venerdì 23 aprile 2010

[fantascienza] I contemporanei – Uno studio in verde smeraldo (A study in emerald - 2003) di Neil Gaiman (n.1960)


Il titolo è chiaro: si gioca con Sherlock. Non vado pazzo per Gaiman: che siano le sceneggiature per i fumetti di Sandman o un romanzo come American Gods, la superficialità e artificiosità del suo universo narrativo infastidiscono per la loro evidenza. Gaiman affascina pel ed è affascinato dal volume di fuoco impressionante delle mitologie che affastella nelle sue storie, raffinatamente e in modo compiaciuto. Ma grattando lo strato di fascino epidermico, gli effetti speciali della sua scrittura cessano di rilucere di riflesso e mettono a nudo un universo derivativo di culture e miti dai quali l’autore si limita a togliere quel che gli serve come scegliesse a caso un ingrediente per un dolce solo in base alla vivacità del suo colore, all’estro del momento e soprattutto al gusto per pasticciare tutto in un grande impasto indifferenziato.

Se il gioco è però più scoperto, sincero, se è compiuto e sufficiente in sé stesso quale passatempo intellettuale e finanche cerebrale, esso riesce. Nella dimensione più raccolta e – dimensionalmente – meno ambiziosa di un racconto breve, la strategia gaimaniana si rivela adatta alla costruzione di un meccanismo perfetto, un gioco che il lettore può assaporare parola dopo parola, citazione colta dopo citazione colta, in un rimpiattino con il suo compiaciuto autore.

A study in emerald non è solo un omaggio al mondo di Doyle e della sua creatura, né soltanto una sfrenata eterotopia narrativa. Ed è più della somma delle due cose. E’ un modello, un esempio leonardesco della funzione mitopoietica della moderna attività creativa letteraria, della straordinaria presa che la letteratura popolare ha sull’immaginario e l’elaborazione culturale. Della continua, inesausta capacità di reinvenzione del narratore, operatore di raccordi e rimandi, unificatore di ispirazioni e suggestioni differenti, tradizioni lontane. Dal materiale di risulta il fabbro valente trae utensili robusti.

Quel che altrove si risolve in esibizione, nello sfoggio di sapienza e tecnica e in dar di gomito al lettore, qui non ha modo essere. Forse perché non c’è spazio per espandersi e lasciarsi prendere la mano dall’autocompiacimento, e l’autore britannico è così “costretto” a concentrare e precipitare la messe dei riferimenti, allusioni e miti coinvolti. Deve badare all’essenziale senza distrarsi. Lo si è visto anche in L’orario di chiusura (Closing time, 2002), racconto pubblicato sulla prestigiosa rivista McSweeney’s e apparso in Italia ne  La super raccolta di storie d'avventura (McSweeney's Mammoth Treasury of Thrilling Tales, 2003).

Ecco allora che l’universo di riferimento primario, quello holmesiano, e gli intarsi che Gaiman vi innesta, innanzi tutto la mitologia lovecraftiana, così come i richiami letterari a Jekyll e Hyde e l’inevitabile eco di Jack lo Squartatore, sia il Jack reale che quello della copiosa narrativa su di lui, non ultimo l’Alan Moore di From Hell – ecco che tutto questo va a comporre una griglia di realtà coerente; va a descrivere un mondo altro dal nostro ma compiuto nelle sue parti. L’investigatore londinese che Gaiman fa agire in soccorso dell’ispettore Lestrade è credibile; molto più dell’Holmes di Doyle in effetti.

Oltre a questo vi è la storia di fantascienza nuda e cruda. A Gaiman non basta infatti giocare con Holmes e si spinge più in là. Lo studio è in emerald e non in scarlet perché da settecento anni o giù di lì sulla Terra (l’eterotopia…) sono tornati i Grandi Antichi. E si sono insediati sui troni di tutto il mondo. E il loro sangue è verde (non c’è più quel bel sangue blu di una volta ;-)). Compito del nostro detective è scoprire chi abbia scannato come un capretto il principe Franz Drago di Boemia, uno dei millemila nipoti della Regina Vittoria. La quale ovviamente non è l’amabile (oddio, amabile…) signora della nostra Storia, ma una sorta di orrido blob sibilante, il/la quale – diavolo di un Gaiman e dei suoi riferimenti colti – è in grado di operare guarigioni di malesseri con il semplice tocco dei suoi arti, così come la credulità popolare medioevale accreditava i monarchi di poteri taumaturgici (l’autorità regia era di derivazione divina, ricordiamolo… tra un po’ ci torneremo). I Grandi Antichi hanno sopito i conflitti umani, il prezzo è il loro dominio: ai posteri la sentenza.

Da queste premesse la storia si sviluppa sul doppio binario ferreo della sua aderenza al canone holmesiano – ma Gaiman si mangia il buon vecchio sir Arthur Conan – e alla sua natura fantascientifica di universo molto parallelo: fino alla assolutamente logica (come potrebbe essere diversamente?) conclusione. Non vi scioglierò certo il mistero, ma di sicuro il premio Hugo tributato al racconto nel 2004 appare meritato.

Uno studio in verde smeraldo è apparso sul numero 45 di Robot.

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