mercoledì 30 dicembre 2009

Buoni propositi per il 2010




Il nuovo anno è alle porte e vorrei salutarlo con un post benaugurante: una lista di buoni propositi fantascientifici. Dodici romanzi da leggere/rileggere per i prossimi dodici mesi; uno al mese. Scelti per assonanza di titolo con il mese, per inerenza della trama o perché il titolo sembra suggerire il proprio mese di elezione. O per un po’ dell’una e dell’altra cosa.



Gennaio
E’ gennaio, e il freddo morde la carne fino alle ossa; è la promessa di un gelo eterno che appare inelusibile; è L’inverno senza fine partorito dalla fantasia di John Christopher. L’”Inverno Fratellini” che stringe la Terra in una nuova era glaciale, scompaginando le gerarchie: umane, sociali, politiche, economiche. Uno dei capolavori della fantascienza catastrofica britannica.


L’inverno senza fine (The World in Winter, 1962)
di John Christopher (n.1922)



Febbraio

Le sere di febbraio sono lunghe e fredde, invitano a raccogliersi in casa davanti a un caminetto crepitante, radunando i bambini e leggendo loro della favole. Il lettore di fantascienza preleverà all’uopo dal suo scaffale le Fiabe per robot. E leggerà da questa antologia i fatti surreali di robot surreali e lunari che si mescolano liberamente con dragoni e damigelle, ringraziando l’inventiva e l’acume di Stanislaw Lem.


Fiabe per robot (Bajki robotów, 1964/65)
di Stanislaw Lem (1921-2006)


                                                                     
Marzo

Marzo, con l’arrivo della primavera, annunciava il ritorno sui campi di battaglia del dio Marte. Sperando in tempi meno sanguinari, con il mese dedicato al bellicoso nume potremmo disporci, più pacificamente, a contemplare Il Rosso di Marte. Formulando l’auspicio che anche i due successivi romanzi della trilogia marziana di Robinson approdino in Italia seppure con grande ritardo, percorriamo la storia della prima colonizzazione del Pianeta Rosso, dei dibattiti accesi, degli iniziali tentativi di terraforming e dello scoppio infine della rivoluzione.




Il Rosso di Marte (Red Mars, 1992)
di Kim Stanley Robinson (n.1952)



Aprile

Passato l’inverno, le vacanze di Pasqua! Sperando, ben inteso, di non incappare in una Pasqua nera come quella raccontata da James Blish, in un mondo dove la demonologia e l’evocazione dei demoni sono fatti concreti, scientifici, e la società umana si confronta con le responsabilità che derivano da un potere tanto terribile.


Pasqua Nera (Black Easter, 1968)
di James Blish (1921-1975)
                                                                                                               


Maggio

Il tepore primaverile si appresta a trapassare nella calura estiva; è maggio e si ha voglia di uscire all’aria aperta, stare con le persone, divertirsi. Accettiamo l’invito di Alyx e andiamo insieme a lei a fare un Picnic su Paradiso. La battagliera mercenaria Alyx, qui al salvataggio dei classici turisti della domenica, è la protagonista di alcune opere della vessillifera del femminismo in sf Joanna Russ. Per quel che so questo breve romanzo è quanto del ciclo apparso in Italia. Peccato.

                                                                   
Picnic su Paradiso (Picnic on Paradise, 1968)
di Joanna Russ (n.1937)



Giugno

Le giornate si sono allungate e il sole pare non aver mai voglia di coricarsi. Ne siamo felici, ma speriamo che non sia perché è arrivato Il lungo meriggio della Terra, il tempo degli ultimi giorni del nostro pianeta, che un sole eterno ha reso una serra, ed è ormai avviato al suo tramonto. Intenso e affascinante affresco di un’umanità bizzarra in una Terra aliena.


Il lungo meriggio della Terra (The long afternoon of Earth, 1961)
di Brian W. Aldiss (n.1925)



Luglio

Non sarà per agosto, ci ammonisce Kornbluth. E noi lo prendiamo in contropiede e leggiamo a luglio questo romanzo duro e sofferto, ma anche pieno di speranza: la storia del riscatto di un popolo attraverso molte tribolazioni.


Non sarà per agosto (Not this august, 1955)
di Cyril M. Kornbluth (1923-1958)



Agosto

E’ tempo di divertirsi, vacanze, andare al mare. Facciamo le cose in grande e usciamo in barca per andare ad ascoltare La voce dei delfini. I racconti di Leó Szilárd, grande fisico ungherese naturalizzato americano, premio Nobel e intellettuale a tutto campo. Racconti ironici, morali, acutamente consapevoli della realtà sociale e politica dell’uomo, e della sua necessità di invertire la rotta per sopravvivere.


La voce dei delfini (The Voice of the Dolphins and Other Stories, 1961)
di Leó Szilárd (1898-1964)



Settembre

“Trenta giorni ha novembre, con april, giugno e settembre…”. E lo ribadisce anche Robert F. Young: Trenta giorni aveva settembre. I racconti di Young qui raccolti, con l’eponimo Thirty days had september del 1957, sono una scelta selezionata tra la migliore narrativa di questo scrittore maestro nei registri dell’ironia soffusa e dell’idillio, ma capace di gestire anche diversioni nel drammatico. L’ottimo sarebbe reperire anche la sua altra antologia edita in Italia, Una coppa piena di stelle, con la quale in realtà costituisce in originale una raccolta unica. Il volume Bigalassia che le riunisce è forse la migliore soluzione.


Trenta giorni aveva settembre (A glass of stars, 1968)
di Robert F. Young (1915-1986)



Ottobre

Ottobre, inizio d’autunno, le foglie cominciano a ingiallire e poi a cadere. E’ il momento ideale per vagare sulle orme di Bradbury per il Paese d’ottobre. Una delle raccolte più famose dell’autore, che qui celebra i “miti agricoli” del suo natale Midwest americano, creando racconti sospesi tra magico e bizzarro, e naturale e quotidiano.


Paese d’ottobre (The October Country, 1955)
di Ray Bradbury (n.1920)



Novembre

L’umidità di novembre ci spinge a rifugiarci tra le rassicuranti mura di luoghi vecchiotti e confortevoli, dove riscaldarci bevendo in conviviale compagnia di nostri simili, meglio se affabulatori smaliziati e in grado di suscitare il nostro divertito interesse a onta dell’improbabilità delle loro storie. L’ideale è allora recarci All’insegna del Cervo Bianco dove Harry Purvis e i suoi amici ci intratterranno amabilmente nei racconti immaginati da Arthur Clarke.


All’insegna del Cervo Bianco (Tales from the White Hart, 1957)
di Arthur C. Clarke (1917-2008)



Dicembre

Con il termine dell’anno giunge il tempo delle strenne! Non sarebbe bello se, per una sola volta, Babbo Natale si godesse una meritata vacanza e i doni li portasse La Regina delle Nevi? Nonostante il titolo festoso, il romanzo è una maestosa epica planetaria che sotto le mentite spoglie di una verniciatura fantasy mette in scena un plot fantascientifico-avventuroso complesso e articolato, con al centro le figure della Regina delle Nevi, monarca del pianeta Tiamat durante il ciclo del suo più che secolare “inverno” e della sua figlia-clone Moon. E’ il libro più noto dell’autrice, scritto all’epoca del suo massimo successo, quando la (ormai ex) signora Vinge sopravanzava suo marito Vernor, oggi uno dei principali scrittori di hard sf.


La Regina delle Nevi (The Snow Queen, 1980)
di Joan D. Vinge (n.1948)



BUON ANNO!

venerdì 25 dicembre 2009

[fantascienza] I contemporanei – La stagione degli agnelli (Lambing season - 2002) di Molly Gloss (n.1944)





Una vecchia e tutto sommato fondata definizione, fa della fantascienza una letteratura di idee. E appunto ci sta, bene o male: la fantascienza generalmente pone delle ipotesi e su di esse specula. Per lo più, gioca con le idee. Solitamente crea idee, ne indaga, le influenza e ovviamente ne è influenzata. E’ una letteratura che nei più casi poggia sulle gambe solide dei fatti, che poi manipola e plasma in maggiore o minore misura, a seconda del maggiore o minore talento visionario dell’autore di turno. I personaggi con le loro psicologie, gli scenari con i loro colori e i timbri espressivi vengono dopo. Ogni regola ha però le sue eccezioni; ed esse non sono meno importanti della regola stessa; anzi lo sono forse di più. La stagione degli agnelli apparve in origine sull’Isaac Asimov’s Science Fiction Magazine, ed è stato recentemente pubblicato in Italia in chiusura del mastodontico secondo volume dell’antologia Il meglio della Sf / II che concludeva la presentazione dell’antologia Best of Bests curata da Gardner Dozois e dedicata ai migliori racconti contemporanei di fantascienza. Quindi è per definizione fantascienza. E lo è senza dubbio, visto che c’è un alieno di mezzo. Però, però…

In Lambing season centrali, strategici per la narrazione sono i set naturali dove l’autrice pone la scena e i suoi protagonisti. Più, molto più che di idee, il racconto è fatto dei silenzi che lo trapuntano. Delle notti stellate dell’ovest americano, forse dell’Oregon dove vive l’autrice; delle pietraie dove cresce un’erba rada che nutre pecore robuste e riottose; del lavoro duro, a volte infame e altre toccante dei pecorai; di una natura potente dove l’uomo può immergersi fondendovisi. Una scenografia realistica - al limite e se vogliamo da realismo magico; ma lontana dai tocchi estenuati (a volte troppo) di Bradbury o dall’umanesimo razionale e dagli idilli agresti di Simak: una sfumatura appunto – ma robusta e assertiva – di atmosfere che rimandano a qualcosa di magico. Che rimandano, non che sono.

E’ sicuramente una scheggia di poesia in fantascienza questo racconto, ma di un poetare scabro e tosto, lontano da ogni svenevolezza e concentrato sugli essenziali dell’esistenza: la vita e la morte. Trasfigurate nella narrazione letteraria. La vita e la morte degli agnelli e delle pecore che Delia, la protagonista umana del racconto, porta a fare la transumanza estiva sulle montagne. E che dopo la pausa invernale aiuta a nascere o a sgravarsi (o a morire), affondando le mani nel loro sangue. La vita di Delia su quei monti screpolati e riarsi dove l’erba resta bassa, adatta ad animali abituati a lottare per la vita, animali lontani da quella falsa immagine di mitezza che l’iconografia plurisecolare ci ha consegnato. La vita di Delia in compagnia di queste pecore e dei suoi cani Alice e Jesus, spostandosi di campo in campo al seguito della ricerca di pascolo delle bestie; cani con i quali l’intesa non ha più bisogno di parole ma solo di gesti del corpo. La vita di Delia che sperpera la paga dell’estate ubriacandosi.


E’ in questo scenario, affatto privo di elementi fantascientifici, che Delia incontra l’uomo canino. Un giorno, sulle montagne la donna vede una scia luminosa attraversare il cielo notturno e vincendo la stanchezza si reca sul luogo dell’atterraggio (o dell’impatto) per prestare soccorso a eventuali feriti o sopravvissuti. Ma non scoprirà un aereo, bensì uno strano velivolo, e il suo ancor più bizzarro occupante. Una creatura dall’aspetto e dalle movenze canine. Una creatura probabilmente sorda, le cui uniche azioni, i cui unici gesti sono rappresentati dal gironzolare attorno al proprio veicolo, con curiosità forse umana e gestualità senza dubbio canina.

Tre volte la scia luminosa attraverserà il cielo notturno. Tre volte Delia incontrerà lo strano essere, restando a osservarlo discosta, incrociando lo sguardo con esso; ambedue accettando la muta, innocente presenza dell’altro. Fiutandosi a vicenda, se si vuole.

Se Molly Gloss è molto abile nelle descrizioni naturali e nell’incastonare l’elemento umano in tali scenari – e non meno abile nel restituire una grande dignità letteraria al prosaico lavoro di governare e rigovernare le pecore – ancora più attenta è nel cesellare, tra silenzi espressivi ed ellissi temporali perfette, il rapporto tra Delia e l’alieno. Un racconto dove non si dice nulla ma attraverso il quale si arriva a instaurare una vicinanza spirituale del tutto spontanea, naturale e articolata.

Tre volte l’uomo canino ripartirà, e dopo Delia non vedrà più la scia luminosa. Arriverà settembre di nuovo, le pecore scenderanno dai monti e la donna con loro. Sarà molti mesi più tardi, durante la stagione degli agnelli, quando le pecore figliano e Delia è nei ranch in pianura oberata di lavoro che, alzando al cielo una notte la testa, ella vede di nuovo il segno del velivolo sul nero notturno. Questa volta però Delia troverà un luogo d’impatto e non di atterraggio. Troverà il suo “amico” morente con la schiena spezzata. Per la prima volta gli si avvicinerà, potrà vedere che le sue “zampe” sono molto più simili a una mano umana che a una zampa di cane. E una di quelle mani terrà nella sua attendendo insieme all’alieno, nell’assoluto silenzio, la morte di lui; seppellendolo poi sotto un cumulo di pietre. In un delicato controfinale, durante la successiva stagione della transumanza Delia edifica con le pietre della montagna un vero e proprio monumento funebre all’essere venuto da chissà dove. E in seguito prende l’abitudine di osservare la volta celeste con il telescopio.

Insomma, a veder bene di fantascienza ce n’è poca. O forse no. Certo non basta un simakiano afflato cosmico a una fratellanza universale tra gli esseri intelligenti a fare fantascienza. E tanto meno basta un alieno simile a un cane o un bizzarro primo contatto. Non basta neppure che questo primo contatto mostri, in modo probabilmente realistico, la sola probabile modalità di relazionarsi tra esseri impossibilitati a comunicare in modo sofisticato: farlo attraverso i fondamentali dell’esistenza. E a guardar bene, anche il fatto di postulare non solo l’esistenza degli alieni, ma anche la loro discesa sulla Terra, non è poi un granché decisiva. Queste sono idee, e nel racconto la loro posizione è vicaria in modo evidente. Questo è un racconto di impressioni e di sottintesi; di silenzi e non di parole. Forse conviene semplicemente arrendersi all’evidenza. Questo è solo uno splendido racconto che il direttore di una rivista di fantascienza ha avuto il buongusto di accaparrarsi e offrire ai lettori di fantascienza, e quindi in ossequio alla definizione di Campbell, essendo stato pubblicato su una rivista di fantascienza è di fantascienza per se. Comunque sia, questo lettore di fantascienza se lo è goduto dalla prima all’ultima frase.


Natale con Arthur C. Clarke


http://lucis.net/stuff/clarke/star_clarke.html 

The Star è uno dei racconti più celebri non solo del suo autore ma di tutta la narrativa di fantascienza. E con ragione, direi, nonostante un fondo di prevedibilità.



E' il mio modo, sicuramente eterodosso :-), di godermi questa giornata.

L'ultima pubblicazione del racconto risale all'ottima antologia apparsa in Urania Collezione e di cui segnalo qui sotto la copertina.



domenica 20 dicembre 2009

[fantascienza] Il classico – Le Streghe di Karres (The Witches of Karres - 1949) di James H. Schmitz (1911-1981)



Le streghe portano guai. Lo scopre a sue spese – in senso figurato ma anche proprio – il capitano Pausert del pianeta Nikkeldepain, comandante e unico passeggero della Venture 7333 nonché mercante interplanetario. Ma sono anche donne – be’, oddio donne è un termine impegnativo in riferimento a tre ragazzette di età varie, la più grande forse sui quattordici anni. Diciamo che sono comunque un progetto di damigelle in pericolo, e i generosi capitani delle storie di fantascienza reagiscono sempre dinnanzi a tal fatta di personaggi. Per cui, lancia in resta e si corre al salvataggio! Insomma, non è tutto esattamente così; e del resto non per caso siamo in un racconto di Schmitz.


                           
Figlio di genitori americani, James H. Schmitz visse nella natìa Germania fin quasi alla vigilia della II Guerra Mondiale, per poi trasferirsi negli USA, combattere in guerra, e infine dopo gli inevitabili altri lavori iniziare stabilmente l’attività letteraria. Come scrittore il suo nome è legato a doppio filo alla fantascienza classica per eccellenza: la space-opera, e nel corso degli anni ’50 e ’60 egli fu uno degli autori più tipici della Astounding/Analog diretta da John Campbell. Ma contemporaneamente fu considerato non meno atipico. Le sue briose storie di avventure interstellari sono infatti popolate di figure femminili non solo numerose ma che soprattutto si comportano da pari a pari con quelle maschili, e se serve salvano anche il mondo come ogni eroe diligentemente fa: la parità dei sessi, in una letteratura che scontava fortemente il suo originario maschilismo – se non machismo – era ben al di là da venire, allora, e questo fa di Schmitz quasi un pioniere. Per contro, questa parità era dovuta in apparenza più a una riduzione dell’eroina ai canoni dell’eroe maschio, e forse non ha del tutto torto John Clute a sostenere nell’Encyclopedia of Science Fiction che l’eterodossia di Schmitz in materia fosse più apparente che altro. Quanto meno per Le Streghe di Karres, però, mi permetto di dissentire da Clute con vigore: Maleen, Goth e la Leewit, le tre sorelle che si affiancano al malcapitato Pausert nei vagabondaggi spaziali di pianeta in pianeta sulla Venture sono molto più sottilmente femminili di quanto ci si aspetterebbe. Una sottigliezza da occhio maschile, certamente (la donna vista dall’uomo è diabolica, si sa ;-)). Ma l’accuratezza di Schmitz nel costruire tre figure credibili di ragazza, seppure non approfonditissime, è evidente, e assai apprezzabile soprattutto nell’economia di una storia che principalmente è e resta uno degli esempi migliori e più godibili di avventura spaziale brillante; e lo è, perché, come suggerisce Janet Kagan nell’introduzione a The Best of James H. Schmitz (pubblicata come prefazione dell’edizione Nord del romanzo Le Streghe di Karres), il Nostro non si perita di usare ogni clichè possibile della vecchia sf, ma sfruttandoli tutti per andare dove pare a lui e imprimere, con strumenti prevedibili, sterzate imprevedibili alla trama. Del resto questa storia è senza il minimo dubbio una divertentissima scorribanda galattica, ma a lettura ultimata e con il sorriso che non abbandona le labbra del lettore ci si accorge dell’eleganza e leggerezza con le quali Schmitz ci ha illustrato, prendendola per i fondelli, l’eterna tirannia esercitata su chi è anticonformista da parte dell’ottusità, dell’ufficialità, dell’ortodossia, e dunque del conformismo: il pianeta Karres è, se mi si permette, un pianeta femmina; e questa volta tale sua “femminilità” non credo sia condizionata dagli occhi maschili dell’autore. Lo stile di Schmitz non è certamente ininfluente in merito: come scrittore forse non era venuto a miracol mostrare, ma la sua scrittura frizzante e arguta, ricca di onomatopee espressive, i dialoghi assai vivaci concorrono alla perfetta riuscita della storia in un meccanismo narrativo coinvolgente e che si legge avidamente.






Antologie dove è possibile reperire la novelletta

The Witches of Karres è il lavoro più noto di James Schmitz, e specialmente lo è la versione ampliata di questa novelletta del 1949, che egli pubblicò nel 1966 aggiungendo all’opera originale altre sezioni e raggiungendo in tal modo la dimensione del romanzo (leggibile a questo indirizzo: http://jiltanith.thefifthimperium.com/Collections/TheWitchesofKarresChapters/TheWitchesofKarres_Link.php - i primi due capitoli corrispondono alla novelletta originaria). Più noto e meglio riuscito insieme - quanto meno in base al poco che se ne è visto in Italia – al ciclo di storie di Telzey Amberdon, la più famosa protagonista femminile di Schmitz.


 La prima edizione italiana del romanzo

Poco purtroppo si è visto di suo in Italia. Del ciclo di Telzey credo solo un romanzo, Il gioco del Leone, oltre trent’anni fa su Galassia; uno di quello di Trigger Argee, altra eroina schmitziana, ormai perduto nelle pieghe del tempo; dei racconti del ciclo di Agent of Vega ne è stato pubblicato uno nelle carbonare edizioni Perseo. Un desolante troppo poco per l’autore delle Streghe, uno dei veri classici della space-opera.




sabato 19 dicembre 2009

Divagazione in noir - Horace McCoy


Stante il valore dell'autore, recupero quanto scrissi alcuni mesi su quattro opere particolarmente significative di questo colosso del genere.

Non sono un gran lettore di noir, e confesso che sono proprio pochini gli autori del genere che davvero apprezzi. Troppo spesso è dato trovare scrittori di scarso talento che compensano tale scarsezza sparandole grosse. Ovvero: creando situazioni così estreme da essere assurde, per titillare semplicemente la morbosità del lettore; usando uno stile ugualmente estremo, utilizzando le parole con un "realismo" che in realtà sconfina nell'iperrealismo di maniera e, in ultima analisi, nell'uso del linguaggio tanto per (tentare di) scandalizzare il lettore, o quanto meno per procurargli nuovamente emozioni morbose. Un buon parallelo è quello con tanto cinemaccio di fantascienza, che negli ultimi decenni ha sostituito le idee con gli effetti speciali.

Ecco, McCoy non è nulla di tutto questo.


Non si uccidono così anche i cavalli?





Più una novella che un breve romanzo, anche se del romanzo ha l'intensità e la densità, Non si uccidono così anche i cavalli? è una delle cose più disperate che abbia mai letto. Mc Coy porta qui il noir dentro la sua dimensione più metafisica, distillando il sentimento del genere in un racconto dove il nichilismo oblitera ogni speranza e ogni senso dell'esistenza. Eppure lo fa senza mai staccare i piedi dal solido terreno della realtà: questo racconto esce dritto dalla Grande Depressione, e di essa reca le stimmate nelle vite dei suoi protagonisti; e in particolare di quella della vera, assoluta protagonista: Gloria Beatty. Questo racconto è perfettamente calato in una realtà fatta di miseria, disperazione, odio, avidità, meschinità; e riesce a depurare i suoi elementi nel ritratto di un'anima che ha perduto ogni cosa. Perché incapace di avere alcunché oppure privata di tutto dalla vita, questo è un qualcosa che Mc Coy forse lascia decidere al lettore. O forse non gli importa minimamente sciogliere il nodo, perché ininfluente. Non a caso il momento più debole dell'intero racconto è quando l'autore ci concede un minimo scorcio del passato di Gloria; ma poi la telecamera riprende a zoomare in primissimo piano sui volti e il presente dei protagonisti, in modo ancora più disincantato che nei tre romanzi qui di seguito presi in esame. Ciò che conta e vediamo è ciò che essi fanno. Il passato, ma del coprotagonista Robert Syrventer, tornerà a far capolino nel finale, ma qui darà un'illuminazione poetica a tutto il racconto e al personaggio, così apparentemente debole e che scopriamo invece forte.

Del noir c'è tutto: ci sono assassinii e assassini - il racconto è un flashback a spezzoni che parte dall'aula di tribunale dove il coprotagonista viene giudicato -; ci sono personaggi ambigui, al limite del malavitoso; uomini e donne sradicati e senza meta né casa; c'è un degrado che non è tanto morale, quanto del tessuto stesso del vivere: c'è il nostro presente, mediatizzato, pubblicizzato, reso immagine sempre fruibile, spettacolo per la curiosità morbosa di uomini e donne privi di una vita propria. C'è una situazione folle ed estrema: una maratona di ballo che dura per settimane, dove le coppie devono ballare fino a stramazzare per sperare di guadagnare qualche soldo, per il divertimento di un pubblico crudele (Stephen King estremizzerà l'idea di base nel suo capolavoro La lunga marcia). Una situazione ideale per scatenare le passioni e far emergere il peggio di ognuno. E per far maturare l'odio totale, annullante e disperato di Gloria, un personaggio che non si può non amare e non si può non odiare allo stesso tempo. Un personaggio che appare così vero da sperare che non possa mai essere vero.

Gli altri tre romanzi li ho letti in un ottimo volume antologico.



Un bacio e addio

Lo stile è al tempo stesso ricercato e diretto al bersaglio come un proiettile. Osserviamo un signor scrittore di elevate doti letterarie che non ha la minima paura di scrivere cose che colpiscono allo stomaco, e che colpisce con particolare violenza ed efficacia perché nulla nella sua scrittura è eccessivo, ed è anzi perfettamente misurato. Le parole di McCoy fanno male al cuore non perché estreme, pittoresche o "realistiche", ma perché mettono a nudo i personaggi con una naturalezza ed una completezza da lasciare abbacinati. Sono le loro azioni, il realizzarsi dei loro pensieri a definire i protagonisti, a svelarne la personalità e la psicologia. A mostrare un tessuto sociale e umano che, nell'anonimità completa del luogo di svolgimento dell'azione, è specchio di un'America desolata, lontana dal Sogno, corrotta da e corruttrice di quel Sogno. Un'America marcescente, di un'umanità minore e minorata, priva di speranza. Nessun compiacimento in questo far osservare, da parte di McCoy al lettore, una sezione umana e sociale vuota di sentimenti, di orgoglio, di prospettive: solo l'occhio naturalistico di una narrativa disincantata, forse anche cinica. Di certo, straordinariamente raccontata. Non solo - e questo è normale - i personaggi di McCoy non hanno nulla di epico; neppure hanno nulla di epicamente disperato. Sono dei poveri disperati e basta. Dei poveri idioti, in fondo, e Ralph Cotten, il protagonista che si crede un genio del male, per primo; di essi McCoy segue pochi giorni di vita con una macchina da presa che registra tutto per il lettore, senza emettere giudizi; e senza neppure invitare il lettore a emetterne. Fanno tutto loro, i personaggi. E' così che il finale non ha nulla della grandiosità degli sconfitti dalla vita, ma lascia, con semplicità, il vero sapore dell'amarezza che dà l'osservazione di uno spreco privo di alcun senso. Privo di alcun senso perché nessun senso, nessun valore avevano quelle vite di cui erano stati mostrati al lettore degli estratti.

Il sudario non ha tasche

Questo secondo romanzo non solo conferma, ma rilancia le doti di scrittore di Mc Coy. Se possibile, è ancora più disperato e nero di Un bacio e addio, abbandonando una visione che era principalmente individuale della sconfitta per allargarla a tutta la società. Non che in Un bacio e addio la vicenda si risolvesse unicamente nell'analisi della sconfitta, quasi metafisica, del protagonista, Ralph Cotten (o qualunque fosse il suo vero nome); né che ne Il sudario non ha tasche non metta in scena anche la sconfitta, quasi metafisica, del suo protagonista, Michael Dolan. Tutt'altro: la personalità di Ralph pare riverberarsi continuamente su quella dei personaggi che lo attorniano, e che ciascuno in modo diverso dall'altro, e da Ralph stesso, si riflettono in una società indifferente e amorfa prima ancora che corrotta. Ugualmente, la corruzione completa e senza possibilità di riscatto della città di Colton, epitome di tutta l'America e perfino di tutto il mondo, si specchia nella purezza da crociato con cui Michael la combatte; vi si specchia, ma rimandando al lettore l'immagine di un crociato la cui umanità non è solo debole, ma autenticamente ambigua e spesso riprovevole: un crociato sconfitto in partenza non solo dal suo ardore che lo pone al di sopra di tutti e quindi lo condanna a scontrarsi senza speranza con chi è troppo più potente di lui, ma in primo luogo dal suo spirito ambiguo che trae quell'ardore dal senso di inadeguatezza, dal desiderio di vendetta per la sua esclusione ancestrale da quel mondo che combatte. Spirito irrisolto quanto disperato, Michael è predestinato; come lo era Ralph: la differenza tra loro e i romanzi è nella prospettiva da cui si osserva: antropologica in Un bacio e addio, politica ne Il sudario non ha tasche. L'America de Il sudario non ha tasche è potentemente antihollywoodiana, un affresco di malaffare, soperchierie piccole e grandi, provincialismo gretto, razzismo violento, complotti politici; un affresco che non trova alcun riscatto né nella storia personale del protagonista né nello scioglimento della vicenda; che non lascia alcuno spiraglio per il minimo riscatto. Se Hollywood ha mostrato tante volte la lotta - vittoriosa - dell'eroico giornalista, a volte vincente e altre nobilmente perdente, contro il Male, Mc Coy mostra un giornalista che ha ben poco di eroico o di nobile, ma che lotta eroicamente contro esseri umani ed organizzazioni che non sono il Male, ma più concretamente fanno del male, e tanto. L'eroicità e la nobiltà di questa battaglia non risiedono in sé, ma unicamente nella sua impossibilità di essere vinta. Michael, come Ralph, è un personaggio tanto forte da divorare gli altri, che a volte appaiono come aspetti della sua personalità stessa, negati o fortemente desiderati che siano. Non tentato qui da troppe analisi psicologiche, lo stile di Mc Coy si fa ancora più asciutto, preciso, implacabile nelle sue implicazioni descrittive, raffigurando un tessuto umano e sociale dove la pietà e la decenza non hanno cittadinanza.

Questa è dinamite

John Conroy, il protagonista di questo romanzo si distacca nettamente dal delinquente sociopatico Ralph Cotten di Un bacio e addio e da Micahel Dolan, il giornalista crociato e dannato di Il sudario non ha tasche. Non a caso il suo destino sarà diverso. Non che Conroy non sconti un prezzo agro e duro per la sua battaglia contro un potente Sistema criminale - il prezzo sarà anzi molto agro e molto duro - ma tuttavia ne uscirà vivo e vincente. Di estrazione sociale modesta, come l'eroe/antieroe del Sudario, diversamente da costui Conroy non soffre di alcun complesso di inferiorità che lo porti a desiderare una rivalsa nei confronti dell'ambiente grasso e corrotto con il quale entra in contatto; è un intellettuale, perfettamente conscio della propria statura, e che quando gli si offre l'opportunità di conformare la propria vita alle sue idee decide forse con un pizzico di incoscienza di afferrarla e andare fino in fondo costi quel che costi. Se per questo appare meno interessante degli altri due, è però vero che la sua scelta mette in moto una serie di eventi e personaggi che rendono la storia più densa delle altre due. I personaggi di contorno sono più definiti, meno sfuggenti; in poche battute acquisiscono personalità molto concrete e rifinite. Il padre di John, il capitano di polizia Mickey Conroy; il giudice Helen Waycross e sua figlia, che poi aiuterà e sposerà John; la madre di John; l'ex avvocato radiato dall'albo Cicero Smith: tutti costoro, e non solo, hanno una vividezza e si muovono sulla scena con naturalezza, concorrendo a creare una storia non soltanto avvincente e credibile, ma anche compiutamente corale.

L'azione si svolge in una grande città, che resta tuttavia anonima (New York? Los Angeles?), e il Nemico è una potente organizzazione mafiosa al cui vertice sta un villain di spessore: Nemo Crespi. Di spessore non perché Crespi sia un genio, è più un bestione istintivamente furbo e cauto, ma perché il ritratto criminale che Mc Coy fa di lui e della sua organizzazione, degli uomini che gli gravitano intorno, dai picciotti ai politici, giudici e poliziotti corrotti, è un ritratto che non ha bisogno di una penna intinta nei colori foschi per risultare fosco agli occhi del lettore. Mc Coy descrive e lascia osservare un'umanità brutale e degradata nell'animo; un'umanità senza orizzonti che non siano la sopraffazione, il denaro e il potere. Vediamo svolgersi la vicenda come avessimo l'occhio su una telecamera che ritrae i personaggi in azione. I loro pensieri ci arrivano immediati da quanto accade loro, da quanto si trovano a vivere.

La lotta tra Conroy e Crespi sarà senza esclusione di colpi, e lascerà morti e feriti sul terreno. Colpirà John nel modo forse peggiore per lui, ma il ritmo incalzante del romanzo non permette di approfondire troppo; eppure la frenesia che vediamo vivere a John fa sì che il lettore quasi non se ne accorga. Lo stile di Mc Coy resta secco, di un'eleganza e concisione perfette. Senza rinunciare mai a una qualità letteraria ricercata si adatta alla materia narrata.

Finale positivo, dunque? Sì, ma la quasi irrealtà del personaggio purissimo di John Conroy e la devastazione morale e non, disseminata lungo tutte le pagine del romanzo, appaiono come un monito: sì, forse può succedere; ma se anche succedesse potrebbe essere una volta soltanto. E i cocci restano a terra.

[fantascienza] I contemporanei – L’inquilino ozioso (Idle roomer - 2008) di Mike Resnick (n.1942) e Lezli Robyn (n.1982)


Chi è Mr.Valapoli? Alla fine del racconto non lo sapremo con certezza. La sua assenza immanente permea la storia di mistero e la soffonde della dolcezza con cui Maria, la protagonista invece ben presente, percepisce il fondo di malinconia e tristezza che ne caratterizza questa assenza pur così “parlante” per orecchie disposte a intendere, per un cuore in grado di provare umana solidarietà. Maria è una ragazza giovane, intelligente e sensibile ma di scarsa cultura, che rigoverna le stanze di una malmessa pensione, uno di quei luoghi dove la disperazione si declina nelle sue varie gradazioni e dove gli inquilini tendono a restare solo il breve tempo necessario per rimettersi in carreggiata o per precipitare ulteriormente; Mr.Valapoli è già rimasto per sedici mesi, praticamente è ormai stanziale: Maria non lo ha mai incontrato, sa solamente che egli è ordinatissimo, impeccabile nel tenere la sua stanzetta, le lascia sempre una mancia, è un lettore instancabile e pare vivere una vita infine bloccatasi da qualche parte per qualche motivo. Mancia a parte, i suoi unici segni di vita sono il continuo cambiare dei libri sul comodino e il suo continuo staccare la spina del telefono che continuamente Maria riattacca il giorno dopo. E una misteriosa statuetta che sembra cambiare incessantemente la sua forma. Sarà dunque un impulso di solidarietà, per questa situazione quasi di sospensione di un'esistenza dentro un limbo temporale e fisico, a spingere la giovane donna a lasciare un appunto scritto a Mr.Valapoli: poche parole di incoraggiamento. Al fondo, il senso del racconto è interamente racchiuso nella spontaneità di questo atto di partecipazione emotiva; di amore. Uno slancio istintivo a confortare le traversie di un altro, nelle prime pagine non vi è che questo, e a parte un vago sentore di mistero non si ravvisa coloritura fantastica o fantascientifica. Ma l’altro è sempre un alieno, un pianeta a noi ignoto e spesso incomprensibile anche quando la sua alienità non si riveli quella dell’abitante di altri mondi.

Con lo scorrere delle pagine e in seguito alla risposta di Mr.Valapoli al gesto di Maria scopriremo che l’abitatore della stanzuccia è davvero un abitante di un altro mondo, un reietto in fuga da nemici sconosciuti, il protagonista di una partita forse mortale giocata da attori la cui potenza ci sfugge ma che intuiamo grande, di certo superiore a quella di noi esseri umani incatenati al nostro pianeta.                                             
Il racconto funzionerebbe anche se Valapoli non fosse un “vero” alieno? Certamente sì. Ma questa sua qualità si aggiunge a una generica alterità, rafforzandola. Non nel senso che il lettore non sarebbe altrimenti in grado di cogliere il suggerimento ad avere fiducia nell’Altro e concedergli la propria, a ravvisare nell’altro un Alieno; ma nel senso che la tessitura propriamente fantascientifica impressa dagli autori infonde una particolare e specifica natura al rapporto che si instaura tra le azioni di Maria e le reazioni di Valapoli. Il ponte tra due alienità rappresentato da questo loro rapporto si arricchisce di significato nella direzione della profondità. La donna non incontrerà mai Valapoli, ma attraverso la statuina mutaforma, che in omaggio al classicissimo gadget fantascientifico si rivela un apparecchio per comunicare direttamente attraverso il pensiero, ella entra in effettivo contatto con lui. Attraverso i flash di una vita aliena non sempre comprensibile, attraverso la percezione dell’esistenza fuggiasca e nascosta, e del pericolo in cui versa Valapoli, Maria stabilirà, dalla sua posizione di oggettiva inferiorità, un definitivo vincolo di solidarietà e affetto con l’alieno, che da parte sua ricambia con sincerità. Chissà, forse è questo legame tra l’alieno sconosciuto e misterioso e la semplice ragazza a salvare la Terra da grossi guai: Resnick e Robyn restano sul vago riguardo ai nemici di Valapoli, che infine lo rintracciano e lo riportano via con sé. Cosa avrebbero potuto fare se questi invece di consegnarsi (per proteggere la ragazza e i suoi congeneri umani?) si fosse opposto? La domanda non è però così importante: L’inquilino ozioso non ci narra di un’invasione aliena scampata, ci offre semplicemente un’indicazione: non chiudiamoci all’Altro, chiunque egli – o esso – sia. Una linea tenue ma tenace nella storia della sf, che parte da nobili ascendenze in Leiber, Simak e Sturgeon, e che non stupisce vedere raccolta da un autore come Resnick, sempre attento nella sua narrativa ai riflessi squisitamente umani della fantascienza.

Il tono pacato del racconto è ben modulato sui momenti in cui la tensione della narrazione sale o si abbassa senza mai venir meno, e conferisce alla storia quel suo sapore raccolto, quasi di mestizia, che fa entrare il lettore visivamente nella squallida stanza di Valapoli, gli fa immaginare lo sguardo divertito e arguto di Rosa, l’anziana nonna di Maria, che modella il profilo psicologico di un esule, forse un disertore e della sua vita grama improvvisamente rischiarata da un inaspettato gesto di affetto. Poche pagine ma i ritratti fini dei personaggi si impongono.



Idle roomer è stato pubblicato in origine lo scorso anno sul n.26 della rivista Clarkesworld Magazine - sul cui sito è possibile leggerlo: http://clarkesworldmagazine.com/resnick_11_08/ - ed è stato appena proposto in italiano nell’antologia Pagine dal futuro pubblicata dalle Edizioni della Vigna, l’editore lombardo che nel breve periodo da che è sul mercato ha saputo caratterizzarsi per l’originalità delle sue proposte e la facilità con la quale si muove tra classici semidimenticati e autori recenti e recentissimi, tra autori italiani e di ogni altra parte del mondo. Il volume non sfugge assolutamente né a questa versatilità né tanto meno all’impronta di originalità: i racconti sono stati selezionati in base alle indicazioni e alle scelte dei frequentatori del sito di Uraniamania.



Mike Resnick e Lezli Robyn formano all’apparenza un’accoppiata alquanto improbabile, ma questo loro sodalizio sembra funzionare davvero bene. Il veterano statunitense è un recordman delle nominations ai principali premi fantascientifici, uno scrittore prodigiosamente prolifico da decenni ed è autore di alcuni veri e propri classici come Seven Views of Olduvai Gorge (che si può leggere anche online in inglese: http://subterraneanpress.com/index.php/magazine/summer-2008/fiction-seven-views-of-olduvai-gorge-by-mike-resnick/ ) e Kirinyaga; in Italia è pubblicato con discreta regolarità da ormai un quarto di secolo e si può dire goda di una notorietà abbastanza solida. Per contro, la giovane scrittrice australiana Lezli Robyn è alla sua prima storia tradotta in Italia.

mercoledì 16 dicembre 2009

Metalli senzienti e dintorni


Le Tre Leggi della Robotica


1) A robot may not injure a human being or, through inaction, allow a human being to come to harm.


2) A robot must obey any orders given to it by human beings, except where such orders would conflict with the First Law.


3) A robot must protect its own existence as long as such protection does not conflict with the First or Second Law.




Poche altre figure partorite dalla fantascienza – forse nessuna – hanno colpito la fantasia e modellato l’immaginario più di quella del robot, l’uomo metallico. Antecedenti di uomini meccanici, statue animate e quant’altro ve ne sono sin dall’epoca omerica, ma il robot nella sua incarnazione di moderna icona fantascientifica è recente e ha un’origine precisa: il dramma teatrale del 1920 R.U.R. (il titolo originale per esteso è Rossumovi Univerzální Roboti: Robot universali di Rossum) dello scrittore ceco Karel Čapek. Il termine venne probabilmente suggerito a Čapek da suo fratello Josef dalla parola ceca robota, lavoro pesante, servile. I robot nascono dunque come creature destinate a servire l’uomo con il proprio lavoro forzato. I robot di Čapek non sarebbero mai considerati tali ai nostri giorni, sono più quelli che noi chiameremmo androidi, o ancora meglio una sorta di organismi biologici artificialmente creati, ma cambia poco: l’idea del robot era nata e avrebbe avuto vita propria. L’idea di un doppio artificiale dell’uomo, di prova del suo potere di creare la vita, seppure così limitata, e di usarne per i proprii scopi. Un golem moderno, tecnologico, che del golem conserva l’ambiguità e la pericolosità. Infatti i robot del dramma si solleveranno contro l’umanità sterminandola e inaugurando in tal modo un cliché che sarebbe durato a lungo. Sul valore dell’opera in questione faccio affidamento sul Buon Dottore, Isaac Asimov, che la reputava illeggibile.



Da allora è passata acqua sotto i ponti, e tanta. Il robot come dicevo è entrato nell’immaginario collettivo e si è ramificato. Isaac Asimov ha ovviamente elaborato le celeberrime “Tre Leggi” riportate qui all’inizio del testo. Non più soltanto schiavo ribelle il robot è divenuto di volta in volta pienamente simbolo del doppio umano; minaccia incarnata della scienza disumana; prova della creatività dell’uomo; essere amputato di parte della propria umanità che aspira alla pienezza di essa (o, infuriato, la ripudia e la combatte); guida saggia dell’uomo o sua super tata (spesso con coloriture sinistre); essere superiore distaccato dai bisogni umani o parodia dei più bassi tra questi bisogni; giullare o filosofo dell’uomo. Sempre e comunque creatura in rapporto simbiotico con l’uomo.

Karel (a destra) e Josef Čapek


Sembrerebbe dunque che debba esservi gran copia di opere letterarie, cinematografiche e quant’altro sui robot. E’ certamente così, ma non quanto ci si aspetterebbe. Certo, di robot sono pieni libri e pellicole di fantascienza, ma spesso la loro funzione è quasi di soprammobili. Le opere che fanno del robot il loro centro speculativo, o comunque un elemento di rilievo sono in numero molto più esiguo. Limitandomi alla letteratura di fantascienza e tentando un ordine sistematico propongo di seguito un mio breve elenco di romanzi, che come per l’analoga lista incentrata sulla figura dell’alieno può essere intesa come una tra le diverse, possibili strade per inoltrarsi nell’argomento.




Chip di silicio ma non solo

I.A. Intelligenze artificiali. Che siano computer coscienti di sé, network di computer o reti neurali o altro ancora che abbiano sviluppato raziocinio e pensiero autonomi, le I.A. emanano l’idea del potere insito nelle capacità del pensiero. Possono governare astronavi, pianeti, e comunque dirigere la vita umana - come il Multivac protagonista di diversi racconti di Asimov, tra i quali Diritto di voto: http://olivavincenzo.blogspot.com/2009/01/fantascienza-il-classico-diritto-di.html - e possono sviluppare le nostre stesse psicosi, come lo Hal 9000 di 2001 Odissea nello spazio (1969) di Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke.


Simulacron 3 (Simulacron-3, 1964)

di

Daniel F. Galouye (1920-1976)

Questo romanzo non tratta propriamente di Intelligenze Artificiali, quanto dei presupposti stessi della coscienza e della conoscenza. Esplora il concetto di realtà e della sua (ri)conoscibilità. Cosa sia vero e cosa sia falso è dunque il nucleo concettuale che viene investigato all’interno di una realtà virtuale che mima la società umana in molti suoi aspetti (è quindi l’intera umanità quale corpo sociale a essere replicata in un doppio artificiale). Ma in un gioco di specchi la società mimata è ugualmente una realtà simulacrale e così il suo tessuto pare collassare su sé stesso. Qual è a questo punto, a livello di intelligenza, un sensato discrimine tra reale e artificiale, posto che abbia ancora senso tale discrimine? Galouye, uno degli autori meno noti ma più autenticamente visionari del campo ha fortunatamente goduto in anni recentissimi di una riscoperta sulle pagine di Urania e collane collegate.


Software – i nuovi robot (Software, 1982)

di

Rudy Rucker (n.1946)

Matematico e informatico oltre che saggista e acclamato autore di fantascienza, Rucker ha più di ogni altro contribuito a ridisegnare concettualmente il robot e l’I.A. negli ultimi decenni. I suoi bopper, robot, ma soprattutto le colossali derivate I.A. bopper, che hanno sviluppato un’autentica coscienza autonoma in seguito all’innesto nel loro software di un principio “evolutivo” di casualità, non a caso negano programmaticamente le tre leggi asimoviane, e sono al centro di vicende tra il thriller puro e il noir; e i grandi bopper ordiranno e falliranno un tentativo di assorbire non solo le menti umane ma anche quelle dei piccoli bopper. Ma nel frattempo, con semplicità e scioltezza, Rucker utilizzando un sapido registro satirico compie una serie di riflessioni estremamente acute sull’intelligenza artificiale, i confini tra umano e meccanico, le vie evolutive dell’umanità e dell’intelligenza. Il romanzo avrà tre seguiti, che amplieranno la riflessione di Rucker anche ad altre aree della conoscenza e della possibile storia futura dell’uomo.


L’intrigo Wetware (Vacuum flowers, 1987)

di

Michael Swanwick (n.1950)

La Terra intera è divenuta un wetware. Con tutti i suoi abitanti. Una gigantesca, unica rete neuronale organica che elabora, processa instancabilmente informazioni. Una rete globalizzata, che intende crescere ancora... Concettualmente, è questo il cuore dell’autentico e visionario tour de force mentale scritto da Swanwick che, qui come in altre sue opere, va oltre l’analisi delle tendenze future della tecnologia e della conoscenza per compiere delle riflessioni sulla dimensione etica dell’impatto dei mutamenti indotti dalle rivoluzioni ed evoluzioni tecnologiche.


Halo (id., 1991)

di

Tom Maddox (n.1945?)

Aleph è la macchina che esplora sé stessa. Giunta all’autocoscienza, l’I.A. di Maddox, protagonista principale del romanzo, non si accontenta e indaga le radici, i limiti e il significato di questa autoconsapevolezza. Cogito ergo sum non è sufficiente, l’intelligenza deve risalire alla propria identità in un percorso esistenziale di conoscenza. Maddox fu tra gli iniziatori del cyberpunk letterario, e in questo romanzo che come è classico per molte opere sue contemporanee contamina le atmosfere più prettamente fantascientifiche con le suggestioni del noir egli va al cuore dell’estetica cyberpunk. Sulla scia dei bopper ruckeriani il suo Aleph è la chiave per un indagine sulle prospettive dell’intelligenza artificiale e sul concetto di Sé e di Altro in campo cognitivo.



Manufatti d’acciaio e vari

L’immagine classica del robot è quella di un manufatto di metallo più o meno vagamente umanoide, sicuramente meccanico nell’aspetto. E’ questa la rappresentazione dell’uomo artificiale entrata nell’immaginario, veicolatavi soprattutto dal cinema. Metropolis (1926) di Fritz Lang per iniziare, Il Pianeta proibito (1956) di Fred Macleod Wilcox con il suo Robbie per continuare, e, giungendo a tempi più prossimi a noi i due film che hanno trasposto sullo schermo (e come, ahinoi, come…) L’uomo bicentenario E Io, Robot di Asimov. E’ questo il robot che può spaziare da buffo soprammobile (come in Star Wars) a simbolo flessibile: schiavo o guida, stolido doppio dell’uomo o maestro filosofo.


Gli Umanoidi (The Humanoids, 1949)

di

Jack Williamson (1908-2006)

Espansione del racconto del 1947 With folded hands, questo romanzo, oltre che uno dei migliori risultati di un autore che è stato in grado di essere produttivo e apprezzato in nove diversi decenni, è un brillante aggiornamento del cliché del robot che si ribella al suo creatore (aggiornando a sua volta il mito della creatura di Frankenstein). Certo nessun robot ribelle potrà mai essere genuinamente sinistro e pericoloso come i servizievoli Umanoidi, sempre pronti e solleciti a esaudire ogni bisogno dell’uomo, prevenirne ogni necessità, impedire che egli si metta in pericolo… se pensate che sia il Bengodi fatevene regalare uno. La nera parodia disvela una applicazione implicita davvero implacabile (e la più vera) del dettato delle Tre Leggi che Asimov era andato elaborando in quegli anni.



Io, Robot (I, Robot, 1950)

di

Isaac Asimov (1920-1992)

E’ il primo e il più celebre dei volumi che raccolgono i racconti dei robot che Asimov iniziò a scrivere al principio degli anni ’40. E’ qui che compaiono quelle Tre Leggi divenute il tratto distintivo per antonomasia dei robot. Qui appare il personaggio di Susan Calvin, riuscitissima e umanamente realistica figura (a dispetto di quanto dicesse lo stesso Asimov) di scienziato. I racconti robotici di Asimov operano su un doppio livello: ludicamente sono dei mirabili giochi logici dove l’autore si diverte a mettere in crisi le premesse razionali del suo universo roboticamente ordinato; per contro il robot asimoviano simbolizza la tecnologia e i suoi effetti sulla società e la psicologia umane, e in tutte le opere dello scrittore dove appaiono il conflitto generato dal progresso è sempre presente e operante, e spesso acutamente analizzato.


Anni senza fine (City, 1952)

di

Clifford D. Simak (1904-1988)

Scritti a partire dal 1944, più Epilogue risalente 1973, i racconti che compongono la storia futura di Anni senza fine (talvolta anche in Italia il ciclo è stato pubblicato sotto il titolo originale) costituiscono un’affascinante creazione mitica e una tessitura di simbologie che hanno la base nel sostrato umanistico del lavoro di Simak – e più che umanistico: solidaristico al di là dei generi e delle specie. Sullo sfondo della storia umana che attraversa le epoche e si trascolora in declino e fine dell’umanità, trapassando nell’alba della civiltà dei Cani e di quella delle Formiche, si staglia la figura di Jenkins. Il robot che nei tempi serve fedelmente – e guida - i suoi padroni umani Webster incarna forse la coscienza migliore dell’umanità e il lascito di saggezza (non a caso inumana…) a chi viene dopo.

Cyberiade (Cyberiada, 1965)

di

Stanisław Lem (1921-2006)

Trurl e Klapaucius, i Costruttori, sono i personaggi principali di questa raccolta di racconti di Lem. L’ironia affilata, l’estrapolazione filosofica, la riflessione sulla natura dell’uomo, la sua inesausta ricerca della felicità e altri dilemmi e questioni morali o epistemologiche sono invece gli strumenti e i temi che Lem utilizza in un caso e indaga nell’altro. Trurl e Klapaucius sono i due robot che si muovono in un mondo vagamente di aspetto medioevale, ma dove la tecnologia si esplica in una fantasmagoria di invenzione assurde. E i più fantasmagorici facitori/artefici sono Trurl e Klapaucius, ovviamente. Si perde ogni connotato robotico che non sia simbolico, e sulla “carne” metallica dei due Costruttori si cuciono gli abiti dell’umanità, con una sottigliezza metafisica che va al di là della semplice satira per costruire un apologo dell’uomo.



Acidi nucleici, più o meno

Come si diceva, in R.U.R. il robot nasce proprio come androide, creatura artificiale di aspetto umano. Nonostante questa primogenitura gli androidi danno l’impressione di essere più “moderni” di un semplice robot di metallo. A volte l’androide ha solo fattezze umane (come il Data di Star Trek: The Next Generation), altre volte si tratta di una creatura sì artificiale, ma creata su basi biologiche, per certi versi apparentabile a un clone. In ogni caso esso si presta a estremizzare le simbologie implicite nella figura dell’uomo artificiale: nostro doppio, nostro schiavo che ingiustamente sfruttiamo, ribelle contro l’autorità (paterna o politica che sia), fratello evoluto, mentore o ancora altro.


Il cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968)

di

Philip K. Dick (1928-1982)

Reso universalmente noto dalla sua trasposizione cinematografica nel Blade Runner diretto da Ridley Scott (1982), questo romanzo che è uno dei affascinanti e riusciti di Dick mette in scena alcuni dei temi a lui più cari: i confini dell’identità e della realtà, la creazione biologica artificiale, i problemi identitari della coscienza, i diritti dell’intelligenza autocosciente, il discrimine tra umanità e non umanità, la figura simulacrale. Nessuno meglio dei suoi androidi modello Nexus-6 si presta a questa indagine epistemologica/riflessione sulle diseguaglianze nella nostra società. Nella tangibile, corporea ambientazione di una Terra in disfacimento lo scrittore americano attraverso i dolenti personaggi dei suoi androidi pone con forza al centro della narrazione i risvolti etici e filosofici di esseri (umani) viventi trattati come cose e cacciati come animali.


Solo il mimo canta al limitare del bosco (Mockingbird, 1980)

di

Walter S. Tevis (1928-1984)

Tradotto spesso con il titolo Futuro in trance, Mockingbird è uno dei risultati più maturi dell’ottima attività letteraria di Tevis. Tra i personaggi principali del romanzo si erge la figura di Spofforth, l’androide immortale che desidera la morte. Vertice (con gli altri robot) della sapienza tecnologica di un’umanità immemore della storia, privata di slanci creativi e di ogni scintilla di vita, immersa in una beatitudine ebete garantita, Spofforth simboleggia in parte una proiezione di questa umanità, ma è difficile sfuggire alla suggestione di vedere nel desiderio di morte dell’androide quella pulsione distruttiva che lo stesso Tevis visse per l’alcoolismo. E tuttavia, pur incapace di provare quel sentimento d’amore che attraverso i due principali protagonisti umani del libro, Bentley e Mary Lou, pone le basi di un rinnovato futuro, Spofforth si dimostra il solo in grado di comprenderlo appieno.


I robot e l’Impero (Robots and Empire, 1985)

di

Isaac Asimov (1920-1992)

Non è certo il migliore tra i romanzi di Asimov e neppure tra quelli del ciclo robotico, protagonisti dei quali sono l’investigatore umano Elijah Baley e il suo “collega” androide R. Daneel Olivaw, poi rimasto solo dopo la morte del primo e assurto al ruolo di demiurgo della Storia Futura asimoviana. L’interesse del libro è dato però dal fatto che in esso è per la prima volta resa esplicita, da parte appunto di Daneel, l’implementazione delle proverbiali Tre Leggi con la formulazione della Legge Zero: A robot may not harm humanity, or, by inaction, allow humanity to come to harm. Come Jenkins o Spofforth, ma con logica asimoviana a dettare le differenze, è in base a questo enunciato che Daneel assume su di sé il compito di guida dell’umanità, a simbolizzare il primato del razionale.

Wetware, Gli uomini robot (Wetware, 1988)

di

Rudy Rucker (n.1946)

Con la consueta abilità affabulatoria e l’ironia mordace che lo caratterizza, in questo diretto seguito di Software Rudy Rucker rovescia il consolidato universo delle storie robotiche. I bopper, i suoi nuovi robot, creano i meatbop, esseri umani con del software innestato nel loro materiale genetico per vendicarsi di quanto avvenuto in precedenza. Da qui parte una girandola di avvenimenti che vede senza sosta umani, bopper e meatbop cercare di farsi vicendevolmente la forca con successo variabile. Muore (ri-muore, dopo essere stato roboticamente riportato in vita) Cobb Anderson, l’uomo che aveva creato i bopper autocoscienti grazie al software “evolutivo” che aveva inventato e innestato nei primi di loro. L’altro principale protagonista umano, Stahn (lo Stan Mooney/Sta-hi di Software) stermina i bopper, ma è proprio in lui che rivive il sogno di creare il wetware, la forma di “vita” che concretamente realizza il binomio software+biologia.