lunedì 24 dicembre 2012

I contemporanei – La sindrome di Wolverton (2002-2008) di Alan D. Altieri (n.1952)




Per il Vero Lettore uno dei piaceri più genuini è rappresentato dall’erratico vagabondare tra vecchi fascicoli di riviste da disseppellire, antologie poste ormai a basamento di vertiginosi pinnacoli librarii, cumuli disordinati di romanzi e volumi vari dimenticati da anni in angoli altrettanto dimenticati della casa. È un’attività riservata in particolare a quelle occasioni nelle quali la capricciosità  del Vero Lettore, che è lettore difficile e bizzoso, si muta in vera e propria incontentabilità. Non c’è nuovo racconto che soddisfi, articolo recente che stuzzichi la curiosità. E l’impresa di mettersi a leggere un romanzo è fuori discussione: un paio di frasi e si sbuffa incontentabili. Tanto meno si è nella disposizione d’animo di affannarsi su ponderosi saggi. Si esplora, dunque. Si torna sugli antichi passi. Si rilegge qualcosa che si è amato. Oppure si trova il tempo, il modo e l’occasione di leggere quanto si è tralasciato un tempo.

È il 2003: Robot, la rivista che è un mito per ogni lettore italiano di sf, è appena tornata in vita, e sul secondo fascicolo di questa sua nuova incarnazione viene pubblicato La sindrome di Wolverton, racconto a firma di Alan D. Altieri. Confesso subito il mio peccato: non ho mai letto nulla di Altieri. Nessuna pregiudiziale: se non forse che le tematiche affrontate in genere dallo scrittore milanese, o meglio le angolazioni visuali così spintamente techno-noir-thriller che utilizza per scrivere, non rientrano tra le mie preferite. Per inclinazione personale probabilmente potrei essere tentato dalla trilogia storica di Magdeburg. Mi attrae e al contempo respinge il suo stile, incontrato in alcuni articoli. Goticheggiante, quasi barocco, uno stile che seduce ma sazia rapidamente, come una cioccolata dolcissima. Ma è soprattutto la mole dei suoi libri ad avermi tenuto lontano. Passati i verdi anni, devo avere una motivazione davvero d’acciaio per imbarcarmi in letture pletoriche come quelle proposte da Altieri; e uno stile che promette di saziare in breve non è esattamente quanto invogli a iniziare letture di centinaia e centinaia di pagine. Ecco allora che un breve racconto si prospetta come il miglior viatico per eventuali futuri approfondimenti – e per allontanare la capricciosità domenicale da insoddisfazione di lettura ;-).
Il numero 42 di Robot, secondo della nuova serie, sede della seconda edizione del racconto

Come è noto, “Alan D.” è il nom de plume di Sergio Altieri. Terminata la lettura del racconto pubblicato su Robot n.42 si fa qualche ricerca in rete e si viene a sapere che esso era alla sua seconda pubblicazione, dopo quella avvenuta l’anno prima su M Rivista del Mistero, e che una terza avverrà poi nel primo volume antologico dei racconti di Sergio/Alan: Armageddon – Scorciatoie per l’Apocalisse. Si disseppellisce il volume da sotto un altro pinnacolo librario. Non fosse che per averlo a portata di mano, dal momento che la lettura del racconto è stata senza dubbio soddisfacente e c’è tutta l’intenzione di leggere altro di Altieri. La curiosità spinge a scorrervi le prime righe del racconto appena letto e, una volta registrate differenze che indicano una revisione non da poco del testo, a effettuare una rilettura completa. Se tra la prima (anzi seconda) edizione e la seconda (anzi terza) la trama non muta, tuttavia l’editing stilistico e di scrittura non risulta indifferente. E con pieno vantaggio del testo dell’edizione più recente! Ignoro come fosse il testo dell’edizione originale, ma in ogni modo tra quella apparsa su Robot e quella contenuta in Armageddon si guadagna un’asciuttezza e una secchezza verbali e del periodare che pur lasciando intatta la cupezza gotica delle atmosfere e la violenza quasi barocca delle situazioni e dei personaggi (anzi esaltandola) la depurano di quella ridondanza e del compiacimento che renderebbero indigeribili testi più ampi di un breve racconto. Uno stile sempre (sovrac)carico, in qualche modo, ma non stucchevole, che rende al meglio quella vivida visività cinematografica che viene ad Altieri dalla sua importante frequentazione della sceneggiatura hollywoodiana e televisiva. Alla ricerca di sensazioni forti di lettura si è soddisfatti di incontrare una scrittura così corposa e robusta; ma anche essenziale e chirurgica, verrebbe da dire. Un breve esempio:

L’uomo emerge dal fumo e dai miasmi. Nudo come un verme sul ghiaccio, nel vento. Ha il torace coperto di arabeschi di sangue raggrumato. Il suo mento gronda sangue ancora fresco, scintillante.

L’uomo cammina lontano dal fulcro degli incendi. Aggira mucchi di rottami irriconoscibili ancora in fiamme. Ignora la morsa da annientamento dei meno quarantadue gradi Celsius. Avanza sulla fanghiglia che diventa gelida, che comincia a solidificarsi.

Nella precedente versione su Robot suonava così:

Un uomo emerse da uno squarcio nella parete semi-cilindrica del Blocco Principale, sventrato dalle esplosioni.

Un uomo dal torace coperto di arabeschi di sangue raggrumato.

Un uomo nudo come un verme nella morsa da annientamento dei quarantadue gradi Celsius sotto lo zero.

Camminò sempre più lontano dal fulcro caldo degli incendi. Aggirando mucchi di rottami irriconoscibili ancora in fiamme, avanzando sulla fanghiglia gelida che stava già cominciando a solidificarsi. Anche l’altro sangue, quello ancora fresco che scintillava sulle sue labbra, sul suo mento, cominciò a solidificarsi.

La rete riserva un’ulteriore curiosità. Il testo del racconto è infatti reperibile sul forum di Altieri: http://alanaltieri.forumfree.it/?t=13533263. E a un’occhiata sommaria il testo sembrerebbe una versione intermedia tra l’edizione su Robot e quella in Armageddon. Sia come sia, la storia resta la stessa nella sua essenza :-).
Armageddon, pubblicato nel 2008, presenta la terza edizione del racconto.

Nell’introduzione al racconto su Armageddon, Altieri riconosce il chiaro debito verso il superbo racconto Who goes there? Di John W. Campbell jr., dal quale è stato tratto il film La Cosa diretto da John Carpenter e che in precedenza aveva ispirato la pellicola di Howard Hawks La Cosa da un altro mondo. Debito di atmosfera e ambientazione in primo luogo. Di potente carica d’orrore e sospetto. Una natura soverchiante e la propensione umana alla paranoia, esaltata dalle condizioni di vita estrema. In Altieri, tuttavia, la minaccia si sposta più modernamente dall’esterno all’interno. Non più un invasore alieno ma l’uomo stesso: l’individuo e la società di cui è parte. La “Cosa” è l’essere umano. L’umanità. La natura umana. E se è vero che La Sindrome di Wolverton è principalmente un racconto d’azione – e di magnifica azione – non è men vero che la pressione e l’oppressione psicologiche, la temperie fobica nella quale sono immersi i protagonisti del racconto è resa perfettamente da Altieri, con economia di parole al riguardo, ma senza venir meno alla chiara evidenziazione del fatto. Senza venir meno alla cifra più evidente da subito del suo narrare: la disperazione. Quanto meno apparentemente, non vi sono redenzione né speranza nel suo universo: in fondo non è casuale che il sottotitolo di Armageddon sia: Scorciatoie per l’Apocalisse. Non è casuale il setting del racconto, la Stazione Wolverton, della Gottschalk-Yutani Oil: Mastodontico, onnipotente meta-megaconglomerato planetario. Sistema che è tutti i sistemi, macchina che è tutte le macchine. Senza dubbio un cliché di tanta fantascienza, soprattutto a partire dagli anni ’50, ma un cliché efficace. E che qui colpisce nel segno per la sua disarmante verità. Altieri si premura di illustrarne l’efficacia con la smaliziata perizia del narratore di genere dalla penna accurata e dal solido vigore narrativo. Una scrittura mai scontata, neppure lì dove sembra più appoggiarsi agli stilemi di genere: c’è sempre una parola, un accenno o un sottinteso che rimandano a un senso più elaborato. Senza che il ritmo ne risenta neppure in parte.

È antropologicamente diversa l’umanità di Altieri rispetto a quella di Campbell (e anche di Hawks e Carpenter). È pertanto perfettamente consequenziale alla sua disperazione, e alle disperate premesse cui accennavo più sopra, la chiusa del racconto, quando l’ispettore capo Keller, che ne è la protagonista principale, definisce con implacabilità pari alla precisione il significato ontologico della “Sindrome di Wolverton”: La Sindrome di Wolverton è un dialogo. Con il lato oscuro della coscienza. E dopo aver ucciso i due uomini che (forse) si frappongono tra lei e la diffusione planetaria della Sindrome ella conclude: Ora quel dialogo può continuare.

La natura, l’umanità e la società di Altieri sono le nostre, appena appena nel futuro, appena appena più brutalizzate, violentate, distorte e sfruttate delle nostre. Una natura, un’umanità, una società a pochi anni di distanza nel pensiero economico uniformante che ha (s)governato gli ultimi quattro decenni della storia planetaria, inducendo un parossismo psicotico di consumismo che sta raggiungendo rapidamente il suo punto apicale e il conseguente declino verso l’approdo terminale da una “consumabilità” assoluta di tutte le cose e i viventi a, di fatto, il loro effettivo consumo ed esaurimento. La società e l’umanità di Altieri sono pronte all’opera: la base antartica Wolverton è l’avamposto deputato allo sventramento e alla devastazione dell’ultima frontiera naturale intatta, quella antartica appunto. Lo scopo: l’estrazione degli immensi giacimenti di petrolio sottostanti. Fino a consumare, sempre più rapidamente, anche quelli.

Nella migliore tradizione della fantascienza catastrofica la natura violentata reagisce con violenza contro il parassita che la infesta e infastidisce. Negli individui sottoposti alle condizioni estreme della stazione Wolverton insorge un virus atto a indurre una follia omicida e autodistruttiva. Un virus che, non è davvero difficile scorgerlo, null’altro fa se non far emergere la realtà del comportamento umano, quel parossismo predatorio e consumistico di cui sopra che non risparmia nulla e nessuno, neppure i propri simili, neppure se stessi. È l’uomo stesso, la sindrome. È malattia per sé.

Senza scomodare Freud e la sua pulsione di morte, registriamo con rassegnazione che l'evoluzione non ci ha attrezzato per governare un sistema della complessità del nostro pianeta, e che difficilmente avremo il tempo per attrezzarci visto che stiamo dimostrando di non avere intelligenza sufficiente a comprenderne le necessità.


Difficilmente sarà come racconta Sergio/Alan, è ovvio. Continuando sulla strada intrapresa è più probabile che a porre fine all’avventura elettrizzante degli ultimi secoli di Homo sapiens saranno fenomeni molto più “banali” e “prosaici”: guerre per l’acqua, per le fonti di energia, per l’accaparramento delle terre coltivabili, per lo sfruttamento di mercati del lavoro a costo praticamente zero. E altre amenità del genere, magari la “semplice” pressione demografica.      

Al netto delle amare riflessione indotte, come si diceva il racconto di Altieri resta una magnifica storia d’azione. Concitata, sincopata, dura. Senza mai scadere in una violenza che sia puramente gratuita. Violenza a volte anche pervasiva, ma sempre perfettamente giustificata dalle situazioni e dall’analisi psicologica e sociale. Una storia d’azione che non rinuncia a far riflettere, e riflettere a fondo. E lo fa con semplicità pari all’efficacia.