domenica 22 settembre 2013

Intersezioni – Il giorno rubato (2013) di Marco De Franchi (n.1962)

Una storia di intersezioni: questo è Il giorno rubato. In primo luogo a intersecarsi sono i principali registri narrativi: realistico, fantascientifico, fantastico puro. Sebbene in nessun modo il romanzo possa essere fatto rientrare nella letteratura realistica, tuttavia il linguaggio di De Franchi e il suo modo di raccontare hanno un forte sapore realistico che per molti versi amplifica l’effetto delle vicende narrate sul lettore e imprime alla narrazione una corposa tridimensionalità emotiva. L’irruzione dello stupefacente, del soprannaturale e dell’inimmaginabile risultano ancora più stranianti nell’economia di una storia che l’autore pare spesso narrare come se dovesse ricondurla, anche a forza, entro i confini della ragione. Una dissonanza ricercata, sicuramente, per sollecitare continuamente il lettore; e puntualmente trovata. Se il romanzo va ascritto sicuramente più al fantastico puro che ad altro, non è meno vero che anche un purista della fantascienza può rubricarlo tra la fantascienza più ibridata, una fantascienza lovecraftiana principalmente, e tra quegli universi narrativi, ibridi appunto, che rimandano a Lord Dunsany o ad Arthur Machen. Fantascientifico, del resto, è anche il “gadget” al centro del libro – o meglio il punto di partenza della vicenda, il fenomeno che ritorna ossessivamente e che ossessivamente arriva a permeare l’esistenza di Valerio Malerba, il protagonista del romanzo, e degli altri personaggi principali. Il giorno rubato, appunto. Quel 13 marzo del 2007 che risulta scomparso dalla sequenza temporale degli eventi. Nessuno (o quasi, come si vedrà) ha memoria della giornata; niente è accaduto e registrato quel giorno; non esistono giornali del 13 marzo 2007, pagine di internet, eventi di cui vi sia traccia. Nulla di nulla. Si scoprirà poi che quel 13 marzo è ben lungi dall’essere il solo giorno della storia umana scomparso a quel modo. Un assunto dickiano: come ricca di suggestioni dickiane è la trama più genuinamente fantascientifica del romanzo, e un sapore dickiano ha anche la conclusione del libro, forse meno aperta di quanto sembri a prima vista. Dickiano è anche il frequente intersecarsi dei piani spaziali e temporali, lo sfibrarsi e sfilacciarsi del tessuto della realtà. Realtà che spesso si confonde in una sequenza di eventi illogici, o meglio governati da una logica che appare altra. Una fortissima eco fantascientifica proviene senza dubbio da un romanzo oggi probabilmente dimenticato dai più, ma che resta tra le opere migliori della fantascienza degli anni ’30, oltre che uno splendido esempio di ibrido perfettamente riuscito – in questo caso tra un registro stilistico dalle profonde venature orrorifiche e una solida vicenda di fantascienza; una commistione che il romanzo di De Franchi fa virare con convinzione più verso il lato dell’orrore: un orrore metafisico e ancestrale, nato in territori oltre la ragione e la natura conoscibile e originatosi nei tempi nei quali andava plasmandosi la simbologia archetipica dell’umanità. Il romanzo in questione è Schiavi degli Invisibili (Sinister Barrier) di Eric Frank Russell, del 1939. Ne si rinviene la tramatura nell’esplicito richiamo che De Franchi fa a Charles Fort, principale fonte di ispirazione del romanzo russelliano; e ne si osserva l’altrettanto esplicito richiamo dato dalle analogie che possono ravvisarsi tra i Vitoni dell’autore britannico e i Cancellatori dell’italiano.  La ricerca delle fonti e, ancor di più, la ricostruzione della genealogia letteraria di un’opera naturalmente non ha alcun senso in sé, se non un’utilità merceologica per i commessi delle librerie al fine di compiere quello sfregio che è la ripartizione bovinamente eseguita per generi sugli scaffali. Ha invece senso nel tentativo di risalire le correnti letterarie, emotive, artistiche, psicologiche che portano alla scrittura dell’opera. Ha senso nel circostanziare la lettura e l’interpretazione dell’opera. Il reciproco relazionarsi dei registri narrativi, l’intersezione e la compresenza di horror, fantascienza e territori di un fantastico più libero, è reso esplicito dall’autore stesso. A pagina 182, attraverso le considerazioni che il suo protagonista fa su quelli che nel libro sono definiti Cancellatori oppure Mater Matuta, dà in un certo senso un’interpretazione autentica della cosa: Però, energie o creature divine che siano, pare che anche “loro” debbano rispettare una qualche legge fisica: non forse della fisica che noi conosciamo, ma certamente di una natura che ha regole e confini. Almeno io lo spero.  

La più recente edizione del capolavoro di Eric Frank Russell
Ne Il giorno rubato osserviamo perciò l’intersecarsi delle due polarità narrative e psicologiche del razionale e del fantastico, e l’irruzione di quella polarità che di suo è già un punto di intersezione tra la ragione e l’immaginazione: il mito. Pullula di archetipi mitici il racconto di De Franchi. Alcuni più espliciti: la Mater Matuta che si incontra in tutto il romanzo, con contorni mai completamenti definiti e continuamente sovrapposti con quelli di altri, anche di moderna matrice letteraria come i Grandi Antichi lovecraftiani; la realtà frutto del gioco crudele di divinità o entità crudeli e malevole, o semplicemente beffarde e insensibili, gli infiniti dei o demoni burloni; l’eterno tema del doppio, della copia malevola di noi stessi, uno degli strumenti psicologici che da sempre l’uomo utilizza per esternalizzare il male, deresponsabilizzarsi attraverso l’individuazione di un soggetto altro da sé come agente del male che egli fa, e dare sfogo al sostrato paranoico della mente: qui lo troviamo nel continuo e ansiogeno manifestarsi di ambigue e spesso indecifrabili copie dei personaggi del libro. Altri archetipi appaiono meno evidenti, o meglio meno posti in evidenza dall’autore. Principalmente il ciclo nascita-morte-rinascita di cui tutto il romanzo pare comporre un’allegoria. La Roma moderna che fa da sfondo principale a Il giorno rubato, e a cui a volte la penna di De Franchi consente di sottrarre la scena al racconto, è una città dove si intersecano – ancora – tutti i suoi piani storici, protostorici e preistorici. È una città la cui moderna apparenza cela il persistere di culti millenari reminiscenti delle radici preistoriche e reali di entità che paiono vivere e operare in intersezioni tra vari piani di realtà, tra vari piani spaziali e temporali. Mater Matuta, il nome dell’antica divinità romana, una delle innumerevoli incarnazioni della Grande Madre, è quello che identifica il complesso di tali entità, forse forme di energia che dalla notte dei tempi governano l’umanità come una loro mandria; un nome buono come un altro, afferma uno dei personaggi nel parlarne con Valerio Malerba. Eppure forse non è un nome come un altro.
Il romanzo è il secondo volume della collana Fantastico Italiano

Né il mitologema della Grande Madre – la Dea - né lo specifico mito di Mater Matuta paiono scelti a caso. La Dea non è, o quanto meno non è soltanto, una divinità benevola. La Dea rappresenta il femminile - la natura - in tutte le sue declinazioni: è generatrice, ma anche distruttrice; incuba la vita e la dà alla luce, ma divora anche, come paiono letteralmente fare i Cancellatori del romanzo. Lasciando stare la sua tarda identificazione con la greca Leucotea, Mater Matuta è una divinità dell’aurora – dunque della nascita – e in seguito del parto, nascita e rinascita della vita. Ma tra i suoi attributi, oltre la colomba, simbolo di inizio, vi è anche il melograno, l’ultimo frutto a maturare, annuncio del letargo/morte invernale ma ricco di semi: simbolo di morte e rinascita. Il ciclo continuo della vita naturale: nascita, morte e rinascita attraverso il seme.

Splendida statua della Mater Matuta, VI secolo a.C.
L’intera vicenda vissuta da Valerio assume le sembianze di un viaggio iniziatico e di conoscenza, ma anche di un ciclo vitale che si ripete. A cerchi concentrici. E con Valerio – attraverso Valerio – è tutta l’umanità ad affrontare il viaggio e il ciclo. All’inizio del libro Valerio “nasce” e contemporaneamente “muore” e “rinasce”. “Muore” in un piano di consapevolezza per “rinascere” in un altro, a partire dalla prima “morte”, che in perfetta contraddizione con il principio di causa/effetto precede la prima “nascita”. Quasi muore, Valerio, per un infarto, vero o presunto che sia; e rinasce a una nuova serie di eventi, una nuova realtà. Nasce, muore e rinasce continuamente la sequenza temporale, l’esistenza umana, ogni volta che Mater Matuta interviene a operare una di quelle sospensioni temporali durante le quali le leggi fisiche note all’uomo sono sospese, per motivi che restano ignoti: quegli innumerevoli giorni rubati.

Poi interviene qualcosa a spezzare la continuità continuamente fratta del ciclo; o forse a creare una discontinuità maggiore e instaurare una ciclicità fondata su nuove basi, quanto meno libera dalla predazione parassitaria di Mater Matuta. L’evento nucleare, che simbolicamente avviene in concomitanza con l’ultima “morte/rinascita” di Valerio, è l’inatteso accadimento che spariglia il misterioso ordine delle cose imposto da Mater Matuta. Le energie sono potenti, ma appunto non onnipotenti. Né onniscienti. Non si aspettano che gli uomini, nella loro follia, diano inizio a una guerra globale che certamente farà precipitare i sopravvissuti eventuali in un inverno nucleare. L’inatteso evento lascia attonita Mater Matuta e in qualche modo impedisce il compimento del previsto ed ennesimo spasmo temporale, l’ennesima ripartenza dopo la fine. L’umanità, inconsapevolmente, si è liberata della catena dei Cancellatori/Mater Matuta spezzando violentemente uno degli anelli. A quale prezzo non è dato saperlo. L’evento nucleare è una morte, ma per coloro che in qualche modo sopravvivranno sarà una rinascita. E sarà la nascita di un nuovo ordine, di un nuovo rapporto con la natura. Forse l’instaurarsi di una nuova ciclicità su nuove basi, forse la perpetuazione di un ciclo maggiore composto di cicli minori come quello appena interrotto.

Venere di Willendorf, XXII millennio a.C., forse raffigura una proto Grande Madre 
Tale materiale, questa ricca congerie di suggestioni e rimandi, classici, letterari, mitici, sarebbe solo un magma, confuso benché affascinante, se non vi fosse a dare forma compiuta al tutto la scrittura di De Franchi. Il ritmo incalzante della vicenda, che spesso si fa a tal punto frenetico da lasciare il lettore disorientato, quasi senza fiato. La sua capacità di trascinare dentro la storia narrata, di far appassionare al destino dei suoi protagonisti, individui del tutto comuni e anonimi, in fondo; ma che proprio per questo si avvicinano alla nostra sensibilità fino a toccarci: potrebbero essere i nostri cari; potremmo essere noi stessi. C’è l’indubbio mestiere descrittivo di De Franchi, che si dispiega sia nell’uso di un linguaggio che sa suscitare al momento giusto il raccapriccio, l’orrore, l’empatia, lo stupore; sia nell’abilità di traslare con apparente facilità gli scenari urbani e agresti da una dimensione banalmente quotidiana all’orrore dell’ignoto. Un mestiere solido e consapevole, la ricchezza inventiva del narratore vero unita alla disciplina di uno scrittore serio. C’è un’anima dietro questa storia, qualcuno non interessato a stupire tanto per, ma intenzionato a suscitare un coinvolgimento non epidermico nel lettore, a lasciargli l’impressione di aver effettuato un viaggio nei territori dove nasce l’immaginario. E che ci riesce, per di più con un libro che, dall’inizio alla fine, può essere letto anche solo come una pura avventura, come una lettura puramente e pienamente divertente.


Confesso che prima de Il giorno rubato non conoscevo Marco De Franchi; scopro che ha una lunga carriera alle sue spalle (e spero molto più lunga davanti a sé); una carriera frastagliata, interrotta e poi ripresa, e che solo con questo romanzo viene a riaccostarsi a quei territori del fantastico nei quali aveva inizialmente pascolato. Spero siano i territori nei quali resterà acquartierato.    

2 commenti:

James ha detto...

Vedo che l’editore “La lepre” ricorre tra i tuoi preferiti. E in effetti devo dire che, a scorrere il catalogo su internet, piace molto anche a me. Peccato me ne ricordi solo quando da te qui richiamato, perché nelle mie capatine in libreria non ne è ho mai trovato traccia. Vorrà dire che dovrò farmi un nodo al fazzoletto per i miei acquisti online.

Ciao,
J

Vincenzo Oliva ha detto...

È un piccolo editore con una sua personalità e, come hai detto anche tu, un catalogo interessante. E io amo i piccoli editori con cataloghi interessanti :).

Lo scotto, in genere, è che i libri bisogna ordinarli, e difficilmente si trovano nei grandi librifici a un tanto al chilo come le catene Feltrinelli e Mondadori.

V.