domenica 31 gennaio 2010

[fantascienza] I contemporanei – Lasciate che i coniglietti vengano a me (1995) - di Mauro Scarpelli (1948-2001)


La fantascienza italiana non è solo E-Doll, il romanzo vincitore dell'ultimo Premio Urania. Per fortuna. Non posso produrmi in una recensione per il semplice motivo che il registro stilistico di Verso ha stroncato ogni mia velleità di lettura in quattro capitoli: va bene tutto, ma sono francamente indigeribili le orge di aggettivi e vocaboli involuti, affastellati tutti insieme come per la scoperta improvvisa della loro esistenza e l’entusiasmo infantile di usarli tutti insieme. E’ anche, per fortuna, il recente Il Quinto Principio di Vittorio Catani, ampio opus magnum di questo veterano del campo di cui sono arrivato a tre quinti della lettura e che mostra bene come cambino le cose quando si possiede una padronanza sicura della lingua e delle sue ricchissime possibilità espressive: come dalle orge si passi a tessiture labirintiche e raffinate.

Ed è una buona messe di altre opere scritte negli ultimi lustri. Messe dalla quale estraggo questo racconto dal titolo a un tempo farsesco e sottilmente ambiguo, quasi minaccioso. Titolo che in ciò riassume perfettamente il senso del racconto, quella tonalità doppia che lo caratterizza e attraverso la quale si dipana.

Su Mauro Scarpelli non ho reperito altre notizie che quelle biografiche minime; il racconto venne pubblicato in una antologia curata da Franco Forte edita da Stampa Alternativa, Fantasia, un cofanetto-raccolta di una decina di quei celebri spillatini millelire che ebbero grande fortuna.

Scritto con uno stile immaginoso, con tono, come anticipavo, tra ironia che sconfina nel sarcasmo della farsa e l’evocazione di atmosfere di pericolo e ambiguità, il racconto è una scoperta metafora dei dubbi, delle lacerazioni, delle sofferenze dell’adolescenza; e della forza con cui le sicurezze, i sogni, le fantasie (ma anche le dolci paure) dell’infanzia fanno presa su di noi – di come il sogno di un’infanzia che non abbia fine ci seduce fino, a volte, a perderci. Metafora scoperta ma non per questo meno riuscita: anche ne Il brutto anatroccolo è così. In primo luogo per l’abilità con la quale l’autore ha saputo intrecciare un tema così psicologico con una impalcatura che è solidamente fantastica e fantascientifica. Il Piccolo protagonista del racconto riassume in sé più di una figura archetipica: l’adolescente irrisolto tra la terra cognita della puerizia e il vasto territorio sconosciuto della vita adulta che gli si stende dinnanzi; l’eterno Peter Pan che si rifiuta di crescere (e a trentasette anni è ancora bambino e si fa leggere le fiabe per addormentarsi); l’idiot savant dai talenti inattingibili e incomprensibili agli altri – e incontrollabili; come è per le pieghe della psicologia adolescenziale che a volte ci appaiono impermeabili alle nostre capacità di analisi e comprensione – e quindi controllo. E’, Piccolo, un personaggio che molto probabilmente sarebbe piaciuto a Theodore Sturgeon: un diverso accostabile a quelli di molte opere dello scrittore americano: inferiore e superiore a un tempo all’uomo medio, il normale Homo sapiens. Scarpelli ingigantisce per i suoi scopi narrativi i talenti di Piccolo e ne trasfigura le paure, le speranze, le tensioni irrisolte. I poteri precognitivi lo porteranno a partecipare a una missione esplorativa nello spazio, alla ricerca di nuovi pianeti abitabili; sull’astronave e sul pianeta che la spedizione raggiungerà, i poteri dell’immaginazione di Piccolo si riveleranno ai nostri occhi con maggior chiarezza che nelle allusive, fantasticheggianti pagine iniziali, dove a tratti il personaggio si illanguidisce nel bozzetto di uno “scemo del villaggio” da manuale. Riemerge, invece, in pieno rilievo, e con vigore lo scrittore ne tratteggia un ritratto dove la forza – la violenza, anzi – delle immagini evocate assume tangibilità materiale: Piccolo può dare corpo reale alle sue fantasie; assurge a rappresentazione dell’immaginazione umana che crea mondi, universi, e li plasma con le capacità della mente. E vi si rinchiude talvolta, specialmente in quell’agra stagione di mezzo che può rivelarsi l’adolescenza.

 
Theodore Sturgeon

 Di particolare vividezza sono le scene di sesso. Tutt’altro che invadenti o eccessive, ma scritte e collocate con senso della strategia della narrazione e con un’incisività che sola deriva dall’abilità di trasporre con precisione il reale in una metafora che è ancor più cruda. Vediamo il protagonista risvegliarsi allo stimolo sessuale senza esserne consapevole; tendere in modo inconsulto, bramoso, perfino brutale verso un qualcosa che desidera ma gli sfugge, che percepisce a un livello animale senza pervenire alla comprensione del fenomeno. Osserviamo la sua goffaggine che conduce al rifiuto; e ancor più lo precostituisce: in primo luogo nella sua mente. Lo vediamo far uso dei suoi poteri per piegare la realtà a questi suoi desideri: per costringere la realtà a conformarsi a qualcosa che egli può solo vagheggiare senza poter materializzare. Non vi riesce. Non subito, almeno. Più ci si addentra nel racconto e più i piani della realtà e dell’immaginazione di Piccolo si confondono; come quelli della storia narrata e della metafora rappresentata. Scarpelli non scioglie del tutto il nodo del racconto, ma certamente allenta la tensione con una conclusione dove il dolce e l’amaro – ancora – si confondono. O meglio si fondono. Abbandonare infine quell’età di mezzo che ci è appartenuta è forse inevitabile; altrettanto inevitabile è forse continuare a rimpiangerla, e serbarne una parte dentro di noi. Quale sia il dolce e quale l’amaro resta tutto da decidere.

Ah, il titolo. I coniglietti del titolo sono le “presenze” più inquietanti che aleggiano intorno al protagonista, che lui evoca; che lo osservano mettendolo in imbarazzo. Quegli occhi che tante volte ci siamo sentiti addosso anche quando non c’erano.

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