giovedì 29 ottobre 2009

[fantascienza] I contemporanei - Soli offuscati, lune morenti (In Fading Suns and Dying Moons - 2003) di John Varley (n.1947)


E' difficile immaginare la fantascienza senza il rapporto con l'Alieno. Non inteso (non necessariamente) come l'omino verde di Marte o comunque come l'essere di altri pianeti, ma come la dimensione di ciò che è altro dalla nostra realtà sensibile, dal senso comune, dall'esperienza quotidiana, dalla conoscenza attuale. Dalla realtà priva di estrapolazione. In questo racconto gli alieni però ci sono: un'invasione di alieni. E benché l'Alieno tanto remoto e diverso dall'uomo da essergli del tutto indifferente non sia una completa novità, quelli (o quello?) presenti nel racconto di Varley sono tra i più alieni che ricordi.


Americano, affermatosi nella seconda metà degli anni '70, John Varley, uno degli anticipatori del rilancio della fantascienza avventurosa centrata con rigore sulla speculazione scientifica e suo profondo innovatore, è stato fin verso la metà degli anni '80 uno degli autori di maggior spicco dell'epoca; parecchio prolifico sino a lì, in seguito ha rarefatto all'estremo la sua produzione, ma decisamente non la qualità di essa: resta, la sua, una delle voci di maggior rilievo nella storia della sf.


Varley è stato spesso accostato e paragonato a Heinlein, forse per la somiglianza con molti protagonisti heinleiniani, in realtà più superficiale che altro, del suo personaggio più famoso, la Cirocco Jones del romanzo Titano e seguito. Ma che Varley non sia (stato) una sorta di ultimo dei classici lo mostra bene questo racconto, che mette in scena una situazione che sarebbe assai garbata a John Campbell, "fondatore" della fantascienza classica degli Asimov e Heinlein, ma scioglie il dramma in un modo che avrebbe fatto volare Varley fuori dallo studio di Campbell assieme al suo racconto se avesse provato a venderglielo per la sua rivista. In questo racconto l'umanità perde, e perde senza neppure avere la possibilità di sedersi al tavolo da gioco; un concetto che Campbell rifiutava in partenza: l'Uomo (americano) riusciva sempre a trionfare contro ogni pronostico, contro ogni logica; soprattutto contro ogni pronostico e ogni logica. Ma gli innominati alieni di Varley neppure si accorgono dell'Uomo, nonostante la gentilezza con cui cercano di soddisfare le domande dei vari esseri umani e la noncuranza con cui eliminano quelli che interferiscano con i loro compiti. Come gli alieni indicano agli uomini, Varley mette l'umanità nella stessa condizione degli esseri bidimensionali della Flatlandia di Edwin A. Abbot quando vengono invasi dalla tridimensionale Sfera. Moventi, azioni, scopi, percorsi mentali di esseri multidimensionali sono semplicemente al di là della comprensione, e tentare di colpire esseri per i quali il tempo è un qualcosa come alto o basso, destra o sinistra per noi, è impossibile. I Profeti che esistono all'interno del tunnel spaziale in Star Trek: Deep Space 9 presentano molte somiglianze con quelli di Varley, ma questi ultimi sono molto più "realistici", agiscono in modo autenticamente non umano.


Se il tempo è la stessa cosa che alto o basso, allora impiegare cinque miliardi di anni per creare il sistema solare e farvi crescere le farfalle non è più impegnativo né "dura" più che attraversare la cucina per prendere il sale da aggiungere alla minestra. Gli alieni setacciano a pettine fitto l'intera superficie planetaria per raccogliere tutte le farfalle; perché sono "la cosa più bella della Terra". Ma nel sistema solare esistono - o potranno esistere - altre cose che interessano loro. L'Uomo, non riveste interesse alcuno. Non è dato sapere se fosse un prodotto inevitabile o accidentale, necessario o eventuale, utile o inutile del processo messo in atto cinque miliardi di anni prima; di certo si sa che è superfluo ai loro ignoti scopi.


Ciò porta a conseguenze.


Varley non pone fine all'umanità - quanto meno si ferma un attimo prima, e in fondo gli esseri umani sono talmente adattabili che in un qualche modo potrebbero perfino sopravvivere; si limita anche lui a disinteressarsi del destino ultimo dell'Uomo. Con pacatezza, con un pathos depurato di ogni eccesso di drammaticità, ma con tutta la forza e grandiosità delle metafore su scala cosmica, egli pone in scena i meccanismi nudi del funzionamento della natura: la natura esiste; la natura accade; la natura muta. L'Uomo vi è inserito: esiste, accade e muta con essa, e all'interno di essa. Come ogni particella, nasce e decade. L'uomo della fantascienza di Campbell, l'uomo risolutore, è qui semplice spettatore dell'accadere e dell'esserci dei fatti. L'entomologo Andy Lewis, il protagonista, e il matematico Ward sono lontani dagli ingegneri heinleiniani. Possono solo osservare, senza neppure realmente formulare ipotesi, solo andare a tentoni. La natura (gli alieni) opera su una scala inattingibile all'operare umano, seppure con il tempo forse sarebbe conoscibile; ma è proprio il tempo a essere, pienamente, ininfluente: a perdere senso come coordinata del reagire umano.


Il racconto, uscito in origine direttamente in una delle tante antologie che affollano il mercato americano, è stato pubblicato in Italia su Venti galassie, l'Urania Millemondi edito nel luglio 2007 e che presentava l'abituale antologia dei migliori racconti dell'anno (il 2003 in questo caso) curata da David Hartwell e Cathryn Cramer.


martedì 20 ottobre 2009

[fantascienza] Il classico – Qualcosa nella terra (Something in the earth - 1963) di Charles Beaumont (1929-1967)

Qualcosa nella terra è una fiaba ecologica delicata e amarissima narrata in chiave di fantascienza. L’allegoria scoperta del futuro senza speranza cui l’avidità condanna il genere umano conferisce quella brutalità realistica che appartiene appunto alla migliore fantascienza, controbilanciando il lavoro elegante che con stile rarefatto, leggiadro perfino, l’autore compie sull’atmosfera della storia, trasognatamente fantastica per lunghe sequenze. Beaumont fu eminentemente uno scrittore che spaziò in ogni campo del fantastico e le sue storie di fantascienza recano chiara l’impronta di una libertà tematica e stilistica sconosciuta agli autori che lavoravano in esclusiva o quasi per il mercato più specializzato delle riviste.


In un futuro intuitivamente molto lontano, Gerald Markeson è il custode dell’ultima foresta, l’ultima area verde di una terra cementificata in ogni metro quadrato della sua superficie. Le montagne livellate, i fondi oceanici svuotati delle loro acque: tutto per edificare nuove città, nuovi edifici, nuove industrie, nuove strutture militari come quella che dovrebbe sorgere nel luogo ancora occupato dall’ultima foresta. Gerald è un uomo vecchio, vecchissimo – la scienza del futuro permette di raggiungere età di duecento anni e oltre; ed è un uomo antico. E’ antico il suo attaccamento alla terra; agli alberi di quella foresta che sente sua; agli insetti che ne popolano le fronde. L’antichità di Gerald viene dalla saggezza della memoria. Gerald rammenta – anzi egli sa – che l’Uomo è tutt’uno con gli alberi, con la natura. “Ci uccideranno tutti fino a quando non ci sarà più nessuno di noi, ci squarteranno e ci taglieranno gambe e braccia, ci bruceranno fino a ottenere soltanto nere ceneri... poi si dimenticheranno che siamo esistiti”: così dice a sua moglie la sera prima del previsto arrivo delle squadre che devono spianare la foresta. Dice “Noi”, non gli alberi, o la foresta. Ma ormai neppure più la moglie è disposta ad assecondare questa sua difesa appassionata e disperata dell’ultimo fortino della natura sulla Terra.

Gerald parla con le piante e con gli alberi. Dopo il “tradimento” della moglie egli esce di casa e vagabonda tra gli alberi della sua foresta, si rivolge loro con veemenza e ardore, urla il suo furore alla Luna annunciandole il suo turno una volta che la rapacità dell’uomo avrà completato la propria opera sulla Terra. Gli alberi risponderanno; non a parole, ma il loro muto responso sarà portato dal vento. Del resto, chi può dire quale coscienza potrebbe aver sviluppato l’ultima foresta sulla Terra, l’ultimo ecosistema sopravvissuto? Beaumont ha un’abilità sopraffina nel creare un credibile clima letterario di sospensione della razionalità, e una squisitezza di linguaggio che rende una simile atmosfera concreta. La lunga sequenza del febbrile errare di Gerald in quello che a tutti gli effetti è un giardino dell’Eden assediato dall’inferno in terra del cemento e della frenesia di ricchezza e guerra dell’uomo non è solo una potente diversione fantastica e un esercizio di maestria narrativa e letteraria; in essa il piccolo, arcaico uomo Gerald pare assumere i connotati di una primitiva divinità. Una divinità che appare debole, ma che va radunando tutto il suo potere, sepolto nel passato ma non estinto.


Il sogno/delirio trapassa nella giornata fatale, quando le ruspe arriveranno. Quando le ruspe scopriranno che non è possibile abbattere gli alberi della foresta: né lama né esplosivo, di nessun genere, riesce nell’impresa. Si apre allora il confronto tra antico e moderno, tra natura e tecnologia inanimata, tra apparente debolezza e apparente forza: tra Gerald e gli alberi da un lato, e dall’altro il presidente del Mondo Unito e tutta la potenza bellica e industriale del pianeta. “Qualcosa nella terra...” mormora il presidente ogni volta che una nuova e più potente arma vede il suo potere infrangersi contro la passiva inamovibilità della foresta di Gerald. E in effetti nella terra c’è davvero qualcosa: che il presidente non è in grado di capire. E Gerald appollaiato sul ramo alto di uno di quei giganti ormai pietrificati del suo giardino continua, inascoltato, a lanciare il suo avvertimento: lasciate stare la foresta, la natura che ci è rimasta, non tirate troppo la corda: noi dobbiamo essere tutt’uno con essa, o non saremo. Il racconto di Beaumont è del 1963, quando la coscienza ecologica era perfino più negletta di oggi. Anzi, molto più negletta. Eppure, nella sostanza, Gerald è ancora inascoltato in questo 2009. Ovviamente, a ogni azione corrisponde una reazione. Le azioni del presidente avranno le ovvie conseguenze, e la Terra reagirà, con tutta la forza di un animale immenso non più disposto a tollerare i propri parassiti. Come dicevo una fiaba dolorosa, che si chiude con una profezia di pessimismo universale.

La fantascienza è una letteratura abbastanza giovane da potere ancora, senza retorica, contare le proprie storie umane infelici. Talento precoce e dotato di una penna dalla scrittura brillante e ingegnosa e di una fervida e facile ispirazione, Charles Beaumont abbandonò ben presto il mondo più angusto delle riviste di genere per pubblicare su quelle letterariamente più prestigiose, a partire da Playboy, e approdare in seguito come sceneggiatore a Hollywood. Se il suo nome non vi dice granché nonostante una produzione imponente in un arco temporale tutto sommato ristretto e della quale poco è giunto in Italia, forse The Twilight Zone può accendere una luce: a Beaumont si devono infatti molte delle migliori storie del serial, e definirlo un autore seminale è la semplice ricognizione di un dato di fatto. Aveva 34 anni quando gli venne diagnosticata una malattia degenerativa non meglio individuata dai medici, se non per il fatto che fosse mortale e che le sue facoltà mentali si sarebbero deteriorate in modo grave; cosa che puntualmente avvenne, fino alla morte pochi anni dopo. Questo racconto è dunque tra le ultime cose che deve aver scritto prima che la malattia emergesse, quasi uno dei frutti residui del giardino di Gerald. E’ stato pubblicato una prima volta in Italia nel 1967 in una antologia Longanesi curata da Franco Enna e intitolata Il meglio della fantascienza, poi diverse volte ripubblicato nei dieci anni successivi, tra l’altro nella ristampa, questa volta in due volumi, della stessa antologia (è nel secondo volume). Da una trentina d’anni non ha nuove edizioni.

lunedì 19 ottobre 2009

[fantascienza] I contemporanei - Chernobyl nervosa (Our neural Chernobyl - 1988) di Bruce Sterling (n.1954)

"Visti in retrospettiva, la fine del ventesimo secolo e i primi anni del nostro millennio formano un'unica epoca. Questa infatti era l'Epoca dell'Incidente Consueto, periodo durante il quale la gente accettava con allegra leggerezza rischi tecnologici che oggi verrebbero considerati pura follia."


La fantascienza è una letteratura escapista, che parla di improbabili futuri, alieni bizzarri e astronavi che viaggiano alla volta di galassie lontane. Sarà. Cioè, sarà così per chi non ne ha mai letta una riga. O per chi non ne ha capito un tubo. L'incipit di Our neural Chernobyl è una delle migliori definizioni di fantascienza che io abbia mai letto: un continuo riflettersi di passato, presente e futuro, in un gioco di specchi. Gioco speculativo ed estrapolativo. Tutto questo non esclude minimamente il sense of wonder; né implica che non vi siano storie leggere o puramente avventurose, sia di perfettamente godibili che di ignobili (il cinema, di queste ultime, ne sforna a getto continuo). Ma il nucleo, il nucleo filosofico oserei dire, della fantascienza, è tutto racchiuso in quelle poche parole all'inizio del racconto di Sterling: usare la lente d'ingrandimento del futuro per indagare sul presente e riflettere sulla natura dell'uomo, nel passato come sempre.


Grande Babalao* del cyberpunk, di cui curò l'antologia-manifesto, Mirrorshades, Bruce Sterling è una figura esemplare di intellettuale impegnato; ma non nel senso dispregiativo che qui da noi in Italia - giustamente - quasi sempre si accompagna alla definizione. L'autore americano ha costantemente affiancato a quella di scrittore un'attività, forse addirittura prevalente, di operatore culturale militante nello studio e nella diffusione delle conoscenze in merito alle nuove tecnologie e, ancor più, ai loro riflessi sociali ed economici. Un'attività di sensibilizzazione sulle potenzialità della scienza e della tecnologia e i pericoli di un loro uso distorto a opera di potentati economici e politici.


Chernobyl nervosa
è un ottimo esempio, sul piano invece dell'opera letteraria, di questa sua tensione, questo interesse per una presa di consapevolezza del grande potere che scienza e tecnologia hanno posto nelle mani dell'uomo. Il racconto si presenta sotto forma di articolo giornalistico/recensione libraria di un saggio di storia della scienza scritto da un guru della neurochimica del futuro prossimo, a proposito della "Chernobyl nervosa". Sterling è lontano qui, dai labirinti algidi e dalle piste infinite di bit della realtà virtuale, il topos che generalmente è associato all'estetica cyberpunk. E' dalla chimica e dalla biologia, dal sottobosco della genetica affrontata con la leggerezza incosciente della sfida intellettuale vissuta per gioco e gusto del pericolo (dalla hybris in ultima analisi) che scaturisce la "Chernobyl nervosa". Sfruttando i meccanismi di riproduzione del codice genetico del virus dell'AIDS, viene creata una sorta di "droga" in grado di moltiplicare a dismisura le cellule e i collegamenti neuronali collegati all'intelligenza. Tutto molto bello? Non esattamente. Gli esseri umani hanno sviluppato, a quanto pare come effetto collaterale della loro storia evolutiva, una resistenza naturale a tale "droga", e la trasmissione del "virus" da individuo a individuo è, nella specie umana, molto rara. Per fortuna, perché gli effetti della "droga", sintetizzata da un supernerd tanto genialoide quanto socialmente disadattato, causano una sorta di stupore catatonico da eccesso di intelligenza. Per sfortuna, però, gli esseri umani possono trasmetterlo agli animali. E ovviamente accade subito. Cani e gatti paiono sotto controllo; ma in pochi decenni simpatici animaletti come coyote, gatti selvatici, procioni sembrano aver compiuto un progresso evolutivo normalmente stimabile nell'ordine dei milioni di anni. L'uomo non è più solo. O non lo sarà. Per fortuna, di nuovo, il loro robustissimo sistema immunitario pare rendere i ratti refrattari agli effetti dell'"infezione". E i nuovi gatti dovrebbero risolvere il problema ratti prima di un'eventuale caduta delle loro barriere immunitarie.


Questa la trama, in fondo piuttosto semplice e quasi banale, comune a tante storie di scienza malvagia o impazzita. Quel che un riassunto non può comunicare è l'ironia, a tratti decisamente feroce, di Sterling. Né la profondità della sua analisi sociale e psicosociale. L'artificio dell'articolo/saggio è particolarmente efficace perché permette all'autore di esercitare un distacco che assume naturalmente il tono dell'autorevolezza. Un tono che gli consente di frustare questi nostri tempi superficiali e pericolosi con una cattiveria fredda e quasi crudele. L'ironia è però l'arma che Sterling utilizza per schiaffeggiare anche la boria del suo recensore, uomo del tardo XXI secolo (nel quale, ancora, inevitabilmente è ritratta la nostra boria, il senso di onnipotenza che ci sta invadendo - o forse meglio, che ci stava invadendo nel 1988). In un finale che non svelo, la punizione di questa acribia appare decisamente dura. Così come l'ingenuità del recensore ci appare particolarmente... nostra.


Sterling non ricalca il cliché, diffuso molto oltre quanto sia lecito attendersi, dello scrittore di fantascienza sospettoso della scienza. Egli non sospetta della scienza, ma, molto correttamente, dell'uso che l'uomo può fare di quel prodotto della scienza che è la tecnologia. La contromisura, lampante, è l'uso della ragione e lo sviluppo della conoscenza. O se si preferisce, è la consapevolezza. Consapevolezza cosciente, in primo luogo, che nulla deve mai essere dato per scontato, e che l'attenzione deve essere tenuta sempre desta.


Raccontata così, sembra una tirata moralistica, ma a leggere il racconto non si ha mai un'impressione del genere. Lo stile sferzante di Sterling pressa il lettore e lo sollecita a seguirlo in quella che realmente è un'affascinante avventura intellettuale. Un'ipotesi ardita, ma che giorno dopo giorno appare sempre più possibile. Non sarà questa, sarà un'altra. Simile o non troppo simile. Ma ugualmente pericolosa, se non ne avremo consapevolezza. Il cerchio è chiuso. Il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro, la natura dell'uomo li attraversa; la natura dell'uomo deve mutare oggi che la scienza ci ha posto in mano strumenti di una potenza mai sperimentata in precedenza. Dobbiamo dimostrare di non essere solo capaci di fare la scienza, ma anche di comprenderne le implicazioni. E quindi di padroneggiarne i risultati ai fini di una loro reale utilità. Non sotto il profilo bruto del loro utilizzo materiale, ma delle conseguenze di lungo periodo. Che magari non riguardano noi tutti, ma la discendenza di tutti noi.


Il racconto è apparso in Italia sul Millemondinverno 1989 di Urania, ed è stato successivamente ristampato in più occasioni. La versione originale è online in formato pdf a questo indirizzo:

http://www.kenshinvu.com/download/matrix/Science%20Fiction%20&%20Fantasy%20eBook%20Master%20Collection%20M-Z/Sterling,%20Bruce/Bruce%20Sterling%20-%20Our%20Neural%20Chernobyl.pdf


* http://en.wikipedia.org/wiki/Babalao

domenica 18 ottobre 2009

[fantascienza] Il classico – La professoressa marziana (And madly teach - 1966) di Lloyd Biggle, Jr. (1923-2002)

La scuola e l’insegnamento non sono materie trattate di frequente dalla fantascienza. E’ singolare, perché se vi sono un luogo e un campo nei quali programmiamo il nostro futuro, è proprio lì dove e in qual modo avviene la trasmissione ai nostri figli del legato delle innumerevoli generazioni umane che li hanno preceduti.


Una piacevole incursione nei poco praticati argomenti fu l’antologia Il compito di latino assemblata da Vincenzo Campo e pubblicata nel 1999 da Sellerio (bei tempi quando la Sellerio pubblicò sf; questa piccola antologia è di qualche anno successiva alla chiusura dell’ottima e di troppo breve durata collana che l’editrice siciliana dedicò alla fantascienza). Frammisti a racconti di fantascienza, tra i quali spicca Associazione genitori e insegnanti, uno dei più noti di quell’autore geniale e bizzarro che fu Raphael A. Lafferty (indicato nel libro, ahinoi, come Robert), vi sono diversioni sul tema anche nell’horror e nel fantastico puro, come il gioiellino eponimo opera del talento di Montague Rhodes James. Tra quelli di fantascienza vera e propria, vi è la novelletta di Lloyd Biggle, il testo più lungo della raccolta.


Pubblicato in Italia con relativa frequenza sin quasi dal suo esordio letterario, Lloyd Biggle, Jr. è stato senza dubbio un autore minore, ma non immeritevole. Nella Encyclopedia of Science Fiction John Clute, che ben di rado è tenero e accomodante nei giudizi, scrive non a caso che le sue storie sono spesso “competent but undemanding” e “often convey the sense of an unrealized greater potential”: perfettamente centrato. I suoi limiti sono stati dovuti probabilmente anche a una prolificità eccessiva, che fatalmente scontava con una mancanza di profondità e una qual anonimità di ispirazione. A volte però si è innalzato un pelino oltre quel livello di competenza e leggerezza di cui scrive Clute. E’ il caso di questo racconto lungo.


Mildred Boltz è vissuta su Marte per un quarto di secolo, e lì ha insegnato inglese e materie umanistiche, alla vecchia maniera, in classe, amando i suoi ragazzi e confrontandosi quotidianamente con l’arduo compito di insegnare loro. Magari, di insegnare a imparare e ad amare lo sconfinato frutto della creatività umana, prima e più che di insegnare nozioni. Poi le sue condizioni di salute si sono deteriorate troppo per un aspro mondo di frontiera quale il Pianeta Rosso, e Mildred deve tornare sulla Terra, per essere reintegrata nel corpo insegnante del pianeta madre. E sulla Terra le cose sono cambiate assai. Non si fa più lezione in classe, ma in tv, a decine di migliaia di allievi contemporaneamente che seguono il professore comodamente da casa; il sistema educativo è ferocemente “meritocratico”, e la valutazione degli insegnanti è fatta in base a una sorta di indice Auditel delle loro lezioni… Ora immaginate, Mildred è della vecchia scuola, ma non è un dinosauro: è un’insegnante competente e innamorata della sua professione, e desiderosa di trasmettere a degli studenti quel che sa di poter trasmettere; e non ha nessuna intenzione di farsi mettere da parte come un fossile dei tempi andati. Il suo capo non può disfarsi di lei perché il suo contratto è, per così dire, a tempo indeterminato, diversamente dai suoi giovani colleghi, precari appesi al filo delle loro prestazioni e tutti tesi a trovare al più presto un lavoro fisso. Anche Mildred può essere però cacciata se scende al di sotto di un certo livello di rendimento secondo i risultati del Trendex (l’auditel di cui sopra); e dovrà lottare contro questa minaccia.


Le vicissitudini di Mildred che scaturiscono da questa situazione di partenza non sono di soverchia importanza, neppure quelle che la portano a ricreare una sorta di classe vecchio stile e lasciano intravedere una futura inversione di rotta nella politica educativa; né lo è la delicatissima storia d’amore tra l’attempata protagonista e l’altrettanto attempato Jim Pargrin, tecnico dei rilevamenti del Trendex e cavaliere in armatura scintillante al soccorso di Mildred in pericolo. Qui senza dubbio Biggle fa uso di quel mestiere abile ma scarsamente impegnativo e lascia intravedere un potenziale che non sa esprimere con compiutezza, o per il quale semplicemente non si concede il tempo necessario a una più complessa elaborazione. I personaggi non oltrepassano la dimensione di bozzetti amorevolmente torniti e privi di un carattere deciso e completo delle necessarie sfumature e approfondimenti; la scrittura è essenziale e senza fronzoli.


Più interessante è il cuore tematico della novelletta. La tv non rappresenta oggi una nuova tecnologia (anzi…); e neppure al tempo in cui Biggle scrisse La professoressa marziana poteva dirsi molto recente. Tuttavia ciò che rileva è il nucleo speculativo: quali novità, quali effetti, quali eventuali vantaggi e quali eventuali distorsioni può comportare una nuova tecnologia, nuovi media, sui metodi educativi e sulla scuola? Quale impatto hanno su di essa e sui sistemi di insegnamento le evoluzioni dell’organizzazione socioeconomica? Oggi può essere internet, nel 1966 Biggle pensava alla tv (e domani chissà); ma cambia poco: la sostanza della riflessione è che le novità della tecnologia e delle comunicazioni sono in grado di stravolgere ogni aspetto della nostra società, a partire da quello attraverso il quale programmiamo il futuro - i classici hanno questo, che non invecchiano all’invecchiare degli spunti narrativi contingenti da cui prendono le mosse. La scuola a mezzo tv ha anche spezzato in due la società, perché chi è veramente ricco può permettersi di mandare i propri figli nelle scuole private dove l’insegnamento è impartito in modo più tradizionale, e dove si forma e si perpetua l’èlite al potere. Una situazione che appare oggi molto meno fantascientifica…


Biggle sembra risolvere il tutto con un classico inno ai bei tempi andati, ma a una lettura attenta non è proprio così. O non completamente così. Seppure solo per sommi cenni, lascia intendere che possono esservi anche aspetti positivi nella Nuova Scuola. Il racconto non si conclude con una restaurazione, ma con una raggiunta consapevolezza da parte dei responsabili della politica educativa di un necessario ripensamento delle modalità dell’insegnamento. Non è un male aggiungere ciò che di buono possono apportare le tecnologie più avanzate; non è un bene disfarsi dei risultati storici solo perché passati. E’ sicuramente un’idiozia sprecare il potenziale rappresentato dalle generazioni a venire solo perché ciò si traduce in un risparmio economico immediato.


La professoressa marziana fu pubblicato una prima volta in Italia oltre quarant’anni fa, sul n.493 di Urania, sempre con questo banalissimo titolo, di sicuro preciso e rispondente al vero, ma desolatamente povero delle sottili implicazioni di quello originale. In Italia siamo specialisti nel trovare sempre le peggiori soluzioni di traduzione possibili.

venerdì 16 ottobre 2009

[fantascienza] I contemporanei - Giza (Id.2003), di Joe Haldeman (1943- )













E' un piccolo racconto di un grande della fantascienza. Piccolo per brevità: nelle sue poche pagine è un ottimo esempio dello stile e della personalità narrativa di un autore che sa amalgamare al meglio riflessione politica e sociale, grande avventura e ironia.
E che scrive con l'eleganza e la chiarezza di una nitida asciuttezza di stile e linguaggio.

Joe Haldeman pubblicava da qualche anno quando, nel 1975, il suo primo romanzo di fantascienza, Guerra eterna, lo proiettò nell'olimpo degli scrittori più stimati del campo. Il romanzo, cui molti anni dopo darà dei seguiti, è una delle opere più interessanti della letteratura militare, spesso indicato come contraltare a Fanteria dello spazio di Robert Heinlein. Oltre a essere uno dei veri classici della sf. Haldeman lo scrisse ispirandosi alla sua esperienza di geniere decorato nella guerra del Vietnam, e il libro riflette tutto il suo analitico disincanto sulla guerra; ed è inoltre un testo ricco di avventura e soffuso di acuta ironia, come accennavo a proposito delle caratteristiche del Nostro. Nei decenni successivi Haldeman ha costantemente confermato la sua statura e il successo di stima e di pubblico per le sue opere, tra le quali negli ultimi anni si è segnalato il romanzo I Protomorfi, pubblicato in Italia all'inizio dello scorso anno su Urania, una delle più interessanti storie di invasione aliena che abbia letto, nonostante un finale - proprio l'ultima pagina - che appare stonato rispetto a quanto visto fin lì. Ma una rilettura si impone per una valutazione più attenta.
Autore soprattutto di romanzi, Haldeman non ha scritto moltissimi racconti, seppure in una carriera ormai quarantennale il loro numero sia ormai abbastanza nutrito. Giza è stato pubblicato in origine sull'Isaac Asimov's Science Fiction Magazine, e poi raccolto nella sua attualmente ultima antologia edita: A separate war and other stories, che accoglie anche la breve novella eponima, ultimo capitolo a oggi del ciclo della Guerra Eterna. Il volume è stato tradotto in Italia come Guerra eterna: ultimo atto e pubblicato a febbraio su Urania n.1543, ottimo tassello dell'eccellente annata 2009 della rivista.

Il racconto non ha nulla a che fare con l'Egitto dei Faraoni. Giza è il termine con il quale preferiscono identificarsi i "fantasmi", esseri umani geneticamente progettati per la vita nello spazio. Nella seconda metà del XXI secolo la scienza genetica e la logica del profitto economico hanno concluso un ferreo matrimonio, che va a saldarsi con le aspirazioni di rivalsa e le bizzarrie della psicologia umana: nella Spagna, far-west della manipolazione genetica, molti Baschi accettano di sottoporre la propria prole alle profonde modificazioni genetiche necessarie a creare una specie umana in grado di lavorare e vivere stabilmente nello spazio su asteroidi-miniera; una variante di veri e propri freaks dal punto di vista fisico, umani del tutto inadatti alla vita sulla Terra. Bisogno di distinguersi, desiderio di riscatto etnico e storico, aspirazione alla conquista della frontiera ultima: motivazioni che si intrecciano e uniscono alla centralità della diversità nella definizione della propria identità di nazione. Isolamento e separatezza, luoghi psicologici prima e molto più che fisici per una popolazione che la separatezza e l'isolamento sperimenta da diverse migliaia di anni, da quando sono rimasti i sopravvissuti preindoeuropei all'espansione indoeuropea nel nostro continente. La realtà che andranno a vivere sarà meno rosea ed esaltante di quanto i genitori della prima generazione di "fantasmi" baschi sperassero per i figli. Ma tuttavia la vita sull'asteroide ferroso Quetzalcoatl non si tradurrà in una realtà troppo cattiva.

In poche pagine, quasi poche righe, Haldeman condensa un piccolo saggio di psicologia sociale ed etnologia. In estrema sintesi, ma in modo chiaro e articolato, osserviamo le dinamiche sociali che sviluppano i giza attraverso le generazioni. Il rifiorire dell'ancestrale religione basca con i suoi riti; lo sviluppo di un'agricoltura di sussistenza a fianco del florido interscambio commerciale con la Terra e dello sfruttamento sempre più intenso del planetoide dovuto anche, in un vero e proprio loop, alla sovrappopolazione; la divaricazione in caste della società giza, pur priva di conflitti sociali, che conduce allo sfruttamento, da parte degli strati sociali che controllano la sofisticata tecnologia mineraria, del ceto più basso e oppresso dalla sovrappopolazione. Particolarmente ai fini di un vero e proprio turismo della morbosità, che accelera il primitivizzarsi della loro cultura: ovviamente più essi appaiono strani e primitivi, più turisti attirano, e quindi anche qui si innesca il circolo vizioso. Si combinano gli effetti di isolamento culturale e scambi a senso unico e sbilanciati, di frugalità e peculiare agiatezza, di arretratezza intellettuale e sociale e almeno entro certi limiti di tecnologia altamente evoluta. Fenomeni non troppo dissimili da quelli che storia e cronaca possono mostrarci. La diversa alimenta sé stessa.
Per generazioni la vita dei giza sarà via via più caratterizzata da questa tendenza allo scorrere su un doppio binario di sottosviluppo e di sviluppo. Non una vita troppo buona, ma certamente non una vita così cattiva. Di sicuro una vita per la quale essi erano adatt(at)i.

Poi, la nona generazione si scoprirà sterile in ogni suo individuo. Che ciò fosse stato pianificato dall'inizio o si trattasse del risultato di un errore dei genetisti progettatori ha poca importanza: quel che Haldeman pare riassumere è che per i propri (gli eterni) fini economici la nostra civiltà plasma, modifica, brutalizza le culture (e divora i propri figli). Scientemente o per superficialità, i risultati non cambiano: siamo vittime di una coazione a ripeterci. La conclusione del racconto sarà tanto lucidamente amara (sul piano più generale della dimensione umana tutta) quanto beffardamente cinica (su quello dell'aderenza ai modelli psicologici di popolazioni peculiari). L'ombra del periodo in cui Haldeman scrisse il racconto, alla metà di settembre 2001, è innegabile. Speriamo non sia una conclusione profetica.