo la possibilità di spostarsi nel tempo. Non solo l’opprimente sentimento religioso dei Puritani e della loro Legge Divina ossessiva. La prima parte del racconto mostra un ambiente umano di immaginazione sovreccitata, una cultura il cui immaginario era tanto potente quanto morboso, e tanto ricco di barbarie barocca quanto fissato su un sovrannaturale sospeso tra un Bene spietato e cieco alla comprensione umana e un Male multiforme dai riflessi orrorifici profondi. Dalla padella alla brace. Ambiente perciò anche fecondo, letterariamente parlando. E’ facile vedere Lovecraft nel futuro di quell’immaginario.

Il Millemondi autunno del 1997 contenente il racconto tradotto
Già nell’incipit, una volta conclusa la lettura, è possibile riconoscere come il racconto non si fermi a una banale lettura futuribile del fenomeno religioso. I am the angel sent to Cotton Mather.  Qui è necessaria una digressione di cui mi scuso. La traduzione è: Sono l’angelo (che è stato) mandato a Cotton Mather. Nel volume italiano si legge invece: Sono l’angelo che è stato visto da Cotton Mather. Al di là di una certa goffaggine stilistica a fronte della secchezza della frase di Patricia McKillip si tratta di una semplice differenza nei termini scelti dall’autrice e da chi ha tradotto? Non direi proprio, in sede di traduzione si è operato uno stravolgimento di senso dell’originale. Che non a caso rende più difficoltoso individuare il nocciolo del discorso della scrittrice americana. “Sono l’angelo mandato a Cotton Mather” chiarisce immediatamente che l’uomo non è un allucinato; e non importa che l’angelo non gli sia inviato dal Dio che Mather prega, non importa che si tratti di una donna del futuro truccata da angelo stereotipato ai fini di una ricerca storica e sociologica sul campo. Ciò che rileva è che l’angelo non è un parto della mente malata e allucinata del leader puritano: Mather non è il creatore della visione ma il suo ricevitore, e l’angelo non è andato lì sua sponte, ma è stato mandato presso di lui. “Sono l’angelo che è stato visto da Cotton Mather” comporta una netta modificazione di senso, a partire dall’ambiguità sotterranea sul soggetto: l’angelo è stato visto per sua decisione, perché qualcun altro ha deciso in tal modo oppure perché Mather è in effetti un fanatico ai limiti della psicosi? Essendo Mather un puritano e dunque un protestante che appartiene a una cultura altra dalla nostra, essendo anche un noto cacciatore di streghe (o almeno sentito come tale) è per tale motivo che va presentato senza dubbio al lettore come un invasato? Quanto scrive in seguito l’autrice lo dipinge come tale, è vero, tuttavia l’ottica è diversa. Patricia McKillip offre una lettura laica e scientifica dell’uomo e del suo ambiente spirituale, sin da quella prima frase. La traduzione dell’incipit orienta invece l’interpretazione della figura di Mather non tanto sulla sua esaltazione mentale quanto sull’aspetto religioso di essa. In apparenza è una differenza sottilissima, e non vi è dubbio che Cotton Mather fosse un individuo la cui vita era dominata da una religiosità totalizzante. Ma questo è il Mather storico, non quello del racconto, che è un puro esemplare: un oggetto di studio per Nici, la ricercatrice addobbata da angelo e per il suo capo, nonché un personaggio scelto per il suo valore riassuntivo, iconico. Giuseppe Lippi, l’allora come oggi curatore di Urania e collegati, probabilmente ci direbbe che si tratta di uno di quegli interventi di “editing” (così vengono definiti… vabbe’) che migliorano la qualità delle opere tradotte e per i quali si deve ringraziare.
Cotton Mather da anziano

Al di là della sciatteria della traduzione che fa perdere la bellezza essenziale di quella frase introduttiva, qui si finisce però con il manipolare la lettura, sottolineando all’attenzione del lettore un aspetto che nell’architettura del racconto è accessorio; e mutando il soggetto attivo della visione si viene a perdere la circolarità del racconto e dunque il suo senso profondo, il gioco di specchi tra Nici e Cotton Mather. Nella frase di Patricia McKillip il puritano non è in grado di creare la propria visione senza un intervento esterno; che tale intervento sia di Dio o degli uomini del futuro come detto non è così importante. Esattamente come alla fine del racconto Nici e suo figlio Brock (e intuitivamente tutti gli uomini del futuro) non sono in grado di creare materialmente il proprio immaginario visivo senza un intervento esterno, in questo caso di un prodotto della tecnologia umana, un computer. Senza il computer Nici non avrebbe visualizzato i propri sentimenti nella figura dell’angelo ingabbiato, impossibilitato a prendere la sua libertà e volare (e a mutare la Storia). Viceversa nella frase tradotta Mather appare ambiguamente come il possibile creatore di una visione allucinata e il soggetto attivo della visione, invece che il suo oggetto e un oggetto di studio.

L'antologia dove venne originariamente pubblicato il racconto
 Ma questo non è un racconto di argomento religioso o una descrizione razionalistica del fanatismo religioso. Neppure mostra una contrapposizione tra ragione e fede. E’ invece una storia sui meccanismi e i percorsi creativi della mente umana, sulla fantasia e su come essa opera. Senza dubbio il sentimento religioso è un generatore potente del nostro immaginario, ma come lo è anche la scienza e la tecnologia che ne deriva. Sia Cotton Mather che Nici sembrano accomunati della impossibilità di dare corpo materiale alla loro visione angelica, e l’uno e l’altra ci appaiono vittime di un immaginario che li condiziona dall’esterno e che li manipola: Nici appare a Mather sotto le spoglie di un angelo da manuale confermando quelle che sono le sue illusioni, e l’illusorio angelo dà forma ai sentimenti di impotenza di Nici riguardo alla Storia e alla sua immutabilità. Sembra una conclusione sconfortante: da una parte la fede frutto di illusioni e dall’altra la ragione che non può cambiare né creare la realtà – compresa l’illusorietà della fede. 

 C’è qualcos’altro? Forse sì. Questa è una storia sulla fantasia e la creatività umane, dicevo: Nici è l’Autore e Cotton Mather è il Lettore. Il Lettore si attende che il racconto abbia certe caratteristiche, che la creazione letteraria venga incontro al suo immaginario incardinato nelle immagini stereotipate della tradizione e introiettate nella sua coscienza. L’Autore si sente ingabbiato dalla tradizione ed è incapace di liberarsi dalla struttura della realtà (realtà editoriale, realtà degli schemi della scrittura). Di nuovo una conclusione mesta? Il racconto termina con questa frase di Nici: When I opened my eyes, the angel had disappeared. Sembra una resa, l’accettazione di una realtà che l’uomo non può mutare. Ma non è Nici che apre gli occhi sulla realtà, è l’autrice che li apre sulla propria fantasia. Se si aprono gli occhi sul proprio mondo interiore e la sua fantasia, gli angeli della tradizione scompaiono, se si vuole e se ne è capaci. E si dà la stura alle risorse del proprio immaginario. Che si nutre della tradizione, si nutre dei sentimenti, si nutre della scienza. Si nutre del passato e del futuro. Così come Nici ha nutrito le visioni di Cotton Mather e questi ha contribuito a strutturare la fantasia di lei. Così nasce una storia, magari una gemma come questo racconto: dai mille rivoli dei quali si nutre la fantasia umana, e dal catalizzatore del talento di un individuo. Patricia McKillip aveva scritto prima del puritano che: Cotton Mather prayed to see the invisible world. Nici glielo mostrerà esattamente come egli aspettava che fosse, ma con questo racconto la scrittrice americana fornisce invece a noi lettori una chiave per non desiderare che gli angeli siano tutti biondi, boccoluti, intunicati di bianco e aureolati d’oro. Una chiave per cercare nella ricchezza proteiforme dei mondi di fantasia, per crearli da lettori insieme agli scrittori.

 Forse poco nota in Italia (e un po’ dimenticata), Patricia McKillip è non solo una prolifica scrittrice principalmente di fantasy, ma soprattutto una delle protagoniste contemporanee della letteratura fantastica. 

link dove è possibile scaricare il file .pdf del racconto in inglese: