domenica 4 marzo 2012

I classici – Novecento nonne (Nine Hundred Grandmothers, 1966) di Raphael A. Lafferty (1914-2002)

Raphael Aloysius Lafferty è stato uno scrittore geniale. Iniziò a pubblicare la sua fantascienza irriverente e visionaria alla soglia dei cinquant’anni, nel pieno di quegli anni ’60 che videro la science-fiction mutare pelle sotto la spinta di autori nuovi quali Delany, Zelazny, Disch, Le Guin e lui stesso, e di autori già affermati o comunque attivi come Heinlein, Dick, Ballard, Sturgeon, Leiber e in seguito Brunner e Silverberg. Allargando in ogni direzione il proprio campo d’indagine sull’uomo e sul futuro dell’uomo. Di quegli anni, e in seguito, Lafferty fu protagonista con i suoi racconti incredibili per leggerezza e profondità. Pochi altri autori sono stati in grado di rendere giustizia e donare corpo quasi fisico, direi, a questo ossimoro. Tanto è perfino frivola la sua scrittura quanto è acuminata e velenosa nei contenuti al di sotto di quello stile scanzonato. Nine Hundred Grandmothers, il racconto del 1966 che dà il titolo all’antologia pubblicata nel 1970 e che presenta la sua migliore produzione dei primi anni di carriera, è un esempio perfetto della caleidoscopica prosa di Lafferty e del suo sguardo penetrante sulla vita e le strutture, stilemi e clichè della narrativa fantastica. E’, non meno, un piccolo saggio di psicologia e antropologia. Come del resto un altro racconto dell’antologia, quello che è stato preferito in sede di pubblicazione italiana per il titolo della raccolta: Associazione Genitori e Insegnanti, in origine Primary Education of the Camiroi, racconto ugualmente del 1966. Rispetto a quest’ultimo, Novecento nonne presenta occasionali slanci lirici e fuggevoli suggestioni orrorifiche che ne intarsiano il tessuto satirico rendendolo ancora più affascinante alla lettura e mantenendo un’ambigua tensione che si scioglie solo nel finale.
Edizione originale, cover di Leo e Diane Dillon

Il finale. Un finale che non può dirsi aperto, ma che in qualche modo lascia il lettore a bocca asciutta più di un finale aperto. Un finale concluso ma non conclusivo. Bruciante, per molti versi. Come essere stati sul punto di afferrare una bottiglia d’acqua al termine di una lunga camminata sotto il sole estivo battente e vederla svanire. Eppure, è un finale perfetto. Beffardo, in apparenza; ma in realtà spietatamente logico. Nel breve spazio di un racconto di una dozzina forse di pagine, Lafferty aveva già sottoposto al giudizio impietoso e spassionato del ridicolo tutta una serie di miti e stereotipi della fantascienza e della letteratura d’avventura – ma anche di tanta cultura e società americane (e non solo americane). Le Virtù Eroiche dell’Uomo Americano ne escono molto male. E anche peggio ne esce la realtà di quella vera e propria foia di dominio, conquista e rapina che ne costituisce il sostrato reale e la motivazione d’essere. Sul pianeta Proavitus (nomen omen) i terrestri sono venuti, come sempre, a cercare occasioni di arricchimento. A parte Ceran Swicegood, apparentemente. Ceran è convinto che sul pianeta troverà infine riposta alla Domanda Ultima: come è cominciato tutto? Ceran è un intellettuale, insomma, un filosofo: non si accontenta di meno che arrivare alla conoscenza suprema. Gli abitanti di Proavitus sembrano essere immortali. O così dicono loro. Così dice Nokoma, l’indigena con la quale Ceran ha contatti e che gli spiega che gli individui anziani si limitano a ridurre l’attività e vivere ritirati, per questo non li vede in giro. Nokoma racconta di avere novecento nonne (appunto…). Poche, in rapporto a famiglie ben più grandi e antiche della sua. Ceran non si accontenta delle parole di Nokoma, novello Tommaso deve toccare con mano la realtà di questa immortalità. Di questa antichità. Che se vera deve risalire alla notte dei tempi. All’inizio. A quando tutto cominciò. E’ il sogno della pietra filosofale. Ma non solo.

Apparentemente diverso dai rozzi compagni di spedizione il cui unico scopo è arricchirsi con le ricchezze del pianeta, l’intellettuale Ceran in realtà non si comporta diversamente da loro. Si introduce infatti di nascosto in casa di Nokoma per conoscere e interrogare le novecento nonne dell’aliena. Novecento volte novecento, in realtà. In una sorta di viaggio iniziatico demente e ansiogeno Ceran si inabisserà, partendo dall’abitazione di Nokoma, nelle viscere del pianeta. Alla ricerca progressiva degli individui sempre più anziani della popolazione: miriadi sterminate di minuscoli alieni. Gli alieni infatti sono sempre più piccoli, con l’età si rattrappiscono, si prosciugano. E sempre meno attivi e vigili. Sempre più arcaici, in un percorso di conoscenza a ritroso più che progressivo. Quel che Ceran scoprirà sul suo Quesito Ultimo una volta incontrato l’individuo più anziano del pianeta, la madre di tutti, è che forse non c’è proprio nulla da scoprire. Che la conoscenza è priva di senso, come lo stesso percorso che si compie per arrivarci. Non è insolito, benché appaia incongruo, che gli scrittori di fantascienza non siano teneri con la scienza e la conoscenza. Ma non è questa, secondo me, la lezione di Lafferty. Se mai vi è poi una lezione nel suo racconto e non invece il magistero molto più raffinato di un invito alla riflessione su noi stessi, i nostri desideri e aspirazioni. E quello che siamo disposti a fare per soddisfarli. Ceran arriva a minacciare gli anziani per avere una risposta, ma da loro otterrà solo risate, e forse scherno. E tutta la consapevolezza del suo processo mentale parossistico (Con voi scivolo da un grado all’altro e la mia credulità non ne è allarmata. Corro il rischio di credere, se verrà in piccole dosi, e così è.) non lo preserva dal suo compulsivo andare avanti, come un giocatore d’azzardo che non possa fermarsi mai, neppure dopo aver perduto tutto. E in un certo modo Ceran perderà tutto: senno, dignità, consapevolezza. Senza fermarsi. Perché anche Ceran è un uomo occidentale a ben vedere. Un uomo e basta, forse. Le modalità del suo prevaricare sono diverse dagli altri terrestri della spedizione sul suo suolo proavitese, eppure il suo desiderio di appropriazione è il medesimo: totalizzante, demente, incurante dell’Altro e della sua natura. Ciò che rende diverso questo racconto da altre storie che mostrano e satireggiano questi meccanismi è però la peculiarità tutta laffertiana di un linguaggio dove il moralismo non ha il minimo diritto di cittadinanza; e dove il non-sense e il surreale sono struttura integrante. Un racconto di Lafferty non si accontenta mai di essere ciò che sembra e di sembrare ciò che è. Va sempre oltre, moltiplicando i sensi e seducendo il lettore con un’eleganza letteraria inusuale e una sfrontatezza verbale da vero giullare.
Urania n.852 e 855 - cover di Karel Thole

La stagione creativa di Lafferty fu breve se rapportata alla lunghezza della sua vita. L’inizio tardo, e in seguito i problemi di salute occorsigli, l’hanno compressa in una ventina d’anni e poco più di grande produttività. Alcuni dei suoi romanzi sono giunti anche in Italia, ma è soprattutto nelle decine e decine di racconti brevi che si dispiega il suo spirito genuinamente iconoclasta. Lafferty andrebbe riscoperto ogni giorno.

Nine hundred grandmothers, l’antologia, è stata pubblicata in Italia in due fascicoli di Urania, il n.852, del quale il racconto eponimo è l’ultimo, e il n.855.