sabato 28 settembre 2013

Il classico – Cor Serpentis (id. 1959 – in russo Се́рдце Змеи́) di Ivan Antonovič Efremov (1908-1972)

Cor Serpentis è un vero classico, con tutti i crismi della classicità. È anche un’opera storica: nel senso di documento storico della sua epoca. Infine, è un reperto della geopolitica del XX secolo, e in particolare dell’età postbellica della Guerra Fredda.

La breve novella è una delle opere più note del suo autore, il paleontologo e scrittore russo Ivan Efremov che, se non il maggiore esponente, fu senza meno tra i nomi più importanti della letteratura di fantascienza sovietica che fiorì dopo la II Guerra Mondiale. Di quella vasta produzione, che fu sicuramente la più lontana dai canoni della sf angloamericana che ha “colonizzato” (ormai non solo) l’Occidente, dall’altra parte della Cortina di Ferro non giunse moltissimo. Ai patrii lidi italici approdò comunque una significativa scelta di testi, tra i quali nel tempo si segnalarono particolarmente i romanzi dei fratelli Arkadij e Boris Natanovič Strugackij, sia per il notevole livello del loro lavoro, sia, probabilmente, perché i due Strugackij si posero spesso, e sempre più col tempo, in posizione critica verso il sistema politico sovietico o quanto meno tutt’altro che prona, mostrando nella loro scrittura una visione critica e uno scetticismo vicini a quelli occidentali. Efremov fu invece fin quasi all’ultimo un convinto assertore dei valori di un socialismo umanitario, o forse di un umanesimo socialista, e la sua opera è attraversata da una fortissima tensione verso una pace universale e una fratellanza tra le genti, raggiungibile solo attraverso il compiersi di una rivoluzione socialista – una rivoluzione del pensiero e dello spirito umani, è bene precisare. Una rivoluzione del modo di essere degli uomini, il loro conformarsi a una visione solidaristica e progressiva dell’esistenza, ed evolutivamente progressiva della storia, in una prospettiva che si allarga all’infinito, senza limiti per questo Uomo Compiuto se non quelli intrinseci delle leggi della fisica e della chimica.  Un qualcosa che in Cor Serpentis si vede chiaramente. 

La Nebulosa di Andromeda - seconda edizione italiana
Come anche nell’opera più significativa di Efremov, il romanzo La Nebulosa di Andromeda. Pubblicato due anni prima di Cor Serpentis, a dispetto della relativa aridità dello stile e della narrazione è il racconto filosoficamente affascinante di un utopia socialista, e rilanciò la sf sovietica in virtù di un allargamento concettuale e visivo a tematiche sociali e a un futuro lontano nel tempo, lasciando (relativamente) in secondo piano quella rigida estrapolazione scientifica e tecnologica che fu un po’ il marchio della fantascienza d’oltrecortina (e che comunque Efremov tratta con l’abituale accuratezza). In Chas Byká, il suo ultimo romanzo pubblicato in vita, e rapidamente ritirato dal commercio dalle autorità, Efremov tornò all’universo narrativo de La Nebulosa di Andromeda, ma questa volta con toni e riflessioni lontane dalla fiducia che aveva caratterizzato la sua passata produzione.

Prima edizione italiana della novella: 1963, Galassia n.26
Cor Serpentis è un autentico classico in primo luogo perché appartiene al genere che più di ogni altro identifica la fantascienza nella storia della letteratura e dell’immaginario: la Space-Opera. E al suo interno consuma un altro dei topoi assolutamente fondamentali e identificativi della sf: l’incontro con l’Alieno. Un primo contatto, per di più. Senza ridursi a fare un trattatello scientifico o peggio pseudoscientifico, Efremov cura con grande attenzione i dettagli scientifici e tecnologici del racconto, che non risultano semplici accessori ma sono una cornice che dà senso al quadro narrativo ed elementi dinamici di essa, fondamentali per dare il tono all’ambientazione filosofica della narrazione. Ad appesantire quest’ultima sono se mai gli incisi più prettamente speculativi, sociologici e didascalici (o propagandistici tout court), che spesso sfociano in vera e propria ingenuità o utopismo illusorio. A riscattare questi passaggi a vuoto sono gli occasionali squarci lirici che riescono a imporsi all’attenzione del lettore a onta della traduzione da cani e della cura editoriale perfino più approssimativa della traduzione. È attraverso tali intarsi, di un lirismo appassionato e naif, che trapela la natura profondamente romantica dell’ispirazione utopistica di Efremov: quando i suoi controllatissimi personaggi dismettono per un attimo la loro attitudine, degna di manichini robotici, di perfetti esempi di Uomo Evoluto e Compiuto, in essi si legge in filigrana qualcosa di più e di meglio del pensiero di un convinto uomo di apparato: si vede un sognatore. Un sognatore forse ingenuo come i personaggi a cui dà vita, ma sincero. E sicuramente visionario, un ardito che ha spinto la sua immaginazione non tanto nelle pieghe dello spazio e del tempo, quanto dell’uomo. Un utopista, certo, e probabilmente un illuso che riponeva troppe speranze nelle potenzialità umane di sviluppare una coscienza solidaristica; tuttavia questi nostri tempi in cui assistiamo, quanto meno in Occidente, a una vera e propria morte dell’Utopia e dei suoi sogni, ci mostrano come l’Utopia sia la linfa vitale dell’elaborazione e della progettazione politica, sociale, filosofica.

Chas Byká, inedito in Italia
È difficile immaginare Cor Serpentis scritto in un’epoca storica diversa da quella in cui fu effettivamente scritto. La (relativa) rinascita del sogno socialista seguita alla denuncia della politica staliniana da parte del nuovo leader sovietico Nikita Chruščёv inquadra la novella come una lettura utopistica di quella rinnovata speranza che si originò dal voltare pagina operato dal politico ucraino. E diventa facile pensare che la restaurazione attuata in seguito dal cupo ordine brezneviano condurrà le speranze e la visione gioiosa, l’aspettativa di un felice futuro di pace coltivata nella novella a mutarsi nella visione critica del romanzo Chas Byká, che è del 1968. Cor Serpentis è innegabilmente un’opera che contiene un intento propagandistico e didascalico, ma è ben lungi dal ridursi a questo. Nella scrittura il linguaggio e l’animo di Efremov si mostrano primariamente gioiosi. Il desiderio di un futuro di pace e di amore per la conoscenza è palpabile nella sua sincerità, così come la convinzione che questo possa avvenire solo con il compiersi del comunismo.
L'autore poco più che ventenne
A questa genuinità di pensiero va concessa l’ingenuità delle estreme semplificazioni psicologiche, sociali e di proiezione storica che Efremov compie. Gli uomini e le donne partiti dalla Terra per esplorare le profondità spaziali alla ricerca di conoscenza, e con la speranza di incontrare altre razze intelligenti, sono vuoti nella perfezione delle loro coscienze, nella purezza della loro anima, nella completa equanimità della loro morale. E così dal momento che Efremov è comunque troppo un buon scrittore per appiattire del tutto i personaggi senza conferire loro dei guizzi di emozione e vitalità, umana e narrativa, tuttavia i dubbi sollevati da Kari Ram o le velate suggestioni erotiche innescate da Afra Devy - come anche l’ironia e le apparenti malinconie del comandante Muta Ang oppure ancora la timidezza di Tei Eron – appaiono ulteriori dettagli atti a mostrare una più ampia e meno superficiale perfezione umana ma non il suggerimento di un dubbio dell’autore o di uno scavo psicologico fine alla descrizione di un essere umano oltre al personaggio funzionale. L’equipaggio dell’astronave Tellur è composto di uomini e donne di nuovo tipo, che possono avere occasionali e fugaci manifestazioni di un modo di pensare arcaico (come Kari Ram), ma che in realtà li hanno solo in funzione di offrire all’autore il modo di confutarlo. E del tutto speculari agli astronauti terrestri sono quelli dell’astronave aliena, gli umanoidi che respirano fluoro e con i quali non può esservi pertanto interazione fisica, ma con i quali ci si intenderà perfettamente nella cornice di una fratellanza universale tra specie senzienti che è l’approdo finale dell’utopismo universale di Efremov, del suo umanesimo socialista.

Incontro su Tuscarora, Galassia 33
Una delle poche opere di Efremov
apparse in Italia
Cor Serpentis è un prodotto della sua epoca anche in quanto prodotto della Guerra Fredda. È infatti noto come la novella di Efremov sia una risposta, se non polemica certamente in antagonismo dialettico, al racconto di Murray Leinster First Contact pubblicato nel 1945. Il racconto leinsteriano, esplicitamente richiamato da Efremov nel suo, è una delle migliori narrazioni sul primo incontro tra la specie umana e gli alieni ed è tra le cose più belle di Leinster, uno dei pionieri della fantascienza americana delle riviste. In First Contact, sebbene la conclusione possa comunque dirsi positiva e ottimistica, l’evento del primo incontro della specie umana con una razza aliena è senza dubbio dominato dalla paranoia, dal sospetto e dalla sfiducia reciproci, e lo spettro della guerra è presente e reale. In contrasto con la visione da Guerra Fredda di Leinster, Efremov vorrà sostenere che la paranoia e il sospetto non potranno più appartenere a un’umanità approdata, attraverso la logica dialettica del socialismo, a una maturità spirituale consapevole dell’appartenenza dell’individuo e degli individui a una specie in pacifico e fiorente divenire, storico e biologico. Una maturità che dovrà necessariamente appartenere a ogni eventuale specie senziente dell’universo passata necessariamente attraverso le stesse esperienze politiche e sociali dell’Uomo della Terra. Una visione che forse ripone davvero troppa fiducia nella ragione umana, ma che tuttavia è grandiosamente visionaria nel senso in cui dovrebbe sempre esserlo la narrativa fantascientifica, volta all’esplorazione dei limiti umani e alla proposta dei sogni indispensabili a nutrire la progettualità del futuro. Una visione che forse è bene leggere come complementare e non oppositiva a quella fornita in precedenza da Leinster.


La prima edizione italiana di Cor Serpentis apparve nel 1963 sul fascicolo n.26 di Galassia prima veste grafica, con il titolo Il Cuore del Serpente. La seconda e a tutt’oggi ultima ristampa per quanto mi risulti, avvenne quattro anni più tardi in La Formula Impossibile, quinto volume della collana Fantascienza Sovietica, con il titolo di Cor Serpentis. Il volume presentava, come quasi tutti i fascicoli della collana, un’antologia di racconti, tra i quali abbastanza sorprendentemente non è stata privilegiata la novella di Efremov per la scelta del titolo, scelta che è invece caduta sulla più breve novella di Evgenij L’vovič Vojskunskij e Isaj Borisovič Lukod’janov. Nell’indice del volume l’autore è indicato come I. Epremov, mentre nel corpo del volume, alla pagina di presentazione della novella, esso figura come I. Efremov. Tanto per sottolineare che se la traduzione era pessima, la cura editoriale era anche più fatiscente.   

domenica 22 settembre 2013

Intersezioni – Il giorno rubato (2013) di Marco De Franchi (n.1962)

Una storia di intersezioni: questo è Il giorno rubato. In primo luogo a intersecarsi sono i principali registri narrativi: realistico, fantascientifico, fantastico puro. Sebbene in nessun modo il romanzo possa essere fatto rientrare nella letteratura realistica, tuttavia il linguaggio di De Franchi e il suo modo di raccontare hanno un forte sapore realistico che per molti versi amplifica l’effetto delle vicende narrate sul lettore e imprime alla narrazione una corposa tridimensionalità emotiva. L’irruzione dello stupefacente, del soprannaturale e dell’inimmaginabile risultano ancora più stranianti nell’economia di una storia che l’autore pare spesso narrare come se dovesse ricondurla, anche a forza, entro i confini della ragione. Una dissonanza ricercata, sicuramente, per sollecitare continuamente il lettore; e puntualmente trovata. Se il romanzo va ascritto sicuramente più al fantastico puro che ad altro, non è meno vero che anche un purista della fantascienza può rubricarlo tra la fantascienza più ibridata, una fantascienza lovecraftiana principalmente, e tra quegli universi narrativi, ibridi appunto, che rimandano a Lord Dunsany o ad Arthur Machen. Fantascientifico, del resto, è anche il “gadget” al centro del libro – o meglio il punto di partenza della vicenda, il fenomeno che ritorna ossessivamente e che ossessivamente arriva a permeare l’esistenza di Valerio Malerba, il protagonista del romanzo, e degli altri personaggi principali. Il giorno rubato, appunto. Quel 13 marzo del 2007 che risulta scomparso dalla sequenza temporale degli eventi. Nessuno (o quasi, come si vedrà) ha memoria della giornata; niente è accaduto e registrato quel giorno; non esistono giornali del 13 marzo 2007, pagine di internet, eventi di cui vi sia traccia. Nulla di nulla. Si scoprirà poi che quel 13 marzo è ben lungi dall’essere il solo giorno della storia umana scomparso a quel modo. Un assunto dickiano: come ricca di suggestioni dickiane è la trama più genuinamente fantascientifica del romanzo, e un sapore dickiano ha anche la conclusione del libro, forse meno aperta di quanto sembri a prima vista. Dickiano è anche il frequente intersecarsi dei piani spaziali e temporali, lo sfibrarsi e sfilacciarsi del tessuto della realtà. Realtà che spesso si confonde in una sequenza di eventi illogici, o meglio governati da una logica che appare altra. Una fortissima eco fantascientifica proviene senza dubbio da un romanzo oggi probabilmente dimenticato dai più, ma che resta tra le opere migliori della fantascienza degli anni ’30, oltre che uno splendido esempio di ibrido perfettamente riuscito – in questo caso tra un registro stilistico dalle profonde venature orrorifiche e una solida vicenda di fantascienza; una commistione che il romanzo di De Franchi fa virare con convinzione più verso il lato dell’orrore: un orrore metafisico e ancestrale, nato in territori oltre la ragione e la natura conoscibile e originatosi nei tempi nei quali andava plasmandosi la simbologia archetipica dell’umanità. Il romanzo in questione è Schiavi degli Invisibili (Sinister Barrier) di Eric Frank Russell, del 1939. Ne si rinviene la tramatura nell’esplicito richiamo che De Franchi fa a Charles Fort, principale fonte di ispirazione del romanzo russelliano; e ne si osserva l’altrettanto esplicito richiamo dato dalle analogie che possono ravvisarsi tra i Vitoni dell’autore britannico e i Cancellatori dell’italiano.  La ricerca delle fonti e, ancor di più, la ricostruzione della genealogia letteraria di un’opera naturalmente non ha alcun senso in sé, se non un’utilità merceologica per i commessi delle librerie al fine di compiere quello sfregio che è la ripartizione bovinamente eseguita per generi sugli scaffali. Ha invece senso nel tentativo di risalire le correnti letterarie, emotive, artistiche, psicologiche che portano alla scrittura dell’opera. Ha senso nel circostanziare la lettura e l’interpretazione dell’opera. Il reciproco relazionarsi dei registri narrativi, l’intersezione e la compresenza di horror, fantascienza e territori di un fantastico più libero, è reso esplicito dall’autore stesso. A pagina 182, attraverso le considerazioni che il suo protagonista fa su quelli che nel libro sono definiti Cancellatori oppure Mater Matuta, dà in un certo senso un’interpretazione autentica della cosa: Però, energie o creature divine che siano, pare che anche “loro” debbano rispettare una qualche legge fisica: non forse della fisica che noi conosciamo, ma certamente di una natura che ha regole e confini. Almeno io lo spero.  

La più recente edizione del capolavoro di Eric Frank Russell
Ne Il giorno rubato osserviamo perciò l’intersecarsi delle due polarità narrative e psicologiche del razionale e del fantastico, e l’irruzione di quella polarità che di suo è già un punto di intersezione tra la ragione e l’immaginazione: il mito. Pullula di archetipi mitici il racconto di De Franchi. Alcuni più espliciti: la Mater Matuta che si incontra in tutto il romanzo, con contorni mai completamenti definiti e continuamente sovrapposti con quelli di altri, anche di moderna matrice letteraria come i Grandi Antichi lovecraftiani; la realtà frutto del gioco crudele di divinità o entità crudeli e malevole, o semplicemente beffarde e insensibili, gli infiniti dei o demoni burloni; l’eterno tema del doppio, della copia malevola di noi stessi, uno degli strumenti psicologici che da sempre l’uomo utilizza per esternalizzare il male, deresponsabilizzarsi attraverso l’individuazione di un soggetto altro da sé come agente del male che egli fa, e dare sfogo al sostrato paranoico della mente: qui lo troviamo nel continuo e ansiogeno manifestarsi di ambigue e spesso indecifrabili copie dei personaggi del libro. Altri archetipi appaiono meno evidenti, o meglio meno posti in evidenza dall’autore. Principalmente il ciclo nascita-morte-rinascita di cui tutto il romanzo pare comporre un’allegoria. La Roma moderna che fa da sfondo principale a Il giorno rubato, e a cui a volte la penna di De Franchi consente di sottrarre la scena al racconto, è una città dove si intersecano – ancora – tutti i suoi piani storici, protostorici e preistorici. È una città la cui moderna apparenza cela il persistere di culti millenari reminiscenti delle radici preistoriche e reali di entità che paiono vivere e operare in intersezioni tra vari piani di realtà, tra vari piani spaziali e temporali. Mater Matuta, il nome dell’antica divinità romana, una delle innumerevoli incarnazioni della Grande Madre, è quello che identifica il complesso di tali entità, forse forme di energia che dalla notte dei tempi governano l’umanità come una loro mandria; un nome buono come un altro, afferma uno dei personaggi nel parlarne con Valerio Malerba. Eppure forse non è un nome come un altro.
Il romanzo è il secondo volume della collana Fantastico Italiano

Né il mitologema della Grande Madre – la Dea - né lo specifico mito di Mater Matuta paiono scelti a caso. La Dea non è, o quanto meno non è soltanto, una divinità benevola. La Dea rappresenta il femminile - la natura - in tutte le sue declinazioni: è generatrice, ma anche distruttrice; incuba la vita e la dà alla luce, ma divora anche, come paiono letteralmente fare i Cancellatori del romanzo. Lasciando stare la sua tarda identificazione con la greca Leucotea, Mater Matuta è una divinità dell’aurora – dunque della nascita – e in seguito del parto, nascita e rinascita della vita. Ma tra i suoi attributi, oltre la colomba, simbolo di inizio, vi è anche il melograno, l’ultimo frutto a maturare, annuncio del letargo/morte invernale ma ricco di semi: simbolo di morte e rinascita. Il ciclo continuo della vita naturale: nascita, morte e rinascita attraverso il seme.

Splendida statua della Mater Matuta, VI secolo a.C.
L’intera vicenda vissuta da Valerio assume le sembianze di un viaggio iniziatico e di conoscenza, ma anche di un ciclo vitale che si ripete. A cerchi concentrici. E con Valerio – attraverso Valerio – è tutta l’umanità ad affrontare il viaggio e il ciclo. All’inizio del libro Valerio “nasce” e contemporaneamente “muore” e “rinasce”. “Muore” in un piano di consapevolezza per “rinascere” in un altro, a partire dalla prima “morte”, che in perfetta contraddizione con il principio di causa/effetto precede la prima “nascita”. Quasi muore, Valerio, per un infarto, vero o presunto che sia; e rinasce a una nuova serie di eventi, una nuova realtà. Nasce, muore e rinasce continuamente la sequenza temporale, l’esistenza umana, ogni volta che Mater Matuta interviene a operare una di quelle sospensioni temporali durante le quali le leggi fisiche note all’uomo sono sospese, per motivi che restano ignoti: quegli innumerevoli giorni rubati.

Poi interviene qualcosa a spezzare la continuità continuamente fratta del ciclo; o forse a creare una discontinuità maggiore e instaurare una ciclicità fondata su nuove basi, quanto meno libera dalla predazione parassitaria di Mater Matuta. L’evento nucleare, che simbolicamente avviene in concomitanza con l’ultima “morte/rinascita” di Valerio, è l’inatteso accadimento che spariglia il misterioso ordine delle cose imposto da Mater Matuta. Le energie sono potenti, ma appunto non onnipotenti. Né onniscienti. Non si aspettano che gli uomini, nella loro follia, diano inizio a una guerra globale che certamente farà precipitare i sopravvissuti eventuali in un inverno nucleare. L’inatteso evento lascia attonita Mater Matuta e in qualche modo impedisce il compimento del previsto ed ennesimo spasmo temporale, l’ennesima ripartenza dopo la fine. L’umanità, inconsapevolmente, si è liberata della catena dei Cancellatori/Mater Matuta spezzando violentemente uno degli anelli. A quale prezzo non è dato saperlo. L’evento nucleare è una morte, ma per coloro che in qualche modo sopravvivranno sarà una rinascita. E sarà la nascita di un nuovo ordine, di un nuovo rapporto con la natura. Forse l’instaurarsi di una nuova ciclicità su nuove basi, forse la perpetuazione di un ciclo maggiore composto di cicli minori come quello appena interrotto.

Venere di Willendorf, XXII millennio a.C., forse raffigura una proto Grande Madre 
Tale materiale, questa ricca congerie di suggestioni e rimandi, classici, letterari, mitici, sarebbe solo un magma, confuso benché affascinante, se non vi fosse a dare forma compiuta al tutto la scrittura di De Franchi. Il ritmo incalzante della vicenda, che spesso si fa a tal punto frenetico da lasciare il lettore disorientato, quasi senza fiato. La sua capacità di trascinare dentro la storia narrata, di far appassionare al destino dei suoi protagonisti, individui del tutto comuni e anonimi, in fondo; ma che proprio per questo si avvicinano alla nostra sensibilità fino a toccarci: potrebbero essere i nostri cari; potremmo essere noi stessi. C’è l’indubbio mestiere descrittivo di De Franchi, che si dispiega sia nell’uso di un linguaggio che sa suscitare al momento giusto il raccapriccio, l’orrore, l’empatia, lo stupore; sia nell’abilità di traslare con apparente facilità gli scenari urbani e agresti da una dimensione banalmente quotidiana all’orrore dell’ignoto. Un mestiere solido e consapevole, la ricchezza inventiva del narratore vero unita alla disciplina di uno scrittore serio. C’è un’anima dietro questa storia, qualcuno non interessato a stupire tanto per, ma intenzionato a suscitare un coinvolgimento non epidermico nel lettore, a lasciargli l’impressione di aver effettuato un viaggio nei territori dove nasce l’immaginario. E che ci riesce, per di più con un libro che, dall’inizio alla fine, può essere letto anche solo come una pura avventura, come una lettura puramente e pienamente divertente.


Confesso che prima de Il giorno rubato non conoscevo Marco De Franchi; scopro che ha una lunga carriera alle sue spalle (e spero molto più lunga davanti a sé); una carriera frastagliata, interrotta e poi ripresa, e che solo con questo romanzo viene a riaccostarsi a quei territori del fantastico nei quali aveva inizialmente pascolato. Spero siano i territori nei quali resterà acquartierato.    

domenica 8 settembre 2013

Il classico – Resurrezione (The Monster - 1948) di Alfred E. van Vogt (1912-2000)



Gli itinerari che ci conducono a una lettura possono essere i più vari. Così Makkox: A. E. Van Vogt sfornava merda a rullo di rotativa, me lo ritrovavo sempre tra i coglioni, era una settimana sprecata l’urania di van vogt, ma insomma, ero ragazzino, non selezionavo molto, il mio tempo era infinito, mi mangiavo anche a. e. van vogt, scuotendo la testa, sputando i semi.  Lui ci metteva un sacco di mostri coi tentacoli e astronavi e cagate di cartapesta indigeribili così, nelle sue storie. Si può leggere tutto qui: http://makkox.it/2013/06/25/dopo-matheson/.  Makkox è un autore di fumetti che mi piace molto, le sue strisce raccontano con profonda e acuta visione analitica di quella geografia umana truffaldina e marcescente che è l’Italia di oggi, e di quel suo abitante antropologicamente deficitario che è l’Italiano di oggi (ma più probabilmente l’Italiano di sempre, che è colui che ha partorito, educato, conformato l’esemplare odierno). Però rientra tranquillamente nel ventaglio delle realtà possibili il fatto che Makkox, di fantascienza, non capisca una mazza. Come di fatto dimostrano le sue parole. Neppure a me è mai particolarmente piaciuto l’autore canadese; è tuttavia deprimente che si sia ancora così spesso fermi a quella visione tanto angusta, quel Cosmic Jerrybuilder (costruttore di scadenti trame cosmiche) con cui Damon Knight bollò van Vogt quasi settant’anni fa. L’anatema knightiano perseguitò a lungo van Vogt che, per riceverlo a sua volta, dovette attendere che allo stesso Knight venisse conferito prima di lui il massimo riconoscimento della carriera di un autore di fantascienza: il Grand Master Nebula Award, assegnato - solo dal 2003 con cadenza necessariamente annuale - dall’associazione degli scrittori americani di fantascienza e fantasy, la SFFWA (oggi Damon Knight Memorial Grand Master Award, per onorare in Knight il fondatore dell’associazione). Knight ricevette il titolo nel 1994; van Vogt nel 1995: a spanne, con un quindicennio di ritardo, e quando l’Alzheimer stava ormai aggredendo quella sua mente con la quale aveva sempre voluto indagare, narrare, ma più di ogni altra cosa sognare la complessità più misteriosa e impervia della realtà cosmica e di quella umana. Così Makkox mi ha stimolato a rileggere The Rull, uno di quei capolavori vanvogtiani con alieni cattivissimi e mostruosi e una guerra senza quartiere per il futuro dell’umanità, e oggi addirittura The Monster, un racconto programmatico sin dal titolo, dove ci sono appunto mostri tentacolati, astronavi potentissime e cagate di cartapesta indigeribili, per citare di nuovo il Nostro. A parte il fatto che il “Monster” del titolo non è alcuno dei tizi tentacolati ma è un qualcuno che, intuitivamente, è un essere umano del futuro.   

The Monster approda su Urania, nel fascicolo 1134 del 1990.
Quel Cosmic Jerrybuilder (e la sua ancor più colorita trasposizione makkoxiana) è deprimente non perché non sia vero – lo è: le trame di van Vogt sono per solito raffazzonate, confuse, caotiche e incoerenti, e la plausibilità in quello che scrive è generalmente assente. Anche se a volte ERA assente - al suo tempo – ma oggi può adombrare l’idea di un uomo la cui immaginazione (sbrigliata e libera ancorché confusa, caotica ecc.) fosse molto avanti: nella sua introduzione a Destinazione Universo, una delle moltissime antologie che hanno ospitato The monster, Sandro Pergameno scrive: Un altro punto fondamentale dei «contenuti» delle storie del Nostro sono le sue «mitologie scientifiche», cioè le scienze da lui create di volta in volta. Spesso van Vogt si rifà a teorie già esposte da alcuni pensatori e scienziati del nostro tempo, interpretandole tuttavia in maniera estremamente personale. Abbiamo così (…) e la de-differenziazione e totipotenza delle cellule del corpo umano che permette le imprese più pazzesche al protagonista di The beast. Noi viviamo oggi un tempo in cui si studiano le cellule staminali e si creano artificialmente cellule staminali pluripotenti, un tempo nel quale quella totipotenza ricordata da Pergameno verrebbe tranquillamente utilizzata da un Robert A. Heinlein redivivo più che da un van Vogt di nuovo tra noi: quell’Heinlein che correttamente Alexei Panshin, riportato qualche frase prima da Pergameno, definisce “antipodo” dell’autore canadese (sottinteso: il campione della fantascienza “razionale” contro quella “irrazionale” di AEvV).

Quel Cosmic Jerrybuilder è deprimente perché è così desolatamente superficiale.

1979: in Destinazione Universo per la Cosmo Oro della Nord.
Non è tanto e non è solo quanto affermava Philip K. Dick, che dello scrittore originario del Manitoba era un estimatore, e cioè che diversamente dagli autori più “razionali” di lui (massime, senza dubbio, il già citato Heinlein e Isaac Asimov) le trame sconclusionate e anarcoidi di van Vogt erano più vicine a rappresentare la vera realtà. Anche qui, naturalmente, si dovrebbe più correttamente parlare di percezione immediata della realtà: è a questa che è così maledettamente simile a volte la prosa vanvogtiana. La fascinazione di Dick per van Vogt appare naturale in questo senso, e non v’è dubbio che la sensazione di spaesamento che lasciano certe pagine di van Vogt sia la stessa che possiamo avere messi di fronte a certi accadimenti della vita. Ma non è soltanto questo. E neppure è solo quello che dice James Gunn, ancora una volta citato da Pergameno: Le storie di van Vogt non tentavano di presentare un ritratto razionale del mondo né di fare una consistente previsione scientifica del progresso futuro; esse trattavano i temi della fantascienza come se fossero stati temi favolistici. Non è soltanto la costruzione di un edificio mitologico, a un tempo modernissimo nel luccicare di astronavi tanto avveniristiche da apparire da subito impossibili e contemporaneamente così antico, eterno, nel risvegliare i demoni ancestrali della specie umana (e basti l’esempio di Coeurl, il “Distruttore Nero” del primo racconto di AEvV.

Poi ristampato nel 1995.
Oltre a quanto sopra vi è, sovrastante e sottostante mi viene da dire, la descrizione di un universo paranoide nel quale la paranoia umana trova linfa e legittima collocazione. A dispetto di quanto ancora affermava Knight, che le psicologie dei personaggi di van Vogt fossero di cartapesta (e ancora una volta è verissimo, in senso superficiale), è come se l’opera vanvogtiana fosse incentrata su quello specchio, deformante ma anche raffinatissimo, che è l’abito paranoico che attraversa la storia umana e che ritroviamo nelle grandi figure superomistiche della storia, nella propensione culturale alla guerra che interessa infinite culture umane, nelle strutture del potere interno di quelle stesse culture; che vediamo benissimo in atto ai nostri giorni: viviamo in società di cui non è difficile intravedere il collasso futuro causato dai costi – economici, umani, morali – delle strutture di potere edificate sulla paranoia. È tutto questo che Alfred van Vogt proietta nel futuro e negli altrove descritti nelle sue opere. Ma del resto, è la stessa psicologia di van Vogt che troviamo trasposta nella sua opera, permearla completamente. L’uomo che per oltre un decennio rimase intrappolato tra le maglie di un’organizzazione (mentale in primo luogo) paranoica come poche altre quale era la Dianetica dello stregone Hubbard, poi evolutasi nella Scientologia, è un uomo che vive un’ossessione per l’ordine interno e il controllo della propria mente, è una personalità infantile, paranoide, affascinata dal messianismo e dal superomismo. La sua intera opera è un diario intimo delle sue ossessioni, una poderosa proiezione all’esterno di un mondo fantastico e fantasticato interiore così sovrabbondante da tradursi in un elenco rigoglioso di romanzi e racconti, uno più improbabile dell’altro, e in genere uno la ripetizione (psicologica) dell’altro. I suoi personaggi hanno una psicologia di cartapesta perché essi, come anche ogni fenomeno e concetto delle sue opere, non sono altro che aspetti della sua psicologia, ed è il complesso della sua opera a manifestare la profondità psicologica: del proprio autore. Alfred E. van Vogt ha sempre raccontato se stesso e la sua psicologia estremamente complicata e liminare, e attraverso se stesso ha raccontato il disagio paranoico che percorre la storia umana.

Come Dalla cenere risorgerai, in appendice a Harrison nel 1962.
Per dare un’ultima volta torto a Damon Knight, non è che van Vogt fosse incapace di visualizzare una scena (e per l’ennesima volta questo è vero, a livello superficiale). È che lo scrittore canadese non scriveva per far visualizzare una scena al lettore (probabilmente non avrebbe davvero saputo come fare) ma per stimolare in lui sensi meno razionali. La prosa di van Vogt non è descrittiva, è evocativa. È indirizzata all’inconscio, non alla parte razionale della mente del lettore; e dell’inconscio va a sollecitare le paure infantili, stratificatesi negli anni quando la coscienza era appena in formazione o anche prima. L’indeterminatezza, la confusione, la non linearità sono tutte vettori privilegiati di questo movimento dalla pagina dello scrittore alla psiche del lettore. Sono quanto trasformano un autore obiettivamente non tra i più letterariamente dotati in un narratore eccezionale.

Un giovane AEvV
Sin qui non ho ancora parlato di The monster, il racconto di cui questa vorrebbe essere una recensione. In realtà l’ho fatto, perché questo è un racconto così tipicamente vanvogtiano, sin dal titolo come dicevo più sopra, che quanto detto lo descrive già perfettamente. La trama e i contenuti specifici del racconto, come spesso è per le opere di AEvV non sono poi così importanti – non rispetto al colore delle pagine, alle sensazioni che esse evocano. Dei mostri tentacolati, membri di una razza aliena molto potente – e molto cattiva - giungono su un pianeta completamente morto, intuitivamente la nostra Terra. Resuscitano in sequenza alcuni degli abitanti vissuti sul pianeta in varie epoche (sono alieni MOLTO potenti, quindi è del tutto NORMALE che riportino in vita, perfettamente coscienti e funzionanti, degli individui ridotti a ossa friabili da molti millenni). L’ultimo degli individui in questione ingaggerà con i tentacolati – che sono MOLTO cattivi, come si ricorderà - un confronto serrato di strategie psicologiche contrapposte, basato su (più o meno) misteriosi poteri mentali e tecnologie potentissime. Puro van Vogt, insomma. O per dirla con Makkox: cagate di cartapesta indigeribili. In questa cagata, però, vi è, perfettamente dispiegata in ogni pagina, in ogni parola, la paranoia che percorre tutta l’opera vanvogtiana, la paranoia che lo scrittore distillava dalla storia della nostra specie e dall’epoca in cui viveva, e che proiettava all’esterno di sé spedendola nei futuri immaginari nati dalla sua fantasia. Una fantasia tanto infantile quanto, appunto, poetica e onnipotente, in grado di dialogare con quanto di pre-conscio e di pre-adulto è in noi: e che spesso governa non poco dei nostri pensieri, emozioni e azioni. Nell’introduzione all’antologia Destinazione Universo, lo stesso van Vogt scriveva in questi termini del racconto: Non mi sono reso conto che Il mostro (The Monster) fosse un bel racconto finché non l’ho riletto sulla rivista. Si tratta di una storia con un finale ottimistico sul più remoto futuro dell’uomo e sulla sua grandezza. È un bel racconto, indubbiamente; non riesco però a  essere d’accordo con AEvV sul finale ottimistico: non trovo nulla di ottimistico nel trionfo di paranoia umana del finale del racconto. Però io non sono van Vogt e non ragiono con la sua testa.

Il fascicolo di Agosto 1948 di Astounding Science-Fiction
Pubblicato in origine sul numero di agosto del 1948 di Astounding Science Fiction, The Monster ha una lunga storia di pubblicazioni italiane, nel corso della quale si è incarnato in tre titoli diversi. Titoli, una volta tanto, tutti precisi e ben scelti. Il primo, Dalla cenere risorgerai, utilizzato per la sua prima pubblicazione, in appendice a un pionieristico volume della Cosmo Ponzoni del 1962 che presentava la prima edizione del Ratto d’Acciaio di Harry Harrison, non trovò fortuna nelle successive edizioni. Resurrezione, il titolo che personalmente preferisco, venne usato per la prima volta nel 1969 su Galassia, nell’antologia vanvogtiana Le storie delle lune e tornò in seguito nell’edizione su Urania di un’altra antologia dell’autore canadese, Creature (che curiosamente nell’originale si intitolava Monsters). Il titolo filologicamente più corretto, Il Mostro, apparve per la prima volta nel 1979 nella citata antologia Destinazione Universo, e da allora è stato usato molte altre volte.