venerdì 25 dicembre 2009

[fantascienza] I contemporanei – La stagione degli agnelli (Lambing season - 2002) di Molly Gloss (n.1944)





Una vecchia e tutto sommato fondata definizione, fa della fantascienza una letteratura di idee. E appunto ci sta, bene o male: la fantascienza generalmente pone delle ipotesi e su di esse specula. Per lo più, gioca con le idee. Solitamente crea idee, ne indaga, le influenza e ovviamente ne è influenzata. E’ una letteratura che nei più casi poggia sulle gambe solide dei fatti, che poi manipola e plasma in maggiore o minore misura, a seconda del maggiore o minore talento visionario dell’autore di turno. I personaggi con le loro psicologie, gli scenari con i loro colori e i timbri espressivi vengono dopo. Ogni regola ha però le sue eccezioni; ed esse non sono meno importanti della regola stessa; anzi lo sono forse di più. La stagione degli agnelli apparve in origine sull’Isaac Asimov’s Science Fiction Magazine, ed è stato recentemente pubblicato in Italia in chiusura del mastodontico secondo volume dell’antologia Il meglio della Sf / II che concludeva la presentazione dell’antologia Best of Bests curata da Gardner Dozois e dedicata ai migliori racconti contemporanei di fantascienza. Quindi è per definizione fantascienza. E lo è senza dubbio, visto che c’è un alieno di mezzo. Però, però…

In Lambing season centrali, strategici per la narrazione sono i set naturali dove l’autrice pone la scena e i suoi protagonisti. Più, molto più che di idee, il racconto è fatto dei silenzi che lo trapuntano. Delle notti stellate dell’ovest americano, forse dell’Oregon dove vive l’autrice; delle pietraie dove cresce un’erba rada che nutre pecore robuste e riottose; del lavoro duro, a volte infame e altre toccante dei pecorai; di una natura potente dove l’uomo può immergersi fondendovisi. Una scenografia realistica - al limite e se vogliamo da realismo magico; ma lontana dai tocchi estenuati (a volte troppo) di Bradbury o dall’umanesimo razionale e dagli idilli agresti di Simak: una sfumatura appunto – ma robusta e assertiva – di atmosfere che rimandano a qualcosa di magico. Che rimandano, non che sono.

E’ sicuramente una scheggia di poesia in fantascienza questo racconto, ma di un poetare scabro e tosto, lontano da ogni svenevolezza e concentrato sugli essenziali dell’esistenza: la vita e la morte. Trasfigurate nella narrazione letteraria. La vita e la morte degli agnelli e delle pecore che Delia, la protagonista umana del racconto, porta a fare la transumanza estiva sulle montagne. E che dopo la pausa invernale aiuta a nascere o a sgravarsi (o a morire), affondando le mani nel loro sangue. La vita di Delia su quei monti screpolati e riarsi dove l’erba resta bassa, adatta ad animali abituati a lottare per la vita, animali lontani da quella falsa immagine di mitezza che l’iconografia plurisecolare ci ha consegnato. La vita di Delia in compagnia di queste pecore e dei suoi cani Alice e Jesus, spostandosi di campo in campo al seguito della ricerca di pascolo delle bestie; cani con i quali l’intesa non ha più bisogno di parole ma solo di gesti del corpo. La vita di Delia che sperpera la paga dell’estate ubriacandosi.


E’ in questo scenario, affatto privo di elementi fantascientifici, che Delia incontra l’uomo canino. Un giorno, sulle montagne la donna vede una scia luminosa attraversare il cielo notturno e vincendo la stanchezza si reca sul luogo dell’atterraggio (o dell’impatto) per prestare soccorso a eventuali feriti o sopravvissuti. Ma non scoprirà un aereo, bensì uno strano velivolo, e il suo ancor più bizzarro occupante. Una creatura dall’aspetto e dalle movenze canine. Una creatura probabilmente sorda, le cui uniche azioni, i cui unici gesti sono rappresentati dal gironzolare attorno al proprio veicolo, con curiosità forse umana e gestualità senza dubbio canina.

Tre volte la scia luminosa attraverserà il cielo notturno. Tre volte Delia incontrerà lo strano essere, restando a osservarlo discosta, incrociando lo sguardo con esso; ambedue accettando la muta, innocente presenza dell’altro. Fiutandosi a vicenda, se si vuole.

Se Molly Gloss è molto abile nelle descrizioni naturali e nell’incastonare l’elemento umano in tali scenari – e non meno abile nel restituire una grande dignità letteraria al prosaico lavoro di governare e rigovernare le pecore – ancora più attenta è nel cesellare, tra silenzi espressivi ed ellissi temporali perfette, il rapporto tra Delia e l’alieno. Un racconto dove non si dice nulla ma attraverso il quale si arriva a instaurare una vicinanza spirituale del tutto spontanea, naturale e articolata.

Tre volte l’uomo canino ripartirà, e dopo Delia non vedrà più la scia luminosa. Arriverà settembre di nuovo, le pecore scenderanno dai monti e la donna con loro. Sarà molti mesi più tardi, durante la stagione degli agnelli, quando le pecore figliano e Delia è nei ranch in pianura oberata di lavoro che, alzando al cielo una notte la testa, ella vede di nuovo il segno del velivolo sul nero notturno. Questa volta però Delia troverà un luogo d’impatto e non di atterraggio. Troverà il suo “amico” morente con la schiena spezzata. Per la prima volta gli si avvicinerà, potrà vedere che le sue “zampe” sono molto più simili a una mano umana che a una zampa di cane. E una di quelle mani terrà nella sua attendendo insieme all’alieno, nell’assoluto silenzio, la morte di lui; seppellendolo poi sotto un cumulo di pietre. In un delicato controfinale, durante la successiva stagione della transumanza Delia edifica con le pietre della montagna un vero e proprio monumento funebre all’essere venuto da chissà dove. E in seguito prende l’abitudine di osservare la volta celeste con il telescopio.

Insomma, a veder bene di fantascienza ce n’è poca. O forse no. Certo non basta un simakiano afflato cosmico a una fratellanza universale tra gli esseri intelligenti a fare fantascienza. E tanto meno basta un alieno simile a un cane o un bizzarro primo contatto. Non basta neppure che questo primo contatto mostri, in modo probabilmente realistico, la sola probabile modalità di relazionarsi tra esseri impossibilitati a comunicare in modo sofisticato: farlo attraverso i fondamentali dell’esistenza. E a guardar bene, anche il fatto di postulare non solo l’esistenza degli alieni, ma anche la loro discesa sulla Terra, non è poi un granché decisiva. Queste sono idee, e nel racconto la loro posizione è vicaria in modo evidente. Questo è un racconto di impressioni e di sottintesi; di silenzi e non di parole. Forse conviene semplicemente arrendersi all’evidenza. Questo è solo uno splendido racconto che il direttore di una rivista di fantascienza ha avuto il buongusto di accaparrarsi e offrire ai lettori di fantascienza, e quindi in ossequio alla definizione di Campbell, essendo stato pubblicato su una rivista di fantascienza è di fantascienza per se. Comunque sia, questo lettore di fantascienza se lo è goduto dalla prima all’ultima frase.


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