mercoledì 28 aprile 2010

[fantascienza] I contemporanei – La Signora del Freddo (The Mistress of Cold - 1984) di Ian Watson (n.1943)


Torno con vero piacere a Ian Watson dopo aver scritto di The butterflies of memory (http://olivavincenzo.blogspot.com/2009/02/fantascienza-i-contemporanei-le.html). Solo di recente La signora del freddo mi risulta pubblicato per la prima volta in Italia: nell’antologia Pagine dal futuro delle Edizioni della Vigna (mi sono soffermato anche su un altro bel racconto pubblicatovi, Idle roomer, di Mike Resnick e Lezli Robyn: http://olivavincenzo.blogspot.com/2009/12/fantascienza-i-contemporanei-linquilino.html), ma precede il citato racconto di circa vent’anni. E se ne differenzia estesamente. Se The butterflies of memory è scritto in uno stile piano, perfino quotidiano nonostante lo sguardo penetrante su futuri scenari della tecnologia e della comunicazione, The Mistress of Cold - attraverso una scrittura che fonde linguaggio teatrale, analisi psicologica e lapidaria suggestività del racconto di gesta – assume i toni allusivi dell’apologo e l’icasticità seduttiva della parabola.  

Watson elabora un racconto nella sua essenza semplice e chiaro, vergato con raffinatezza letteraria e ricercatezza linguistica pregevoli; ricamando con cura da psicologo i brevi ritratti dei tre protagonisti, La Signora Margueritela Mistress of Cold del titolo -, Il Dottor Sovrenian e Il Generale Harker. I tre personaggi di un dramma – una tragica farsa – che ha per palcoscenico un mondo da Guerra Fredda: un mondo dove la Guerra Fredda è giunta alle sue estreme conseguenze, dando concretezza reale al proprio secondo termine (a Watson deve essere piaciuto molto giocare con il vocabolo ;-)). Lo scrittore britannico ci narra una paranoia che oggi ci pare appartenere al passato; credo che uno sguardo attorno a noi mostri l’eterna, riveniente attualità del racconto.
Il numero 96 di Ambit, la rivista dove apparve originariamente il racconto

Noi e Loro. Bene e Male. Del tutto indiscriminabili perché naturalmente del tutto equivalenti. Le due fazioni hanno distrutto completamente la vita sul pianeta portandone la temperatura in superficie a un decimo dallo zero assoluto. Sopravvive ancora una riserva di calore nel nucleo della Terra, e due sole comunità umane rinchiuse in due Enclave sotterranee rinserrate dal gelo: Noi e Loro. Noi siamo cinquemila uomini e trecento donne: una vera assicurazione sul futuro. Noi siamo i tre protagonisti. La Signora, venerata e indiscussa – perché non discutibile - capo della comunità, controllata come un automa – e totalmente controllata dalla sua ossessione per il controllo totale; il Dottore, un peculiare mad doctor infatuato della donna e della conoscenza; il Generale, degno per ottusità di figurare nel kubrickiano Dottor Stranamore ma tenero, ingenuo come un vero essere umano.  Noi abbiamo una sola Fede: la vittoria a costo della distruzione finale di Loro; e inevitabilmente abbiamo perduto la ragione. O forse abbiamo perduto la ragione, e inevitabilmente la sostituiamo con la nostra sacra missione. Le nostre ossessioni trionfano. Un pulsante premuto e macchine succhiano il residuo calore del nucleo terrestre, lo zero assoluto si approssima, l’Enclave del nemico si spegne. Ma solo Sovrenian sa che il funzionamento del congegno è irreversibile, e la tacca terminale sulla scala di lord Kelvin attende anche Noi.

La Signora del Freddo è proprio questo, in primo luogo: una disamina fredda (absit iniuria verbis!) dei meccanismi psicologici che presiedono alle ossessioni che ci tormentano e muovono come esseri umani, e si traducono nelle catene mentali e sociali nelle quali ci costringiamo. Il credo di Harker è quello dell’ultimo uomo che resta in piedi: se comprende che non vi è possibilità di restare in piedi, va in pezzi. Sovrenian è dominato dalla sua curiosità pura, dall’ansia di penetrare nell’inesplorato: pagherà le conseguenze di un meccanismo non innescato né governato da lui, ma al quale egli ha fornito la possibilità di esistere e funzionare; sarà tuttavia il solo a mantenere (o forse recuperare) la consapevolezza lucida del risultato degli eventi benché esso si traduca in qualcosa di inaspettato per lui. La Signora resta il personaggio più agghiacciante (aridaje!), patetica marionetta umana che perfino nel disperante controfinale del racconto continua a prodursi nell’eterna coazione a ripetere del controllo: quello della sua ossessione su di lei, e quello di lei sull’umana credulità: ciò che più si evidenzia come cosa patetica è la necessità del Potere, per giustificarsi, di continuare a essere officiato. Soprattutto quando esso non ha più alcun significato.
Il volume delle Edizioni della Vigna dove il racconto è stato pubblicato nel 2009

L’amarezza della profezia in forma di parabola è compiuta dall’innesto più propriamente fantascientifico del racconto. Watson si serve di un intarsio di genuino sense of wonder d’altri tempi per fornire alla vicenda un contrappasso severo ma privo di moralismo ipocrita. La Terra, anzi l’universo – l’eredità che spetta a Noi vincitori – non raggiungerà mai lo zero assoluto. Con una sorta di salto quantico (e della suspension of disbelief), la temperatura trapasserà da una scala positiva a una negativa, inerpicandosi verso il Calore Assoluto, il valore raggiunto (in partenza) al Big Bang. La sf ha spesso sentito il fascino e le potenzialità visionarie di eventi paragonabili. Ai primordi erano frequenti le storie che narravano del passaggio dalla nostra dimensione a quella dell’infinitamente piccolo; la storia più nota dell’epoca resta il romanzo The Girl in the Golden Atom (1922) di Ray Cummings, ma ancora negli anni ’50 Richard Matheson scriverà sull’argomento il capolavoro The Incredible Shrinking Man.

Ci vorranno comunque un diecimila anni per arrivare a quel Calore Assoluto. Diecimila anni durante i quali Noi, divenuti immortali in questo nuovo piano di esistenza, sperimenteremo il dolore crescente di questo crescente Calore Negativo. Se non è l’Inferno della mitologia è sicuramente qualcosa che gli somiglia parecchio da vicino. E chissà che non sia per questo che Loro, pur possedendo la tecnologia per compiere l’ultimo passo, non l’hanno compiuto. Ma noi siamo i più furbi, nevvero? 
Watson insieme a Roberto Quaglia (a sinistra nell'immagine) sulla copertina del loro libro

Ian Watson ha aggiunto recentemente un alloro ai successi di una carriera lunga e fruttuosa, ricevendo, a trentadue anni dal suo primo, un BSFA Award (il premio dato dall’associazione britannica della sf) per il racconto The Beloved Time of their lives (http://www.ianwatson.info/The_Beloved_Time_of_their_Lives_free4all.pdf), scritto, come gli altri della raccolta The Beloved of my Beloved e molti altri in precedenza, insieme all’italiano Roberto Quaglia, forse lo scrittore italiano di sf più noto nei paesi di lingua anglosassone, ma praticamente sconosciuto in patria.

[fantascienza] Il classico – La persistenza della visione (The persistence of vision - 1978) di John Varley (n.1947)


Ho citato spesso, quale definizione esemplare del genere, quella secondo la quale “E’ fantascienza tutto ciò che il direttore di una rivista di fantascienza accetta di pubblicare”. E giacché il capolavoro di Varley è stato pubblicato nel marzo del 1978 su The Magazine of Fantasy and science-fiction, esso appartiene indiscutibilmente al campo ;-).

The persistence of vision è una delle opere più famose di Varley, autore fin troppo trascurato in Italia ma tra le voci più notevoli della sf americana, e ha meritatamente ricevuto nel 1979 tanto il premio Hugo che il Nebula, i principali della narrativa fantascientifica – più spiccioli vari. La mia apertura deriva dal fatto che, nonostante questo pedigree impeccabile, la novella ha un contenuto che un purista riconoscerebbe come “fantascienza” frazionalmente superiore a zero. E’ indubbiamente ambientata nel futuro – futuro per l’epoca in cui è stata scritta, si svolge tra il 1993 e il 1° gennaio del 2000 – ma fino alle ultime righe il suo contenuto non ha apparentemente altre caratteristiche fantascientifiche; e pure quelle ultime righe sembrano solo labilmente, nebulosamente riconducibili al fantastico o alla sf. Tuttavia è non meno indubitabile che questa novella offra al lettore un esempio di estrapolazione con pochi pari, e rappresenti alla perfezione quel tipo di narrativa che può definirsi speculative fiction – locuzione che preferisco a science fiction, del resto ormai canonica.

A prima vista la collocazione italiana della novella, nel corposissimo volume I Mutanti uscito nella collana delle Grandi Opere della Nord può apparire bizzarra: Varley racconta, con uno stile diretto e quotidiano, quasi naturalistico anche negli occasionali slanci lirici, la storia di una di quelle “comuni” che fiorirono nel New Mexico, intorno a Taos, a partire dall’insorgenza delle ribellioni giovanili negli USA nel 1963-64 in avanti. Certo, la comune in questione nasce circa  venticinque anni dopo, ed è molto particolare. I suoi membri sono tutti coetanei, sordi e ciechi dalla nascita. Nel 1964 un’epidemia di Scarlattina aveva causato negli Stati Uniti la nascita di diverse migliaia di bambini ciechi-sordi; una cinquantina di loro, dopo numerose vicissitudini, fonderà la comunità agricola dove giunge l’innominato protagonista narrante intorno al 1993. L’uomo è un randagio, un vagabondo in fuga da sé stesso, forse alla ricerca di sé stesso. Nell’approdo di Keller, come egli identificherà per sé l’altrimenti ugualmente innominata comune (da Helen Keller: http://en.wikipedia.org/wiki/Helen_keller), il suo modo di essere e pensare muterà radicalmente.

Il Mutante è uno degli archetipi più intensi e caratterizzanti della letteratura di fantascienza, perché sin dalla sua filosofia di base essa non può che essere letteratura della mutazione. Può mancare (o esserci) qualunque cosa in un racconto o romanzo di fantascienza, ma se manca un elemento mutageno – se la realtà descritta non è plasmata o integrata secondo schemi altri da quelli reali – essi saranno privi della loro ragion d’essere. E la mutazione non manca di certo in questa novella.

Ciò che Varley descrive è una mutazione multilivello e multisenso. Una mutazione sociale, in primo e più decisivo luogo. La società di Keller è l’esperimento, la realizzazione di una società autenticamente trasformata rispetto a quella della nostra esperienza di ogni giorno. Una mutazione indotta dalle caratteristiche fisiche dei kelleriti, e perfettamente logica e consequenziale ad esse. Mutazione che scardina tutte le convenzioni esterne, calibrate su una realtà del tutto differente. Mutazione perfettamente efficace, efficiente, funzionante. Mutazione (riuscita) è adattabilità, o meglio funzione di questa, come questa lo è di quella. E l’adattabilità è probabilmente la qualità cardinale di Homo sapiens. Keller è soprattutto mutazione sociale nel suo essere invenzione della ragione umana, e del tutto naturale, inevitabile. Forse la sola pecca, il solo scivolamento di Varley nella pura utopia è questa sua fiducia incondizionata nella capacità di un gruppo umano, che per quanto omogeneo al suo compiersi resta eterogeneo in partenza, di agire secondo ragione. Ma come possiamo escludere che la mutazione dei kelleriti non sia più profonda?

Mutazione antropologica e culturale – oltre che banalmente sensoriale. Difficile individuare quale preceda l’altra, ma la qualità umana dei kelleriti ne modella la cultura, ed essa continuamente trasformandosi li muta a sua volta. Lo vediamo nelle pagine in cui Varley cerca di spiegare l’ineffabile, ovvero quel Tatto attraverso il quale avviene la comunicazione più complessa e completa tra i membri della comunità, inattingibile alla comprensione non solo da parte del protagonista-narratore, ma perfino dei figli dei kelleriti. Ai vedenti appare preclusa una vera comunione con la comunità, e in questa inversione oltre alla eco lontana de Il paese dei ciechi di Wells e quella più vicina e pregnante di Io sono leggenda di Matheson, si coglie l’essenza della mutazione in un’ottica culturale: la strutturazione dell’appartenenza e dell’identità in base alle (mutevoli) caratteristiche della popolazione. E' così che si dimostra logica in modo disarmante la scelta di Janet Reilly, la donna che era stata il motore dell'iniziativa di Keller, di rinunciare a ogni funzione "pubblica" nella comunità; e altrettanto logica è la sua, come di tutti gli altri, scelta di confondere nell'identità comune ogni identità individuale, a partire dal nome: quando il protagonista la cercherà tra i kelleriti non la troverà, perché i nomi e le vecchie identità non hanno significato per la mutagena e mutata cultura di Keller.

Mutazione spirituale dell’individuo. Crescita, se vogliamo, e del resto crescere è la mutazione di cui tutti facciamo esperienza, quanto meno sotto il profilo fisico. A contatto con i kelleriti e i loro figli, a partire da Pink, la ragazza che diviene il suo Virgilio, il protagonista attraverserà tutte le fasi della crescita spirituale, il suo pensiero evolverà. Il suo ethos si conformerà a quello locale. Strato dopo strato di conoscenza, la realtà di Keller si dischiuderà alla sua comprensione, fin quando cozzerà con l’invalicabile. Il Tatto ineffabile; l’incomprensibile + + +, non meno ineffabile. Il rito del + + + al quale i figli dei kelleriti neppure possono accedere con i loro sensi troppo diversi, troppo tarati su altre esperienze (né i lettori, che, con il protagonista e narratore, devono contentarsi dei segni grafici).

Mutazione virale. Non in senso proprio. Quando il protagonista giunge al nucleo della propria inadeguatezza, inadattabilità comunicativa, il suo nuovo io entrerà in crisi. Egli, pur sentendosi felice come mai prima in vita sua, comprende che l’impossibilità di penetrare l’essenza più profonda di quel comunicare – che è poi l’identità profonda di Keller – è un ostacolo insormontabile per la sua realizzazione di individuo. E’ con senso di rimpianto, ma anche con la nuova forza e consapevolezza di sé conquistate a Keller che lascerà la comune per tornare nel mondo esterno. Ma Keller si rivelerà un virus più mutageno di quanto apparisse. Anni dopo, e nonostante l’equilibrio apparentemente raggiunto, in un impeto il protagonista tornerà. Qui non troverà altri che i figli dei kelleriti. I genitori sono andati, come dice Pink. E i figli sembrano infine pronti a seguirli, a congiungersi davvero con loro. E il tocco delle mani di Pink libera infine il nostro protagonista dal fardello della persistenza della visione

Ho avuto modo di scrivere in precedenza di John Varley. Qui: http://olivavincenzo.blogspot.com/2009/10/fantascienza-i-contemporanei-soli.html

venerdì 23 aprile 2010

[fantascienza] I contemporanei – Uno studio in verde smeraldo (A study in emerald - 2003) di Neil Gaiman (n.1960)


Il titolo è chiaro: si gioca con Sherlock. Non vado pazzo per Gaiman: che siano le sceneggiature per i fumetti di Sandman o un romanzo come American Gods, la superficialità e artificiosità del suo universo narrativo infastidiscono per la loro evidenza. Gaiman affascina pel ed è affascinato dal volume di fuoco impressionante delle mitologie che affastella nelle sue storie, raffinatamente e in modo compiaciuto. Ma grattando lo strato di fascino epidermico, gli effetti speciali della sua scrittura cessano di rilucere di riflesso e mettono a nudo un universo derivativo di culture e miti dai quali l’autore si limita a togliere quel che gli serve come scegliesse a caso un ingrediente per un dolce solo in base alla vivacità del suo colore, all’estro del momento e soprattutto al gusto per pasticciare tutto in un grande impasto indifferenziato.

Se il gioco è però più scoperto, sincero, se è compiuto e sufficiente in sé stesso quale passatempo intellettuale e finanche cerebrale, esso riesce. Nella dimensione più raccolta e – dimensionalmente – meno ambiziosa di un racconto breve, la strategia gaimaniana si rivela adatta alla costruzione di un meccanismo perfetto, un gioco che il lettore può assaporare parola dopo parola, citazione colta dopo citazione colta, in un rimpiattino con il suo compiaciuto autore.

A study in emerald non è solo un omaggio al mondo di Doyle e della sua creatura, né soltanto una sfrenata eterotopia narrativa. Ed è più della somma delle due cose. E’ un modello, un esempio leonardesco della funzione mitopoietica della moderna attività creativa letteraria, della straordinaria presa che la letteratura popolare ha sull’immaginario e l’elaborazione culturale. Della continua, inesausta capacità di reinvenzione del narratore, operatore di raccordi e rimandi, unificatore di ispirazioni e suggestioni differenti, tradizioni lontane. Dal materiale di risulta il fabbro valente trae utensili robusti.

Quel che altrove si risolve in esibizione, nello sfoggio di sapienza e tecnica e in dar di gomito al lettore, qui non ha modo essere. Forse perché non c’è spazio per espandersi e lasciarsi prendere la mano dall’autocompiacimento, e l’autore britannico è così “costretto” a concentrare e precipitare la messe dei riferimenti, allusioni e miti coinvolti. Deve badare all’essenziale senza distrarsi. Lo si è visto anche in L’orario di chiusura (Closing time, 2002), racconto pubblicato sulla prestigiosa rivista McSweeney’s e apparso in Italia ne  La super raccolta di storie d'avventura (McSweeney's Mammoth Treasury of Thrilling Tales, 2003).

Ecco allora che l’universo di riferimento primario, quello holmesiano, e gli intarsi che Gaiman vi innesta, innanzi tutto la mitologia lovecraftiana, così come i richiami letterari a Jekyll e Hyde e l’inevitabile eco di Jack lo Squartatore, sia il Jack reale che quello della copiosa narrativa su di lui, non ultimo l’Alan Moore di From Hell – ecco che tutto questo va a comporre una griglia di realtà coerente; va a descrivere un mondo altro dal nostro ma compiuto nelle sue parti. L’investigatore londinese che Gaiman fa agire in soccorso dell’ispettore Lestrade è credibile; molto più dell’Holmes di Doyle in effetti.

Oltre a questo vi è la storia di fantascienza nuda e cruda. A Gaiman non basta infatti giocare con Holmes e si spinge più in là. Lo studio è in emerald e non in scarlet perché da settecento anni o giù di lì sulla Terra (l’eterotopia…) sono tornati i Grandi Antichi. E si sono insediati sui troni di tutto il mondo. E il loro sangue è verde (non c’è più quel bel sangue blu di una volta ;-)). Compito del nostro detective è scoprire chi abbia scannato come un capretto il principe Franz Drago di Boemia, uno dei millemila nipoti della Regina Vittoria. La quale ovviamente non è l’amabile (oddio, amabile…) signora della nostra Storia, ma una sorta di orrido blob sibilante, il/la quale – diavolo di un Gaiman e dei suoi riferimenti colti – è in grado di operare guarigioni di malesseri con il semplice tocco dei suoi arti, così come la credulità popolare medioevale accreditava i monarchi di poteri taumaturgici (l’autorità regia era di derivazione divina, ricordiamolo… tra un po’ ci torneremo). I Grandi Antichi hanno sopito i conflitti umani, il prezzo è il loro dominio: ai posteri la sentenza.

Da queste premesse la storia si sviluppa sul doppio binario ferreo della sua aderenza al canone holmesiano – ma Gaiman si mangia il buon vecchio sir Arthur Conan – e alla sua natura fantascientifica di universo molto parallelo: fino alla assolutamente logica (come potrebbe essere diversamente?) conclusione. Non vi scioglierò certo il mistero, ma di sicuro il premio Hugo tributato al racconto nel 2004 appare meritato.

Uno studio in verde smeraldo è apparso sul numero 45 di Robot.

giovedì 22 aprile 2010

[fantascienza] Il classico – Il dio-mostro di Mamurth (The monster-god of Mamurth - 1926) di Edmond Hamilton (1904-1977)


Con questo racconto caliamo agli albori, al primo vagire della fantascienza.  Di fatto, esso è pubblicato nel numero dell’agosto 1926 di Weird Tales, a pochi mesi dall’uscita del primo fascicolo di Amazing Stories sulle pagine del quale Hugo Gernsback conia quel “scientifiction” che in capo a qualche anno evolverà nel canonico “science fiction”: sono insomma a malapena i mesi iniziali della presa di coscienza della fantascienza - ché ovviamente una letteratura dotata di tutte le caratteristiche che saranno proprie del genere esisteva da almeno un secolo, sia in forme “alte” che “popolari”. Ma non aveva ancora ricevuto una sistematizzazione.  Arriverà in quegli anni, da un lato stimolandone la crescita e l’affinamento attraverso un mercato dedicato, autori specializzati e lettori attenti e attivi; d’altro canto tale mercato comporterà anche irrigidimento stilistico e (auto)ghettizzazione. Anche perché quel che si pubblicava non era sempre rose e fiori; anzi lo era assai di rado.

Hamilton fu tra le levatrici di spicco di questa fantascienza di genere, e contemporaneamente una delle sue primizie: The monster-god of Mamurth è il primo racconto che egli abbia pubblicato, il che fa di lui un coetaneo della science fiction ;-). Una science fiction che sin lì, priva com’era di un mercato ad hoc, era stata ospitata su una galassia disparata di riviste, più o meno rivolte ad argomenti attigui, dove riceveva ospitalità senza esservi fuori posto e contribuendo all’edificio complessivo della letteratura fantastica. Riviste come Weird Tales, principale magazine della letteratura del bizzarro e fucina dell’immaginario popolare di quegli anni. Era una fantascienza che si ibridava in libertà e naturalezza con tutti gli altri filoni della narrativa popolare, dal fantastico puro all’orrore ad atmosfere noir. Le ibridazioni attuali, specie con il noir e il thriller, sono sovente presentate come frutto di modernità e audacia: chiacchiere e millanterie di furbastri; oppure ingenuità e candore di smemorati. Il dio-mostro di Mamurth è in ogni caso un bellissimo esempio di questa fantascienza ibrida e ibridata, o se vogliamo di una narrativa liberamente fantastica.

In un certo qual modo Edmond Moore Hamilton fu un autore a due facce. Divenuto in breve una delle tre-quattro firme di maggior prestigio di questa fantascienza dei primordi, si trasformò in una sorta di fabbrica di romanzi a getto continuo (a partire dalla celebre serie di Captain Future, di cui scrisse gran parte dei libri): space-operas quasi sempre una la fotocopia dell’altra, scritti sbrigativamente per far cassa, ché i compensi erano magri e s’aveva da faticare per la pagnotta. Quei romanzi che gli diedero la fama di world smasher perché in uno sì e l’altro pure Hamilton faceva fare alla Terra, al Sole o qualche altro corpo celeste una brutta fine. Nei racconti, di cui scrisse ugualmente gran copia, mostrò altra cura stilistica e inventiva narrativa. La sua maturazione stilistica ebbe luogo soprattutto a partire dalla metà degli anni ’40, ed è facilmente ipotizzabile un’influenza benefica sulla sua scrittura da parte di Leigh Brackett, con la quale si sposa nel 1946 e che fu autrice dai notevoli talenti letterari, dotata di una solida padronanza della lingua. Hamilton resterà un romanziere d’avventura, un cantore degli spazii e del sense of wonder primordiale, ma le serie si approfondiranno negli scenari e nei personaggi, lo stile si farà più ampio, fino all’avventura pienamente matura del ciclo dei Lupi dei cieli nei tardi anni ’60 che conclude idealmente la carriera dello scrittore. Tuttavia, già negli anni ’30 e perfino prima i racconti hamiltoniani mettono in luce le potenzialità dell’autore, capace di coniugare il fascino della sfrenatezza di quel sense of wonder primevo con l’utilizzo consapevole dei cliché di genere, di far uso di una lingua più preziosa e meditata che nei romanzi, e di una modulazione molto più varia di argomenti e soluzioni: L’isola degli irragionevoli (The Island of Unreason) del 1933 è l’esempio più noto, ma è ben lungi dall’essere l’unico o anche soltanto episodico. Del resto questo stesso racconto d’esordio mostra già le qualità che Hamilton verrà affinando nel prosieguo della sua carriera.
 Hamilton con la moglie Leigh Brackett

Racconto horror e di fantascienza, avventura esotica e fantasticheria romantica. Un lavoro senza dubbio in tutto organico alla sua epoca e sede di pubblicazione. Hamilton vi mescola l’ispirazione merrittiana dell’avventura in luoghi remoti e sconosciuti, il gusto per l’esotismo e la mitizzazione romantica di perduti passati di gloria e barbarie; e insieme, evidenti influssi di Lovecraft. Un racconto compiutamente di genere, e che, pure, letto oggi conserva un fascino che non è solo dato da passione antiquaria, ma nasce da pagine dove il ritmo del racconto, le parole, gli scenari evocati e le corde emotive sollecitate sono tutti in funzione di un meccanismo narrativo montato con perfetta professionalità e gusto per il raccontare.

Il tema dell’invisibilità è ricco di fascinazione e riflessi orrorifici quanto fertile terreno di speculazione (fanta)scientifica, e certo non era nuovo neppure ottanta e passa anni fa: a volersi limitare agli esempi più prossimi a Hamilton ci sono That damned thing di Ambrose Bierce e The invisible man di H.G. Wells. E certamente il racconto di Hamilton non porta nessuna innovazione. Tuttavia l’invisibile mostro aracnomorfo cui egli dà vita nel racconto non è per questo meno suggestivo. La sua visione (o non visione) è fatta precedere da un lavoro preparatorio che monta l’attesa e l’ansia del lettore. La figura dell’archeologo morente, arso dal sole del deserto maghrebino, che introduce il racconto della solitaria spedizione ed esplorazione della classica città perduta è condotto con una mano padrona dei meccanismi emotivi del lettore e degli strumenti narrativi atti a innescarli. La città in rovina, i resti di una civiltà sconosciuta, non solo incredibilmente remota nel tempo, ma quasi inumana nella sua diversità, gli indizi di una scienza ancor più disumana e ormai dimenticata. La scoperta del ciclopico tempio invisibile, l’introdursi dell’archeologo innominato al suo interno. E poi l’arrivo dell’essere e il confronto con esso. La progressione è scandita in modo da ottenere il miglior effetto ansiogeno, fino a far conflagrare il conflitto tra l’uomo e il mostro, la bestia forse immortale, sopravvissuta alla polverizzazione della città e della civiltà che l’avevano adorata e temuta (adorata perché temuta), la bestia sicuramente più antica della stessa città. Con la forza della disperazione l’uomo si metterà in salvo, riuscendo anche a ferire il dio-mostro – la scena è descritta con maestria da Hamilton, attingendo alle risorse di un linguaggio ricchissimo di coloriture emotive. Non è per caso che siamo nel regno di Lovecraft, Howard e Clark Ashton Smith: Weird Tales. Sarà però il deserto, più remoto e divino del dio-mostro, a punire la sua hybris, la sua pretesa di volersi impicciare in faccende nelle quali è meglio che l’essere umano non entri.

Semplice e lineare, come si vede. Commerciale. Però per non scadere nella corrività, e anzi continuare a sedurre dopo più di ottant’anni, bisogna saperci fare.

La prima pubblicazione italiana del racconto risale al 1980 sulle grandi, riccamente illustrate pagine del fascicolo numero sei di Aliens, rivista tanto bella quanto assai poco di successo.
     

That damned thing, di Ambrose Bierce, in inglese: http://www.sff.net/people/doylemacdonald/L_damned.htm

[fantascienza] I contemporanei - Salvador (Id. - 1984) di Lucius Shepard (n.1947)


Realismo magico nordamericano è una locuzione che si incontra spesso in relazione alla narrativa di Shepard; Salvador, che risale agli inizi della sua carriera ne dà conto. A volte non è facile ascrivere alla fantascienza quel che egli scrive, e di sicuro lo specifico fantascientifico di questo racconto è molto labile, quasi del tutto tangenziale al tema centrale; forse è per questo che alla prima lettura che ne feci, vent'anni fa quando fu pubblicato sul Millemondiestate 1988, non mi convinse per nulla. Tuttavia, tornarvi oggi con altra maturità mi fa rendere conto della forza del nucleo speculativo del racconto (oltre la bellezza del puro racconto); e la speculazione sulle umane sorti e progressive, e non meno su quelle presenti, è caratteristica determinante della fantascienza che non sia solo escapismo.

La storia è presto detta. Lo scenario sul quale si apre la narrazione è quello di una guerra, non poco ambigua e lasciata nell'indeterminato, in una dimenticata landa dell'America Centrale. Una pattuglia di soldati statunitensi scanna e si fa scannare nel Salvador lungo la via per il fine della guerra: l'occupazione del Nicaragua sandinista. Tutta la prima parte del racconto ha un solido impianto realista che parte da qui; della guerra viene mostrato l'effetto sui suoi attori: la noncuranza che innesca verso la morte altrui, il terrore per la propria che trasforma il soldato in macchina per la sopravvivenza. La droga (istituzionale, non illegale) di cui i  soldati fanno largo uso come unico mezzo per reggere alla pressione appare non solo come ultimo mezzo di manipolazione della coscienza e della biologia dell'uomo funzionalizzato in miles, ma come un approdo terminale di una lunga tradizione: dal ruspante cicchetto di grappa che veniva distribuito ai soldati italiani della I Guerra Mondiale, risalendo al sacralizzato rituale con il quale i guerrieri nordici si trasformavano in Berserker, gli invasati dall'Orso, bevendo l'infuso di Amanita muscaria (rivediamo qualcosa di molto simile nel "Bianco" necessario alla sopravvivenza dei Jem'Hadar, i brutali soldati del Dominio in Star Trek: Deep Space 9). Il degrado di sé stesso come uomo è mostrato nelle parole e nei pensieri del protagonista Johnny Dantzler, e di riflesso nelle parole e azioni dei suoi commilitoni, nella graduale trasformazione in potenziali nemici di ciascuno per ciascuno degli altri.


Ma c'è una ragione se Lucius Shepard è stato uno degli scrittori di sf più importanti degli anni '80, con una sventagliata di novelle, racconti e un paio di romanzi con i quali ha imposto una narrativa a elevato contenuto di riferimenti culturali, letterarii, politici, e di riflessione su di essi; e se negli anni '90, e ancora oggi, ha mantenuto, per quantità e rilievo delle opere, la sua posizione di autore magari non di facile e immediata fruizione, ma dalla voce singolare, alta e lontana da facili mode. E la ragione è che Shepard è capace di arrivare al climax di un racconto come Salvador sgretolandone la struttura realistica con l'innesto dell'elemento magico; elemento che ci mostra connaturato all'ambiente culturale di quel Salvador indio, ancora memore della civiltà Maya, che illustra con sguardo disincantato e ricchezza di stile. La diversione in una dimensione sospesa dalla realtà arriva al lettore con naturalezza. Shepard è abile nel non sciogliere il dubbio se gli eventi che accadono a Johnny siano veramente effetto di una techne magica oppure frutto allucinatorio del suo abuso di droga e del senso di colpa, o combinazione di entrambi. Sta di fatto che la carneficina che il soldato Johnny fa dei suoi compagni di pattuglia, che sia per la droga, lo stress o per magia, precipita al suo punto terminale lo smembrarsi e annientarsi della sua coscienza; ma l'evento è centrale perché la ricomporrà secondo un nuovo ordine. Così come Shepard ricompone l'unitarietà del racconto, riportandolo a concrete basi di realismo nel finale. La vicenda ha fine negli Stati Uniti, dove il soldato Dantzler diventa il reduce Dantzler, il civile Dantzler. La guerra ha reso Johnny vuoto; la ricomposizione della psiche di Johnny avviene a scapito della sua umanità, egli è poco più di uno zombie ridotto alle funzioni apparenti dell'uomo: lavora, mangia, si muove. Sussiste. Pure, la plasticità della psiche conosce dei limiti, e vivere l'estremo fa scontare l'impossibilità di ritrovare la coesione in uno specchio andato in frantumi e rimesso insieme come i pezzi di un puzzle; quando un suo amico lo inviterà, allegramente, a una festa prima della sua partenza per la stessa guerra dalla quale Johnny è uscito stravolto nella sua umanità, l'ex soldato, automa dalla forma d'uomo, reagisce allo stimolo al quale è stato condizionato a rispondere: identifica il nemico, assume la droga, e... e Shepard si ferma qui.

Nella stagione inaugurata a metà degli anni '80 e durata un decennio e poco più, i Millemondi sono stati autentici scrigni di tesori gettativi alla rinfusa, in una sorta di anonimato. I Millemondi erano dei mallopponi di centinaia di pagine, collegati a Urania, e hanno variato periodicità nel tempo (semestrali, quadrimestrali, non ricordo se inizialmente negli anni '70 fossero partiti come annuali). Nel periodo interessato hanno offerto una ricca messe di racconti, novelle e occasionalmente romanzi; il volume dove è pubblicato Salvador presenta almeno altre tre gemme vere: Giù nella riserva di Chad Oliver, Il pianeta dello stupro del mai abbastanza compianto Thomas Disch e Il collezionista di George R.R. Martin (quando ancora non perdeva tempo a ingrassare il portafogli con le infinite saghe fantasy). Oltre a racconti interessanti di Simak, Silverberg, Aldani, Asimov. Michael Bishop, Leiber, Benford. E "I fiori di Edo", tra i più noti di Bruce Sterling.


lunedì 19 aprile 2010

Viaggio angelico di Minnie Alzona (1921-2008) - Allegoria dell'amore, della morte e della follia


Divergo un'altra volta dalla fantascienza per una lettura che merita.

Amo molto le sfasature temporali.

Leggo oggi, nella ristampa del 1992, questo romanzo pubblicato nel 1977; e che narra, in forma paramitica e fortemente allegorica, eventi del XIII secolo. I piani temporali si intersecano, sovrappongono e rincorrono molto più di quanto si immagini, come cercherò di illustrare.

A prima vista romanzo dà l’idea di un termine esagerato, l’opera appare se mai una novella di non disprezzabile lunghezza. Ma sono il respiro ampio, la concezione ambiziosa e la ricchezza tematica ed espressiva a fornire invece ad esso piena ragione.

Racconto storico; allegoria simbolica; romanzo di formazione; pamphlet femminista; romanzo psicologico. E ancora: indagine suggestiva, da angolazione contemporanea, della spiritualità medioevale; e tentativo di interpretare l’anima moderna al tornasole del mito medievale. Esposizione contraddittoria delle tensioni religiose e dello scetticismo naturale dell’uomo. Opera indubbiamente complessa – e compressa.

Minnie Alzona racconta di una di quelle esplosioni di follia che percorsero il mondo antico e ancor più il medioevo, uno di quei comuni fenomeni di parossismo profetico e plagio collettivo: la crociata dei fanciulli. Fenomeni che vorremmo forse confinati a ere oscure, precedenti la nostra di illuminati figli della ragione; ma l’Illuminismo è una patina sottile sulla nostra civiltà, per quanto spettacolari siano le conquiste cui ci ha condotti, e noi siamo figli davvero molto distratti della ragione: pare quasi che l’essere umano sia incapace di assorbirne realmente i principi, e soggiaccia con voluttà al suo lato oscuro, irrazionale, religioso. E dunque, se ci sorprendiamo a bearci per la nostra superiorità su un tempo di folli, ingenui invasati che partorivano crociate di fanciulli, vale la pena ricordare eventi come Waco e la strage dei Davidians (http://en.wikipedia.org/wiki/David_Koresh) e tornare con i piedi per terra. Se poi arriviamo a tempi ancora più vicini, la tentazione di concludere che non ci siamo mossi dal 1212 si fa deprimente. Questo è lo scenario, lo sfondo storico, umano e psicologico dentro il quale la scrittrice incastona la sua storia di un’anima. Anzi, attraverso gli occhi di una, di una pluralità di anime. Romanzo psicologico e di formazione, sulle pagine di Viaggio angelico osserviamo la dolorosa e insistita seduta di autoanalisi di Allys, la protagonista, giovane donna al momento in cui stende le sue memorie – il romanzo - e appena fanciulla nel tempo in cui esse si svolgono. Nella tessitura accorta, mirabile, di anacronismo su anacronismo da parte di Alzona, Allys narra con sensibilità squisitamente nostra contemporanea i turbamenti di uno spirito medievale, le sofferenze di una giovinetta ribelle alle maglie fitte e costrittive dell’epoca. Narra ora con velato pudore, e ora con inavvertita sincerità, la propria lotta interiore per trovare un’identità psicologica; e il percorso fatto per giungervi. Seppure effettivamente ella vi giunga. Narra gli eventi che, nel comporre la storia esaltata – più che esaltante – della crociata si innervano e innestano in quelli più privati di Allys. Esplora i rapporti che ambiguamente instaura con gli altri personaggi della sua narrazione. Rapporti ambigui non perché equivoci, ma perché Allys solo nel dipanarsi della sua propria analisi, nella sua ricerca dei propri moventi ed emozioni, ricostruisce faticosamente – né sempre riesce a chiarire per sé – la trama ermetica di queste relazioni. Vuoi perché è ella stessa a volte a nascondersi i propri reali intendimenti, sentimenti e pensieri; vuoi perché il peso dei condizionamenti culturali è schiacciante e confondente. Vuoi, infine, perché il giocare di Minnie Alzona con il fascino degli anacronismi rende criptica al lettore stesso una ricostruzione esatta e la narrazione sfuma e trascolora nel mito puro. Si fa allora difficile rintracciare, all’interno del percorso mentale e letterario di Allys, i limiti e i contorni della sua esaltazione infantile, del gusto e della passione romantica per l’avventura, del tormento per l’inadeguatezza della propria tensione religiosa, del rifiuto inconsapevole eppure ben presente alla sua coscienza del ruolo futuro di moglie sottomessa e giovenca da riproduzione che il suo status di appartenente alla nobiltà rurale franca le riservava. Difficile capire quando, come e dove tutti questi fenomeni delimitino, confluiscano e infine sfumino nell’amore che ella prova, in modi così diversi, per Etienne, Eustace, Pierre e Al-Kamil. Perché tutta la storia, tutto il racconto di Allys perderebbe di senso se il suo (chissà quanto) modernissimo spleen, e in particolare il suo rifiuto delle convenzioni sociali, non fosse completato da questa sua (ma chissà se) antica tensione fantastica e ideale, che la protagonista non riuscirà mai a tradurre in realtà erotica. Neppure, se non per allusioni o minimi accenni – pur così audaci -, in confessione cosciente a sé stessa.

Eustace ci appare il personaggio meno riuscito, così simile a un monolite perduto dentro la sua fede incondizionata, specchio e riflesso della reclusione dal mondo rappresentata dalla sua cecità. E però il suo scarno ritratto ci restituisce appieno la dimensione della fede come atto solipsistico di separazione dal mondo reale. L’amore per Eustace è, per Allys, l’amore ingenuo dell’infanzia, è l’amore che si dona. Un amore che con il tempo perde consistenza e si vuol sempre recuperare. Amore che la memoria e la coscienza conservano come rifugio mitico ideale per tutta la vita. E’, anche, l’amore per l’ideale vagheggiato verso il quale tendiamo, senza realmente volerlo raggiungere.

Etienne, il pastorello che si fa profeta, il seduttivo allucinato che suscita entusiasmi e folle umane con il suo carisma è l’infatuazione romantica di Allys, il cedimento alla nostra irrazionale pars destruens. L’amore che più di ogni altro condizionerà le sue scelte e la sua vita; e meno di ogni altro sarà capace di confessare a sé stessa, benché forse sia quello di cui ella è più cosciente. Bruciante, rimpianto, incombusto. Conserva le sue qualità perché la realtà non ha occasione di farne a brani la sostanza.

Pierre, il chierico che per amore inconfessato della ragazzina, che confesserà solo alla donna e solo per lettera al momento di uscire dalla sua vita, accompagnerà Allys ed Eustace nella loro avventura al seguito di Etienne, è l’amore più sotterraneo eppure persistente di Allys. Figura paterna capace di farsi cameratesca, sostituto di quei genitori che Allys rifiuta (ma che prima l’hanno rifiutata). Modello e puntello sia spirituale che intellettuale. Si rivelerà, nel finale, così fragile e umano da uscire dal suo stereotipo e assumere piena consistenza: figura di sradicato e incompiuto. Di animo tormentato, lacerato dalla sua viltà e dal desiderio infine confessato. Dal senso di colpa.

Al-Kamil, califfo e sultano d’Egitto, discendente del Saladino. Padrone di Allys dopo che la ragazzina, fallita miserevolmente l’avventura dei crociati straccioni e bambini, viene venduta ai suoi emissari nel mercato di Algeri. E’ per suo incarico che Allys stende il resoconto degli avvenimenti che l’hanno vista coinvolta in questa sorta di Ver Sacrum inscenato da una turba di poveri dementi. La sua figura resta in controluce, quasi del tutto affidata alle parole indirette di Allys, ai sentimenti così conflittuali che ella prova per il suo padrone, il nemico della sua - tiepida - fede, l’intellettuale curioso e apparentemente troppo superiore e distaccato per essere davvero coinvolto nei sentimenti. Eppure il solo che, alla fine dei giochi, sia realmente gentile con lei. Il solo che le resti. Che sia il mascheramento di un uomo raffinato o il nobile pudore di chi non vuole esercitare il proprio potere, l’interruzione del narrare di Allys ci preclude di saperlo. La sensualità che preme, neppure questa volta riesce a fuoriuscire.

La scrittura di Minnie Alzona guida alla perfezione il lettore all’interno di questa fittissima, intricata trama. E’ ricercata e preziosa, mai immediata, talvolta perfino contorta. Ma ripaga sempre lo sforzo di decrittarne il senso profondo. I paragoni che mi vengono alla mente sono tutti tratti dal gusto: il fraseggiare è pastoso, lo si assapora lentamente come una crema pasticcera ricca di aromi intensi e profumi spessi. Lo stile è elaborato, mai banale, come un intingolo di carni nobili.

Il periodare è teso all’elaborazione di una materia che evoca il mito e dà corpo all’allegoria della vita e dell’anima che è messa in scena. I brevi capitoli in cui è suddiviso il romanzo ne scandiscono un ritmo che viene a comporre quasi più un poema in prosa che un romanzo vero e proprio.

E’ quando non ce lo si aspetta, che spesso ci si imbatte in un tesoro.

domenica 11 aprile 2010

Biblioteca di fantascienza II - Lino Aldani (1926-2009)

Lino Aldani è stato uno degli apripista della via italiana alla fantascienza, e probabilmente il suo autore migliore. Scrittore mai banale, ha riversato nei suoi scritti una visione morale e politica della vita e dell'arte severa e rigorosa; se non si fosse dedicato a una narrativa in Italia più negletta che altrove avrebbe senza dubbio raccolto i riconoscimenti che il suo notevole talento meritava.  Piccola consolazione, Aldani era spesso tradotto e ben stimato all'estero.

Anche i suoi sparsi romanzi hanno spesso lasciato il segno, ma soprattutto la sua produzione breve è stata copiosa e ricca di titoli memorabili. Racconti come Buona notte, Sofia (noto anche come Onirofilm); Visita al padre; Screziato di rosso; Trentasette centigradi; Quo vadis, Francisco?; La casa femmina; La costola di Eva; Dove sono i vostri Kumar?; Scacco doppio; e la lunga novella Eclissi 2000.

La sua narrativa breve è stata raccolta dall'editrice Perseo (oggi Elara) in una serie di quattro volumi.

Millennium raccoglie testi di Ugo Malaguti oltre che di Aldani. Tra le opere di Aldani, Dove sono i vostri Kumar?, Scacco doppio e il romanzo Quando le radici.








In Ontalgie spiccano Visita al padre; Screziato di rosso; La costola di Eva; Quo vadis, Francisco? oltre all'eponimo Ontalgie.









In Aria di Roma andalusa troviamo la lunga novella Eclissi 2000; lo straordinarioTrentasette centigradi; e La casa femmina, oltre alla novella da tempo irreperibile Sheòl.








Febbre di luna, infine, è rischiarato dalla presenza del capolavoro Buonanotte, Sofia, il racconto italiano di fantascienza (giustamente) più celebre e (giustamente) più antologizzato, in Italia e altrove. Una storia scritta nell'Italia dei primi anni '60 e che regge il confronto con il miglior cyberpunk di 20-30 anni dopo.



Aldani esordisce nel 1960, ma è solo nel 1977 che pubblicherà il suo primo romanzo, il breve e intenso Quando le radici, un testo che mostra un'Italia (allora) futura, per noi oggi dolorosamente riconoscibile. Quando le radici è un romanzo molto più attuale oggi che non quando venne scritto, e la sua attualità non è nulla di cui ci si debba purtroppo rallegrare. La prima edizione fu per i tipi dello S.F.B.C., l'ultima e recentissima in Urania Collezione.























In Urania Collezione è stata ristampata non molto tempo fa anche la lunga novella Eclissi 2000, affascinante space opera ambientata su un'astronave generazionale. Il volume è completato da alcuni racconti, tra i quali Trentasette centigradi e Sheòl.











Nel segno della Luna Bianca è un breve, atipico romanzo fantasy. Scritto insieme a Daniela Piegai fonde abilmente una trama avventurosa e un rigoroso idealismo, in un'ambientazione medievale molto realistica e insolita per il fantasy.
La croce di ghiaccio riprende, ampliandoli, i temi religiosi del racconto Quo vadis, Francisco?, oltre a essere uno dei più bei testi di fantascienza in cui il gioco degli scacchi abbia un ruolo di primo piano.












In Themoro Korik, il suo ultimo romanzo, pubblicato nel 2007, Aldani ha affrontato il tema dell'alieno in modo inconsueto e affascinante: ricercando (in chiave fantascientifica) l'origine del popolo zingaro.












Pioniere, Aldani lo fu anche della critica in campo fantascientifico. A lui si deve se non il primo certamente uno dei primi testi in materia, risalente ai primi anni '60.











Di seguito la copertina del numero del 1°-15 gennaio 1960 della rivista Oltre il cielo dove venne pubblicato il primo racconto di Lino Aldani Dove sono i vostri Kumar? e quella di una delle sue prime pubblicazioni fuori dei patrii confini.



Il primo lemma della Biblioteca: http://olivavincenzo.blogspot.com/2010/03/biblioteca-di-fantascienza-i-douglas_9981.html