sabato 29 maggio 2010

I contemporanei – Parole (Words - 1985) di Naomi Mitchison (1897-1999)


Naomi Mitchison ha ottantotto anni quando viene pubblicato questo racconto, e continuerà a scrivere praticamente fino alla morte. Nata in una antica famiglia dell’aristocrazia scozzese (gli Haldane) che concentra le sue figure di rilievo proprio nello scorso secolo, lungo tutto l’arco della sua vita sarà impegnata sul fronte delle tematiche femministe. E’ stata una scrittrice assai prolifica, dedicandosi alla saggistica, alla poesia, al romanzo storico e di costume, alla narrativa per ragazzi e a quella fantastica. Nel campo strettamente fantascientifico ha prodotto un pugno di romanzi e racconti, tra i quali spicca Memoirs of a spacewoman (1962), tradotto in Italia prima come Diario di un’astronauta e poi Memorie di un’astronauta, una space-opera dove l’accento è tutto sulla conoscenza, la sua dimensione biologica e relazionale e i problemi connessi, resi in una chiara ottica femminile e mancando l’elemento più propriamente avventuroso.

Parole è un breve racconto che nonostante la collocazione, tanto originaria che italiana, in antologie di fantascienza al femminile e femminista in realtà non è così caratterizzato in tal senso. Certo, protagonista è una figura di scienziata, la dottoressa Toni, delineata con cura dall’autrice, ma questo è tutto. Il tema centrale del racconto verte su questioni percettive e cognitive che si possono allargare, a ben vedere, a tutta una serie di considerazioni sulla fantascienza e più in generale la letteratura.

La protagonista è una neurofisiologa che va compiendo studi appunto sulle percezioni sensoriali. Il suo lavoro sperimentale va oltre la biologia e fisiologia dei sensi comunemente intesi (tatto, vista ecc.) e la conduce dunque a sviluppare metodologie atte a risvegliare, nelle sedi deputate del cervello, le strutture cellulari preposte a sensi che nell’uomo non sono attivi.

Con lo sperimentare in prima persona gli effetti cognitivi di queste nuove percezioni, la donna si troverà ad affrontare la questione decisiva dell’impossibilità di descrivere tali effetti, di rendere con gli strumenti del linguaggio le proprie reazioni. E’ il cuore del racconto. Dante, che in realtà ben possedeva gli strumenti linguistici per esprimere l’ineffabile, nel Paradiso insiste sull’ineffabilità del divino. Però il divino, in quanto creazione dell’uomo, rientra nella sfera dell’esperienza umana. E infatti l’ineffabilità nel caso di Dante è la misura iperbolica e simbolica dell’inattingibilità della dimensione divina da parte dell’intelletto umano.

Se ci poniamo invece nell’ottica di percezioni sensoriali ignote all’uomo, dunque del tutto al di fuori del suo patrimonio esperienziale, vediamo che l’ineffabilità si fa problema tecnico e, di riflesso, filosofico. Quel che Naomi Mitchison fa, è usare dei moduli della fantascienza per innescare considerazioni in prima battuta letterarie in senso generale, e che successivamente si possono individuare come specifiche della science fiction.
Copertina di una biografia dedicata all'autrice

Le parole sono gli strumenti dello scrittore. L’uomo è faber anche, forse soprattutto, di idee. La definizione è centrale perché l’idea possa essere comunicata, veicolata ad altri e così condivisa. Perché divenga patrimonio comune e quindi strumento. La parola è la definizione divenuta simbolo dell’idea e materiale utilizzabile dall’uomo. Alla parola, come definizione dell’idea sottesa, l’uomo giunge attraverso l’esperienza. E’ la vecchia questione: come è possibile spiegare il colore a chi è cieco? La dottoressa Toni si trova appunto in questa condizione. Che è possibile assumere anche come metafora di quel faber particolare che è lo scrittore di fantascienza, che deve trovare le parole per descrivere mondi, idee, fatti che non esistono. Che sono, al meglio, congetturali. La giovane giornalista che va a intervistare la scienziata si troverà proprio nella posizione dello scrittore di fantascienza. La donna infatti la incaricherà (poiché è “brava con le parole”) di trovare il modo di tradurre in una forma letterariamente sensata i suoi appunti sulle esperienze fatte nel corso dei suoi esperimenti che le permettono di provare le nuove percezioni. Vi è come la proposizione della schematica divisione tra cultura scientifica e letteraria. Ma molto più, mi pare vi sia la proposizione della primordiale funzione interpretativa, quasi magica, della parola. La parola è una chiave. E lo scrittore è colui che apre le porte per noi.

Lo scrittore di fantascienza va oltre: deve creare le chiavi per porte che non esistono, alle quali deve dar consistenza attraverso la sua attività di fabbro.

Sarà riuscita la giovane giornalista a venire a capo del problema di cui era investita? Non lo sapremo mai. Sappiamo che vi ha dedicata tutta sé stessa, e che senza dubbio ha raggiunto qualche tipo di risultato. Le manca però l’esperienza diretta. Non aliena da pericoli, perché ci si deve sottoporre a stimolazioni nervose in gran parte ancora ignote nei loro effetti collaterali (di assuefazione, per dire). In un incontro finale con la dottoressa ella discuterà proprio di questi aspetti. La donna più anziana appare provata, ma serena. Di certo “vede” la realtà in modo nuovo, e non potrebbe essere diversamente, e il suo cruccio resta l’impossibilità di trasmettere agli altri le sue percezioni. Il blocco dello scrittore deve essere una brutta bestia per chi è del mestiere ;-).
 L'antologia italiana (1990) e quella originale (1985) di pubblicazione del racconto

Al di là della scarna idea di base e delle possibili interpretazioni metaforiche, il racconto colpisce ancor di più per la figura della scienziata, che l’autrice descrive quasi più per allusioni e sottrazioni che dicendoci qualcosa di lei o lasciando che sia il personaggio stesso a svelarsi nei suoi gesti e azioni. Brevissimi accenni, quasi nuance che mettono in campo abilità e raffinatezza nel creare una psicologia credibile e una figura di donna viva e appassionata quanto misteriosa. E non a caso una luce di mistero illumina la sua morte. Non nelle cause: quel pericolo connesso agli esperimenti che compiva, di cui era avvertita e del quale tutti coloro che le volevano bene la scongiuravano di tenere conto infine si realizza, e la scienziata muore nel corso di uno di essi. Il mistero è più sottile, nelle parole dell’anonima giornalista che aveva imparato ad amarla che chiudono il racconto: Solo le sue labbra erano ancora atteggiate al sorriso, come se, forse, avesse finalmente trovato le parole per dirlo. Non sappiamo se davvero è così, ma è bello pensarlo: la vita, a quanto pare, è pericolosa, ma solo vivendo possiamo apprendere e crescere.

Il classico – Dei mortali (Mortal gods - 1979) di Orson Scott Card (n.1951)


Orson Scott Card è stato una vera superstar della fantascienza degli anni ’80. Non ha contribuito a forgiare l’immaginario di quell’epoca e delle successive come il profeta del cyberpunk William Gibson, né è stato un guru come Bruce Sterling o uno scrittore influente come Kim Stanley Robinson e Gene Wolfe, o stimato come Lucius Shepard. Però è stato amatissimo. Alla metà del decennio, con Il gioco di Ender (Ender’s game) – ampliamento dell’omonima novelletta scritta nel 1977 all’inizio della sua carriera - e Il riscatto di Ender (Speaker for the dead) Card vince per due anni di fila sia il premio Hugo che il premio Nebula per il miglior romanzo. Mai successo prima né dopo. Squadra che vince non si cambia, e da allora ha allungato il brodo aggiungendo romanzi e racconti a iosa (pochi quelli arrivati in Italia dopo Xenocide, il terzo capitolo lungo della serie), ma a contare davvero fu il fulminante uno-due iniziale, del resto se ne può fare sicuramente a meno ;-).

Dei mortali risale ai primi tempi della sua carriera, ma è già il racconto di uno scrittore maturo e consapevole dei suoi mezzi. Non a caso Card l’anno prima aveva ricevuto il premio John Campbell per lo scrittore più promettente nel campo della sf. Il racconto è lontano dalle atmosfere convintamente militaresche del grande ciclo che gli darà la fama (e attirerà critiche, più fondate che nei casi di Heinlein o Poul Anderson), ma esplora con finezza la dimensione religiosa e del sacro che rappresenta l’altro polo fondamentale della vita di Card, mormone devoto.

Della breve storia è presto detto: un bel dì sulla Terra arrivano gli alieni. E questi alieni, vagamente ameboidi, stipulano contratti per acquistare appezzamenti di terreno un po’ dappertutto sul pianeta e costruirvi edifici. Edifici religiosi: sinagoghe, chiese, moschee, templi vari. Edifici costruiti come lo fossero a tutti gli effetti. E all’interno arricchiti da opere d’arte e simili come chiese ecc. E nient’altro. Nessun cambiamento eclatante; anzi l’arrivo degli alieni chiarisce che non c’è molto altro da sapere in ambito scientifico (disorienta sempre un po’ la mentalità antiscientifica messa in mostra da parecchi scrittori di fantascienza).

Gli ameboidi si limitano a fare gli architetti e ad accogliere gli esseri umani che entrano nelle loro costruzioni discorrendo amabilmente con loro. Willard Crane è un uomo molto vecchio, vedovo, ormai prossimo alla morte. Sarà lui a scoprire gli scopi degli alieni. Un giorno, spinto un po’ dalla noia, un po’ dalla curiosità e in parte dal disincanto degli anni, varca la soglia del tempio alieno di Salt Lake City, e nel corso del dialogo con un alieno che si trovava lì porrà le giuste domande e otterrà le risposte che chiariscono il mistero. Egli scopre che gli alieni sono sulla Terra per adorare – alla lettera – gli esseri umani. Senza dilungarmi, è sufficiente dire che la morte, come la varietà genetica, è sconosciuta nella galassia al di fuori del nostro pianeta (questa “specialità” dell’uomo era un tema caro a John Campbell, qui Card lo tratta in modo molto particolare). Gli alieni sono giunti sulla Terra per poter penetrare il segreto della morte, venerare la creatività immortale che vi si accompagna e in definitiva struggersi per qualcosa che è loro precluso avere.
Un giovane Card premiato insieme a Isaac asimov

Se il tema è semplicissimo, esile, e lo svolgimento è lineare e risolto in poche pagine, ciò che risalta è la bellezza della narrazione. “Bello”, in sé, chiaramente non significa nulla. La bellezza di Dei mortali gli deriva quasi in tutto dal vigore con il quale il giovane autore ha tratteggiato la figura del suo vecchio protagonista. Crane è tutto fuorché un eroe fulgido, ma proprio per questo è descritto con un realismo e una nitidezza che dispiegano un’intera psicologia, un’intera vita nel ridotto spazio di uno schizzo. Un vecchio vinto dall’età e dalle malattie, ma irriducibile, il cui cinismo è temperato da una saggezza e una furbizia terra terra ma decisamente efficaci. Attaccato alla vita nel momento della morte come in ogni momento della sua esistenza terrena, e tutt’altro che sedotto dall’idea della benedizione della morte, chimera irraggiungibile per tutti gli altri esseri viventi della galassia. Se ne frega di tutto, Willard, se non del fatto che morire è qualcosa che non gli va proprio giù. Card descrive tutto questo con una prosa secca e colloquiale, perfino inelegante nel suo rendere alla perfezione il personaggio, ma che in bocca allo scorbutico vecchio si trasfigura in un ritratto eroico e lirico.

Seppure la figura di Willard troneggia nell’economia del racconto, i motivi di interesse in esso non si esauriscono nel suo vecchio protagonista. Il quale coronerà ambiguamente la sua vicenda qualche mese dopo quel suo colloquio con l’innominato alieno tornando al tempio e morendo al suo interno, maledicendo la morte e gli alieni stessi raccoltivisi per assistere alla teofania del suo trapasso. Ma saranno state vere maledizioni? Perché solo lei ha pensato di farci il dono più gentile. Solo lei desidera lasciarci assistere alla sua morte. Così si rivolge a Willard uno degli alieni. E Willard risponde: Credevo di essere venuto per dannare le vostre anime all’inferno, ecco perché sono qui, brutti bastardi, che siete venuti per fare del sarcasmo su di me nelle ultime ore che mi restano da vivere. In realtà entrambi mentono e dicono la verità. C’è un intreccio di emozioni e sentimenti in quel Willard Crane morente e su di lui. Odio profondo e profonda commozione nel vecchio, il cui egocentrismo è titillato dall’attenzione degli alieni almeno quanto il suo risentimento per la loro immortalità e la fregatura che la natura sta invece tirando a lui è sincero. E nell’adorazione, ugualmente sincera, degli individui provenienti da tutta la galassia si insinua con evidenza, e quasi violenza, una deriva perversa. La scena dell’adorazione finale del corpo dell’uomo morente squassato dagli spasimi vira al macabro puro, e nell’estasi mistica degli alieni la vena morbosa è chiarissima. Del resto nell’atto dell’adorazione del dolore e della sofferenza la connotazione morbosa e macabra non ha alcun sottinteso, è aspetto primario e mai disgiunto: il dolore del dio è emozione ineffabile per il credente, brivido mistico e consustanziale all’amore per il dio.

La riflessione di Card non è unicamente antropologica e psicologica. Gli “dei mortali” umani incarnano la diversità speculare del divino rispetto al proprio fattore. L’uomo mortale i propri dei li forgia immortali; l’alieno immortale riconosce l’elemento divino nella scintilla che si consuma fulminea nella gloria di una frenesia creativa che si elabora e rielabora continuamente in forme sempre diverse, in opposizione alla conservazione infinita del sé che è il destino di tutti nella galassia a eccezione dell’uomo.

Il racconto è apparso in Italia sull’Urania Millemondiestate 1992, una di quelle corposissime antologie miscellanee che sarebbe bello riavere.
   

domenica 23 maggio 2010

Biblioteca di fantascienza V - Poul Anderson (1926-2001)

Quell'uomo di multiforme ingegno, Poul Anderson.

Generalmente identificato come autore di hard science fiction, ideologicamente conservatore se non peggio, Anderson è stato in realtà uno scrittore dalla personalità ben più complessa e ramificata, e se nella sua vastissima produzione vi sono, per forza di cose e frenesia produttiva, molti lavori che non vanno oltre la solida professionalità, nelle sue prove migliori lo scrittore americano è un autentico forgiatore di mitologie moderne (e non soltanto). Come Robert Heinlein, con troppa ed erronea facilità etichettato quale reazionario, Poul Anderson è in realtà un libertario che crede nei valori di un individualismo assoluto, sconfinante nel superomismo. Se è vero che la sua migliore fantascienza la si trova probabilmente nei lavori più brevi, dove temi e personaggi larger than life si stemperano in riflessioni più meditate (in tal senso, considero il racconto Sam Hall la sua cosa migliore), non è meno vero che i suoi migliori romanzi di fantascienza sono avventure in grado di affascinare e avvincere con la pura forza degli eventi in essi narrati.

Non sono pochi, poi, coloro che ritengono la copiosa produzione fantasy di Anderson superiore ai suoi lavori di sf. Dalla ricchezza della mitologia della sua terra di origine, la Danimarca, lo scrittore americano trasse non solo ispirazione, ma la struttura estetica di tutto il suo lavoro nel fantastico puro, dove seppe dar forma a una vena più genuinamente poetica e letterariamente ricercata e riuscita.

Uno degli innumerevoli libri della serie di van Rijn e Falkayn, raccoglie diverse delle storie brevi.

Chi ama i cicli pletorici di racconti e romanzi (io, confesso, non troppo) può fare di Anderson un proprio beniamino. Una ragguardevole porzione della sua produzione è occupata dai due cicli, tra loro collegati, della Lega Polesotecnica e dell'Impero Terrestre, nei quali rispettivamente campeggiano le figure dei mercanti Nicholas van Rijn e Falkayn, e del soldato Dominic Flandry, a segnare un trapasso dall'accentuazione sull'espansionismo e il libertarismo della Lega all'impero assediato dell'epoca di Flandry. In Italia sono stati pubblicati dalla editrice Nord.
Il primo dei volumi nei quali è stato raccolto il ciclo di Flandry, riunisce le prime storie (in ordine cronologico interno)

Altri cicli minori (per dimensioni), tra i quali quello della Pattuglia del Tempo fanno corona ai due citati. E con essi le decine e decine di romanzi singoli e racconti che Poul Anderson scrisse dal suo esordio, nel 1947 in avanti.

Sullo scaffale dovrebbero far mostra di sé non pochi dei volumi del Nostro.


Quoziente 1000 (Brain wave, 1954)
Uno dei migliori romanzi di Anderson, che vi sviluppa magistralmente e con tocco poetico e visionario i temi superomistici a lui cari, senza nascondere e nascondersi le asprezze e difficoltà dell'argomento. Lo "studio" che lo scrittore conduce su una Terra dove alcuni uomini e animali sviluppano un'intelletto fuori scala è condotto con grande cura e dettaglio di analisi.

La spada spezzata (The broken sword, 1954 - revisionato nel 1971)
Considerato in genere il capolavoro dell'autore, La spada spezzata è ancora oggi uno dei romanzi fantasy più letti e seminali nel mondo anglosassone. Sul fertile e ricco materiale di quella mitologia scandinava che per lui è come il latte materno, Anderson ha scritto un romanzo dove il dramma umano assume toni mitici e mistici, dove la dimensione eroica si colora degli elementi dell'ultramondano e della magia, a formare un epos moderno, ma dal sapore antico. Una storia di emozioni grezze e vigorose, profondamente umane.
Hoka sapiens (Earthman's burden, 1957)
Anderson scrisse insieme allo scrittore canadese Gordon R. Dickson i racconti incentrati sulla bizzarra civiltà aliena degli Hoka, buffe creature del pianeta Toka la cui cultura è fondata sulla completa adesione a modelli culturali altrui, di volta in volta diversi. Il problema è che i Tokani fanno tutto ciò a modo loro. Molto, molto loro. Il volume è tra i migliori esempi di fantascienza umoristica. Resta fuori una novella, Complotto napoleonico (The Napoleon crime) pubblicata sul volume mondadoriano Millemondi Inverno 1987.
I proteiformi (The war of two worlds, 1959)
Romanzo sulla guerra, la paranoia e la manipolazione. Terrestri e marziani si sono massacrati per decenni in una guerra insensata prima che qualcuno sospettasse che tutta la vicenda non è altro che il risultato delle trame di un altro popolo che agisce nell'ombra...

Tre cuori e tre leoni (Three hearts and three lions, 1961)
Espansione di una novella omonima del 1953, è uno dei romanzi più famosi e belli di Anderson. Oggi lo si può dire una contaminazione tra fantasy e fantascienza, o più precisamente science-fantasy. A stretto rigore, la vicenda si inscrive nel filone fantascientifico delle storie alternative sul nazismo, unito a quello dei mondi paralleli dove la magia è reale. Ma la struttura estetica, narrativa e filosofica è quella della fantasy che più affonda le sue radici nelle mitologie e letterature medievali rielaborandole con gusto moderno. Tutto questo, oltre a essere una sfrenata avventura, narrata spesso con sapiente ironia.

Loro i terrestri (Twilight world, 1961)
In questo romanzo, senza dubbio uno di quelli nei quali meglio ha saputo elevare la sua scrittura al di sopra del puro professionismo, Anderson riesce a rivestire spesso di sincero e partecipe lirismo la vicenda di un'umanità quasi azzerata dalla distruzione atomica, ma che nonostante la sua miseria da segno di possedere le risorse per sopravvivere. Certo, come arriva a comprendere il protagonista, l'umanità che sopravvivrà sarà - necessariamente sarà - un'umanità altra. "Loro", saranno i terrestri, e non più "noi". Il romanzo nasce dalla fusione di tre precedenti racconti, il primo dei quali scritto insieme a F.N. Waldrop.

Hanno distrutto la Terra (After Doomsday, 1962)
Quanto sa di sale lo pane altrui. E' ciò che scoprono i protagonisti di questo romanzo, un'opera minore ma tutt'altro che immeritevole. Solo pochi astronauti, in missione al momento dell'evento, sono sopravvissuti alla distruzione del nostro pianeta. Vagheranno di sistema solare in sistema solare, cercando gli autori della distruzione della Terra, offrendosi come mercenari, cercando di sopravvivere e far sopravvivere quel po' di civiltà e cultura umane che esiste in loro. Con difficoltà.

Tau zero (Tau zero, 1970)
Ricavato dall'espansione di un racconto apparso tre anni prima, Tau zero è il romanzo più canonicamente di hard sf scritto da Poul Anderson, e probabilmente il suo miglior lavoro nel campo fantascientifico. La Leonora Christine è un'astronave generazionale, moderna Arca che trasporta un gruppo di uomini e donne verso la colonizzazione di altri mondi. Profondamente basato sui paradossi della Relatività e dotato di un solido impianto scientifico, quando la missione dell'astronave diverrà impossibile il romanzo si trasformerà nel racconto di un'odissea senza fine negli spazi cosmici.

Il vagabondo degli spazi (The Byworlder, 1971)
Ciascun uomo vede ciò che preferisce nell'occupante dell'astronave che da tre anni è in orbita attorno al nostro pianeta. L'alieno incarna e da corpo a timori, speranze, sogni di un'umanità confusa. Ma al di fuori del simbolismo di cui gli fanno carico gli uomini egli si rivelerà altro... Finale non all'altezza dell'impianto concettuale, ma il romanzo resta non immeritevole.

Il meglio di Poul Anderson (The best of Poul Anderson, 1976)
L'antologia, pubblicata nel Robot Speciale n.8, raccoglie nove tra i più interessanti lavori brevi di Anderson, compreso quel goiellino cyberpunk ante litteram che è Sam Hall.
Gli immortali (The boat of a million years, 1989)
Lungo, a tratti sonnolento, questo maestoso romanzo nel quale il nostro scrittore affronta il tema dell'immortalità è tuttavia riscattato dalla grandiosità del suo impianto avventuroso e dalla caratterizzazione riuscita di molti dei suoi personaggi. Un'opera facilmente riconoscibile come tarda ma che vale la pena leggere.

La Pattuglia del Tempo (The Time Patrol, 1991)
Il volume raccoglie il ciclo della Pattuglia del Tempo (o di Manse Everard), dai primi, freschi e avventurosi racconti già più volte apparsi, ai più tardi e un po' sonnacchiosi romanzi. Ciclo che...
... si conclude qui.

Regina dell'aria e della notte (Queen of air and darkness)
In chiusura, questa antologia che oltre al racconto omonimo ne raccoglie altri quattro non meno titolati (di fatto: i racconti e le novelle di Poul Anderson che hanno ricevuto il premio Hugo).

Biblioteca di fantascienza IV - Kingsley Amis (1922-1995)

Kingsley Amis è stato un uomo di lettere a tutto campo. Tra i principali narratori britannici della seconda metà del secolo scorso, poeta stimato e acuto critico letterario. La sua fama nel campo della fantascienza è dovuta principalmente al lavoro di critico. Lettore entusiasta e apprezzatore della fantascienza, segnatamente delle opere che andavano scrivendo negli anni '50 gli alfieri della cosiddetta social science fiction, in particolare Cyril M. Kornbluth, Robert Sheckley e Frederik Pohl, alla fine di quel decennio i suoi studi contribuirono non poco ad affrancare la fantascienza nel più vasto mondo letterario. Sebbene negli anni seguenti mostrasse di essere deluso dalla virata verso moduli più classici e d'avventura avvenuta dopo la morte di Kornbluth da parte di Pohl, l'autore che più stimava, Amis mantenne il suo interesse per il campo.

Nel corso degli anni '60 Sir Kingsley venne allontanandosi, nelle proprie opere narrative, dal realismo che le aveva caratterizzate a partire dal primo romanzo (Jim il fortunato, del 1954, grande successo commerciale oltre che letterario), scrivendo egli stesso anche romanzi in tutto riconoscibili come fantascienza.

In una biblioteca ideale dovrebbero trovar posto quanto meno tre suoi volumi:

Nuove mappe dell'inferno (New Maps of Hell: a survey of science fiction, 1960)
Il più importante lavoro di Amis sulla fantascienza. Il volume raccoglie le sue lezioni in merito tenute un paio di anni prima negli Stati Uniti.

La Lega Antimorte (The Anti-Death League, 1966)
La Lega Antimorte è solo tangenzialmente fantascienza, forse solo nel complesso dei suoi elementi. E' sostanzialmente il primo romanzo nel quale Amis si allontana dal realismo umoristico che aveva caratterizzato la sua produzione, segnando anche l'inizio del suo sperimentare all'interno dei generi letterari. L'intento speculativo tipico della fantascienza amata da Amis si coniuga così alla spy story, al thriller, al mystery; in un'opera dalle mille suggestioni esistenziali, dove la morte e ancor più il suo incombere sono sempre presenti.

Modificazione H.A. (The Alteration, 1976)
Modificazione H.A. è invece opera squisitamente di fantascienza. Un barocco, lussureggiante romanzo di alternate history, nel quale una laida Europa nostra contemporanea, dove la Riforma protestante non è mai avvenuta e il potere papale non è mai venuto meno, è lo scenario per una riflessione e feroce analisi satirica dei tanti dogmatismi e bigottismi che condizionano la nostra, non alterata, realtà.



Sir Kingsley insieme al figlio Martin Amis, al pari del padre scrittore di gran talento e fama

giovedì 20 maggio 2010

Biblioteca di fantascienza III - Brian W. Aldiss (1925- )

Veterano della fantascienza britannica, Brian Wilson Aldiss è stato un miracolo di prolificità e talento che per decenni ha scritto romanzi e racconti rischiarati dall'acutezza di un'intelligenza penetrante e impreziositi dal brio narrativo di una penna fantasiosa e avvincente che ha saputo unire divertiento e impegno senza mai venir meno all'uno o all'altro. Né si è limitato all'attività di narratore; la fantascienza ha beneficiato e beneficia della sua non meno importante attività di critico interno al campo e di antologista di valore. Aldiss, che esordì nel 1954, nella seconda metà degli anni '60 fu uno dei principali esponenti della new wave, la corrente letteraria britannica che dalle pagine della rivista New Worlds diretta da Michael Moorcock operò un profondo rinnovamento stilistico, politico e di contenuti della fantascienza (http://en.wikipedia.org/wiki/New_Wave_%28science_fiction%29).

Moltissimi i titoli della sua sterminata produzione che troverebbero posto in una biblioteca ideale.

Viaggio senza fine (Non-stop, 1956)
Il tema è classico, ed è stato magistralmente trattato in precedenza anche da Robert Heinlein nel suo Orphans of the sky (Universo). Un'astronave generazionale e gli uomini al suo interno, che con il tempo dimenticano di essere su un veicolo, per poi riscoprirlo e dover mutare radicalmente la loro civiltà. La conclusione di Aldiss non sarà delle più tranquillizzanti...


Galassie come granelli di sabbia (Galaxies like grains of sand, 1960)
Romanzo-collage, ciclico, formato da storie a volte labilmente e a volte per nulla concatenate, Galassie come granelli di sabbia va a comporre una delle più acute e avvincenti storie future della sf.

Descalation (The male response, 1961)
E' un romanzo per certi versi molto attuale; ambientato nell'Africa del prossimo futuro si incentra sul confronto e la mutua influenza tra culture e civiltà.
La lampada del sesso (The primal urge, 1961)
Sebbene oggi possa apparire datato nei suoi argomenti, questo (allora) irriverente romanzo che con ironia affronta in tutta serietà il concetto del sesso come strumento di controllo sociale resta ancora oggi attuale per la leggerezza con la quale Aldiss studia certi meccanismi della psicologia umana.


Il lungo meriggio della Terra (Hothouse, 1961-62)
Uno degli esempi più convincenti di fantascienza post-apocalittica, ambientato in una Terra del lontano futuro devastata dall'azione di un Sole divenuto minaccia e dall'esplosione della vegetazione, il romanzo è la fusione di cinque novellette preesistenti. In occasione della prima pubblicazione italiana ricevette il titolo orripilante di Lebbra infernale.

Barbagrigia (Greybeard, 1964)
Il severo John Clute lo rubrica come il miglior romanzo di Aldiss, e senza dubbio questo terribile apologo/ammonimento su una umanità di vecchi, resa sterile a causa di esperimenti mal condotti e finiti male, ha un gran vigore analitico nelle descrizioni psicologiche di questa razza morente di teste ormai canute. Come dice ancora Clute è però anche un sentito atto d'amore per l'Uomo. 

Il mio mondo bruciato (Earthworks, 1965)
E' un duro romanzo politico nel quale Aldiss analizza spietatamente una Terra del prossimo futuro dove ineguaglianze politiche e sociali sempre più marcate si sommano a una situazione di pre-collasso ambientale. Praticamente il nostro presente...

L'albero della vita (The saliva tree, 1966)
Una delle migliori antologie di Aldiss, raccoglie una decina di sue opere brevi, tra cui quella eponima che ricevette il premio Nebula, il riconoscimento tributato annualmente dall'associazione degli scrittori di fantascienza.
Anonima intangibili (Intangibles Inc. and other stories, 1970)
Altra eccellente antologia di Aldiss, raccoglie alcuni racconti scritti diversi anni prima.

Un miliardo di anni (Billion year spree, 1973)
Il più noto lavoro critico e storico di Aldiss, che pone il Frankenstein di Mary Shelley come atto di nascita della science fiction.


Frankenstein liberato (Frankenstein unbound, 1973)
Barocca variazione sul tema del viaggio temporale, questo romanzo di recursive science fiction, che mette in scena tra i personaggi Frankenstein e la sua creatrice, è una riflessione sulla fantascienza e la sua genesi, ed è tra i libri migliori di Aldiss.

Ciclo di Helliconia (Helliconia spring, 1982; Helliconia summer, 1983, Helliconia winter, 1985)
Dopo un lungo periodo durante il quale la sua vena parve appannata, Aldiss produsse il suo ciclo di storie più ambizioso e corposo, e una delle sue opere più affascinanti e migliori. Helliconia è un pianeta dove le singole stagioni durano millenni, comportando il ciclico succedersi di culture e civiltà che si sviluppano nel corso di questi periodi che appaiono quasi eterni e durante i quali le condizioni ambientali praticamente non mutano.





A.I. Intelligenza Artificiale (Supertoys last all summer long and other stories of future time, 2001)
Questa corposa antologia raccoglie un nutrito numero di racconti, tra i quali spiccano i tre che sono andati a comporre il nucleo del film omonimo girato da Steven Spielberg che lo "ereditò" alla morte di Stanley Kubrick.





Tra i volumi curati da Aldiss come antologista merita infine segnalare quanto meno quelli che vennero pubblicati dalla Fanucci all'interno della collana Enciclopedia della fantascienza.