domenica 24 aprile 2011

Sull’egoismo – note a margine di un racconto di Philip K. Dick (Cadbury, il castoro scarso - Cadbury, the beaver who lacked, 1971/1987)


I pensieri possono infine coagularsi in conseguenza degli eventi più disparati. Da giorni avevo appunto una parola e un pensiero installati nel cervello, premendo per prendere forma in qualcosa di compiuto. Una riflessione compiuta (che poi abbia anche senso è un’altra questione). Ciò che avviene intorno a noi ci stimola appunto a riflettere, e ultimamente l’osservazione mi porta alla ricerca di una definizione di egoismo. Poi un evento accade e il pensiero prende forma. Compiuta (sensata resta sempre un altro paio di maniche :-D).

Terminata la lettura di un libro è fin troppo facile perdersi alla ricerca del successivo. Iniziarne e abbandonarne diversi. Gioco forza si finisce allora a vagabondare tra le parole scritte: un articolo di una rivista, versi sparsi, una prefazione, un racconto.

Un racconto. Passando davanti a una delle poche librerie di casa ancora (abbastanza) in ordine l’occhio si sofferma sui quattro volumi de Le Presenze Invisibili, amorevolmente comprati uno per uno negli anni ’90. Tutti i racconti scritti da Philip Dick: è più o meno da allora che non li rileggo. Prendo il quarto, le opere – più rade – della maturità, e apro a caso. Non molto soddisfacente. Scorro allora l’indice e un titolo, completamente dimenticato, cattura la mia attenzione: Cadbury, il castoro scarso. Stendo un velo pietoso sulla traduzione italiana del titolo - in originale era Cadbury, the beaver who lacked - che oltre a suonare idiotamente comica viene a perdere il doppio significato che il verbo “to lack” invece sottolineava: le manchevolezze di Cadbury e il suo finale venir meno dal tessuto della realtà: un titolo squisitamente dickiano trasmuta così nel vanzineggiante.
Il quarto volume, dove è contenuto il racconto

Comunque. Nell’introduzione al volume Vittorio Curtoni spiega che si tratta di un racconto mai pubblicato in vita da Dick (dalle note dello stesso Dick risulta scritto nel 1971) e proposto per la prima volta all’uscita di The collected stories of Philip K. Dick nel 1987. Il Vic dice trattarsi di un’opera piuttosto eterodossa nel panorama dickiano, e di un capolavoro. In genere non ci sarebbe troppo da fidarsi da chi non ami Clifford Simak e lo consideri sonnacchioso, ma quando si tratta di Philip Dick di Curtoni ci si può fidare ciecamente. E infatti ha ragione.

Il Vic accenna, introducendo nel suo commento riferimenti a Poe e a Freud, sia allo sfaldamento del reale che alla perturbazione mentale, per altro i topoi più classici di Dick sebbene qui trattati in modo inconsueto, a partire dalla struttura del racconto che è quella di una favola allegorica. C’è ben poco di fantascienza a un primo sguardo (e forse anche a ben vedere), qui Dick elabora una metanarrazione della sua vita così spesso sgangherata e incasinata, della sua creatività compulsiva e totalizzante. E perciò alienante, che lo isolava dal resto dell’umanità. Di lì a poco Dick affermerà di essere stato “invaso” da una sorta di divinità benigna o qualcosa del genere, e insomma… se non è svertebrarsi del reale e psicologia disturbata questo.
Il primo volume

I due grandi temi portanti sono dunque ben presenti, ma il vero nucleo del racconto è senza dubbio tutto nella figura del protagonista, Cadbury, questo castoro che poi altri non è che Dick stesso – e forse l’identificazione tanto ovvia e scoperta e la rappresentazione per certi versi brutale di sé hanno comportato che questo racconto non venisse pubblicato se non nella raccolta postuma dei suoi racconti? Cadbury/Dick che, come dice sua moglie Hilda, è privo di “energia e spinta interiore”. Ed è incapace di un minimamente sereno rapporto con le donne: proprio come il rapporto di Dick con le donne fu assai problematico per usare un eufemismo; e così come nella sua opera affiora una sofferta misoginia. Sofferta perché non convinta, ma in certo modo subìta per l’incapacità di creare un rapporto maturo e paritario e dunque stabile.

E’ qui che il racconto e il tarlo di questi giorni sull’egoismo mi si sono fusi assieme. Non mi riferisco agli effetti evidenti, violenti e per certi versi banali dell’egoismo umano inteso come una pulsione brada e un sovrano disprezzo per l’Altro (un esempio inquietante e al tempo stesso anodino lo fornisce al solito il magico mondo dell’economia contemporanea: http://www.investopedia.com/articles/bonds/08/death-bonds-portfolio.asp). La vicenda del castoro Cadbury va invece oltre, più a fondo, alla radice interiore del sentimento egoistico.
Il secondo volume

In quanto membri della specie superstite del genere Homo, in quanto Homo sapiens, noi esseri umani siamo animali e in quanto tali soggetti agli istinti e alle pulsioni di tutti gli animali. Ma dovremmo (saper) vivere come se non fossimo animali. Non per altro, ma perché ne abbiamo le possibilità intellettuali e sarebbe utile a tutti - un “tutti” statistico, okay, chi si ingrassa vendendo mine antiuomo ha meno interesse nella questione di quelli che poi ci salteranno sopra. Questo richiederebbe una sintesi culturale superiore alle nostre - attuali? - possibilità come comunità umana. I tentativi fatti sono stati fin qui fallimentari e ancora più spesso deleteri. Le religioni non solo non si sono mai avvicinate a creare una vera cultura solidale ma come è implicito nel concetto di fede sono teoreticamente impossibilitate a farlo. Per fare un esempio più recente, il sogno titanico della psicanalisi di risolvere gli affanni umani direi abbia creato più problemi di quanti ne abbia risolti, soprattutto là dove essa è divenuta cultura dominante e infine moda. Il solo legato di valore, da Freud in poi, è la straordinaria quantità di capolavori letterari del ‘900 che hanno tratto ispirazione dalle varie formulazioni teoriche e prassi di lavoro. Dalle ristrettezze mentali di un sessuofobo misogino ottocentesco probabilmente non poteva sortire altra pianta sotto il profilo scientifico (ma teniamoci stretto il fiore letterario). Al netto del fatto che senza una comprensione davvero avanzata dei meccanismi neurofisiologici e biologici in genere, e un’accettazione psicologica profonda della nostra biologia, arrivare a comprendere la psiche umana è pura utopia. Figuriamoci curarla.

Per attenerci però a un livello più immediato, elementare (ma non semplificato) e individuale – e appunto più vicino alla radice dell’egoismo – la storia di Cadbury è illuminante. Perché vi è un aspetto decisivo al di là del fatto che Cadbury è un castoro, cioè un uomo, irresoluto e tendente alla fantasticheria fine a sé stessa; al di là del fatto che è vessato da una moglie stizzosa, non migliore di lui a conti fatti; al di là del fatto che lo psicanalista dottor Drat non gli serve a un tubo perché è tanto supponente quanto impotente; al di là del fatto che il suo incontro con Carol Stickyfoot ne mette a nudo la completa incapacità di instaurare un rapporto di mutua comprensione con i vari aspetti della femminilità incarnati da Carol (che si scinde materialmente in una rappresentazione al contempo parodistica e agghiacciante del simbolismo della Triplice Dea). Incapacità che arriva a quella dissoluzione materiale corporea di Cadbury cui facevo prima riferimento. Dissoluzione che nella dimensione di Philip Dick l’uomo è il venir meno della residua coerenza sua psiche: Cadbury, evidentemente inabile a resistere alla pressione del rapporto irrisolto e irrisolvibile, abdica alla realtà.  
Il terzo volume

Al di là di tutto questo, all’origine del dissidio di Cadbury con le donne, il resto dell’umanità, la società e in genere il tessuto stesso della realtà (psichica) vi è evidentemente il suo egoismo. Come è in genere anche per noi. Egoismo non come ricerca a ogni prezzo dei propri scopi ma come la causa e l’attitudine a ciò precedente: il fissarsi mentale unicamente su sé stessi. L’autismo emotivo che ci isola dall’Altro e non ce lo fa riconoscere come a noi simile. L’autismo, soprattutto, che ci porta a non condividere noi stessi. Che è il primo passo perché l’Altro possa a sua volta condividersi. A partire dal livello più banale, il negare le nostre confidenze, paure, speranze alla partner o al partner, all’amica o all’amico: a chi ci è più prossimo. Questa nostra avarizia ci condanna all’isolamento, e l’isolamento ci conduce alla sopraffazione: la dove non c’è comunicazione non c’è conoscenza e quindi non può esservi comprensione e mutuo riconoscersi. L’incomunicabilità è verbale, emotiva, spirituale. Incapacità di comunicare e comunicarsi. Ripiegando sul proprio ego, avviluppandocisi come nella ormai proverbiale coperta di Linus, la barriera che ci protegge e rende impermeabile l’esterno a noi, e noi all’esterno.

Cadbury nega la propria interiorità alla moglie; non è in grado di comunicare con il suo analista (che è altrettanto inetto), questo disperato surrogato contemporaneo del relazionarsi con l’Altro; e infine neppure sa davvero offrire la propria personalità per una comuni(cazi)one spirituale con Carol. Che si rivela altrettanto incapace di lui, sia chiaro (e di certo nell’ottica integralmente egoistica di Dick è escluso che il primo passo possa compierlo Cadbury: al massimo può pietirlo). Delle tre figure in cui Carol si scinde, solo quella che rappresenta la Madre mostra un barlume di affetto per Cadbury; ma è un affetto incondizionato, e per ciò stesso privo di reale comprensione. Non è un affetto per ciò che Cadbury è davvero, ma solo per ciò che Cadbury – il Figlio – rappresenta per la Madre: di nuovo una visione egoistica: anzi il suo paradigma. Mito puro, non realtà umana in atto.

Hic manebimus optime?