domenica 11 luglio 2010

Il Classico – De Profundis (id.1953 – noto anche come The Visitors) di Henry Kuttner (1914-1958) e C. L. Moore (1911-1987)


Dalle profondità: dello spazio e del tempo. Ma anche nelle profondità: della psiche. O forse è vero il contrario. Trattandosi di un racconto di fantascienza, per De Profundis si dovrebbe probabilmente preferire un’interpretazione più letterale; ma è pur vero che proprio in quegli anni i suoi autori andavano intraprendendo la loro formazione accademica nel campo degli studi psicologici e stavano diradando molto, fino praticamente a tralasciarla, la loro produzione fantascientifica, dedicandosi in prevalenza ai mystery novels, (dopo la morte del marito, Catherine Lucille Moore avrebbe scritto per qualche anno ancora sceneggiature per le principali serie televisive dell’epoca, abbandonando poi del tutto la scrittura dopo il suo secondo matrimonio nel 1963).

Nel corso della storia umana coloro che sentono le Voci hanno avuto diversi destini. Anche in funzione a chi appartenessero tali Voci: Dio o un qualche dio; il Diavolo o un qualche diavolo; gli alieni; i morti. Chi sente Dio (o un dio) può avere fortuna e accreditarsi come profeta o grande sciamano, come mistico visionario. O magari può fondare una religione in proprio. Se invece non ha fortuna lo fanno fuori o lo ficcano in manicomio e buttano via la chiave. La diversità di sorte può dipendere meramente dal caso, o magari dalla furbizia dell’individuo. A volte nell’arco della vita capitano entrambe le soluzioni. Alcuni di coloro che sentono le Voci obbediscono loro e uccidono, e per questo vengono riconosciuti come assassini e rinchiusi in galera o giustiziati; altri invece obbediscono loro e uccidono, e per questo vengono riconosciuti come santi ed elevati agli altari. Anche qui la diversità di sorte può dipendere dal caso o magari dalla maggiore o minore oculatezza nella scelta dell’identità da attribuire alle voci. Anche qui può capitare di essere prima visti in un modo e poi nell’altro: l’umanità è bella perché è varia. Tuttavia, se le Voci che un individuo sente sono confuse, indeterminate, o sono quelle degli alieni, la sua massima fortuna sarà di essere riguardato come un pazzoide innocuo, tollerato perché giudicato quale sociopatico non pericoloso. William Rogers, il protagonista e io narrante del racconto, non ha questa fortuna.  


William è un matto certificato, un uomo ancora giovane che sin dalla più giovane età entra ed esce dagli istituti di cosiddetta igiene mentale. William si professa cosciente del fatto che da sempre c’è qualcosa di storto nella sua testa: allucinazioni, illusioni, forme strane, diavoli, voci. E la Nube: una forma indistinta, discreta e non troppo invadente, una presenza, a volte sfuggente, in un cantuccio mentale. William afferma di sapere che nulla di tutto questo è reale. Reali invece, giura William, sono i Visitatori (The Visitors era il titolo del racconto prima che Kuttner e Moore ne licenziassero una versione leggermente revisionata), che solo da poco si sono aggiunti alla compagnia. Alieni, probabilmente, o forse provenienti da un altro tempo e un altro spazio, i Visitatori studiano l’umanità e la Terra, servendosi di personalità particolarmente sensibili, come William, per potersi incuneare nella realtà spazio-temporale terrestre. Come i Visitatori gli hanno detto, solo William può vederli. Logico che i medici curanti di William tendano a non credergli granché quando racconta loro dei Visitatori. La cui visione e le cui azioni sono per William fonte di enormi dolori, non solo spirituali, nella completa indifferenza dei suoi aguzzini venuti da chissà dove. Prima che William giunga alla fine per consunzione, però, la Nube – quell’innocua Nube che con l’avvento dei Visitatori era divenuta per l’uomo come la presenza rassicurante di un vecchio amico – si appaleserà quale entità di ben maggiore potenza dei tormentatori di William, e scaccerà e distruggerà quei rozzi sfruttatori della sua privilegiata postazione di osservazione dell’umanità. Nel finale gli autori non sciolgono davvero la vicenda, al lettore resta un margine di ambiguità aperto alla sua interpretazione. La Nube è effettivamente, anch’essa, un’entità aliena o comunque reale; o tutta la vicenda non è altro che l’aggravarsi delle condizioni mentali di William Rogers? De Profundis è un racconto di sf, e come dicevo una lettura letterale appare in tal senso da privilegiare. E tuttavia gli spazi della nostra mente (e tanto più quasi sessant’anni fa) non sono ancora più incogniti e gravidi di sorprese di quelli fisici del nostro sistema solare e oltre? La nostra mente, sotto certi aspetti, è ancora l’oggetto più alieno che (non) conosciamo. La doppia lettura possibile non depotenzia il racconto come prodotto genuino di fantascienza, né lo limita nei confini di genere in quanto ritratto di una mente disturbata. Ne esalta anzi entrambe le dimensioni, fornendo al racconto di fantascienza una profondità e uno spessore tridimensionali; e al racconto mainstream una venatura enigmatica che ne aumenta la carica ansiogena. Un’eco lontana della fattiva influenza esercitata da Lovecraft su entrambi gli autori si avverte.

Quando scrivono questo racconto, Henry Kuttner e C. L. Moore sono scrittori ormai maturi e pienamente consapevoli dei propri mezzi espressivi. Attivi sin dagli anni ’30 (Catherine esordisce nel 1933, Henry nel 1936, entrambi con due racconti memorabili), sono stati tra gli assoluti dominatori della scena delle riviste americane di fantascienza negli anni ’40, sia per la quantità che per la qualità dei lavori pubblicati. Se oggi il loro nome è meno noto di quelli di Asimov, Heinlein, Leiber, Sturgeon (e anche Simak e van Vogt, pur più negletti) è perché come ricordavo prima alla fine del decennio la loro attività nel campo rallentò grandemente, per poi terminare del tutto con la morte precoce di Kuttner. Molte delle loro opere appaiono però valide ancora oggi, e andrebbero rilette e riportate all’attenzione dei lettori.  

La copertina della prima edizione hard cover dell'antologia Ahead of time dove venne pubblicato il racconto.

De Profundis è un esempio brillante sia della grande inventiva che li caratterizzò che della loro scrittura vigorosa ed emozionalmente colorita. William è una figura che colpisce l’immaginazione del lettore e si scolpisce nella sua memoria. Che sia pazzo o veramente visitato da qualcuno non ha importanza: non siamo in grado di arrivare davvero a comprenderlo dall’interno della sua mente, figuriamoci quindi se potremmo esserlo dall’esterno, dove ad esempio sono i suoi medici. Ma al di là di questo nodo irrisolto (e irresolubile), ciò che davvero risalta e rende preziosa la lettura è il rilievo realistico che comunque assume questo viaggio nelle profondità della psiche di William. Kuttner e Moore non affondano magari del tutto, e  in qualche modo il loro sguardo non si spinge davvero fino in fondo alla mente di William - si tratta pur sempre di un breve racconto, e privilegiare un certo effetto rispetto a una maggiore sostanza ha un suo perché. Tuttavia il vigore della descrizione compensa questa carenza relativa con la violenza con la quale fa emergere la disperazione e l’angoscia di William, ritratte con partecipazione e incisività. Per quanto in grado di essere flamboyante ed emotiva, infatti, la scrittura dei due autori si mantiene lucida e analitica per tutto il racconto. La sconsolata afflizione spirituale di William si trasmette al lettore con forte impatto sui suoi sensi, ma viene anche accuratamente sviscerata nella pur ristretta brevità del racconto. E in ogni caso la lettura puramente fantascientifica resta pienamente legittima, e la storia di questa povera mente umana campo di battaglia per possenti entità aliene è per sé già ricca di sottintesi (è il 1953, non dimentichiamo, e per dire Joe McCarthy è vivo e lotta con Loro…).


Su Henry e Catherine le leggende fiorirono: era più bravo lui – no, era più brava lei; quel racconto l’ha scritto lui (o prevalentemente lui) – no, l’ha scritto lei (o prevalentemente lei). Il fatto che dopo il loro matrimonio nel 1940, per pubblicare abbiano fatto uso di innumerevoli pseudonimi – almeno una quindicina - oltre che dei loro nomi, non aiuta certo a districare i vari nodi. Lewis Padgett fu quello che usarono di più; Lawrence O’Donnell era forse usato per racconti (molti meno di quelli di Padgett, ma quasi tutti memorabili) scritti dalla sola Catherine o in prevalenza da lei. Rintracciare una regola è però quasi impossibile: per dire, la novella del 1943 Clash by night fu pubblicata da Lawrence O’Donnell e molto probabilmente è stata scritta dalla sola Catherine; il romanzo Fury del 1947, rielaborazione ed espansione della novella è una collaborazione tra i coniugi, e fu ugualmente pubblicato su rivista sotto lo pseudonimo di O’Donnell… tuttavia l’edizione in volume di qualche tempo dopo uscì sotto il solo nome di Henry Kuttner. Il fatto che ai loro tempi il lavoro di una scrittrice fosse generalmente sottovalutato (e pagato peggio…), ha probabilmente portato allora a sottovalutare l’apporto di Catherine; e il revisionismo degli ultimi decenni ha probabilmente portato a sottovalutare nei tempi più recenti quello di Henry. La vulgata vuole che Kuttner fosse uno scrittore dall’inventiva più fertile e dalla maggior facilità e rapidità di scrittura, abile nell’intreccio e nel creare psicologie credibili e approfondite, ma debole nello sviluppo consequenziale delle trame; mentre Moore fosse autrice stilisticamente più raffinata e dall’immaginazione meno ampia ma dalle coloriture più fantasiose, e molto più rigorosa nel condurre in porto le proprie trame. Quel che i loro lavori precedenti il matrimonio ci dicono è che Henry Kuttner e C. L. Moore erano già due eccellenti scrittori popolari (Henry pubblicava di più; e Catherine aveva senza dubbio una scrittura evocativa, romantica ed emotivamente esuberante in grado di scatenare il sense of wonder), che negli anni successivi seppero crescere ulteriormente e integrarsi alla perfezione in uno scrittore più completo della somma delle loro parti: il racconto qui in questione mostra, fusi armonicamente, i pregi di entrambi che la vulgata accredita. L. Sprague de Camp aggiunge alla loro leggenda che con il tempo fossero diventati a tal punto coordinati che l’uno o l’altra poteva interrompere il lavoro nel mezzo di una frase e l’altra o l’uno riprendere immediatamente senza che vi fossero interruzioni e si notassero differenze. E’ probabilmente un’esagerazione, ma rende bene l’idea di quella che dovette essere una collaborazione davvero profonda, a estensione e integrazione di un rapporto di vita.

De Profundis fu pubblicato, a quanto mi riesce di appurare, sotto il solo nome di Henry, ma è una collaborazione acclarata tra i coniugi. In Italia è stato pubblicato tre volte, nessuna delle quali recente. Le ultime due nell’antologia Il Twonky, il tempo e la follia (in origine Ahead of time), per lo SFBC nel 1971, e in seguito nel volume dei Massimi della Fantascienza dedicato a Kuttner, che contiene parecchi altri notevoli racconti, tra i quali spiccano la novella Vintage season, quasi sicuramente opera della sola Catherine, e The Twonky, probabilmente del solo Henry. 

Segnalo qui di seguito i link ai loro racconti di esordio. Shambleau, apparso su Weird Tales nel 1933 è la novella iniziale del ciclo di science-fantasy dedicato all’avventuriero spaziale Northwest Smith. Oggi appare datato per molti versi, tuttavia il trionfo di fantasia, orrore e pura immaginazione rappresentato dalle sue pagine, così come la brillante ricchezza barocca della scrittura, ne fanno ancora una lettura da godere. The graveyard rats, ugualmente pubblicato su Weird Tales, nel 1936, è un racconto horror di rara quanto semplice efficacia (Lovecraft, con ogni probabilità, operò un’approfondita revisione del testo dell’esordiente discepolo Kuttner).

Shambleau:

The graveyard rats:
 

5 commenti:

Muasie ha detto...

Stavo giusto chiedendomi.... Tempismo perfetto! :-)

Vincenzo Oliva ha detto...

Ah, ci si chiedeva! :)

baloons ha detto...

hello! warm greeting ^^!
you have a nice blog 0_0

by the way,
if you need to find Fasion Photos, you can go to our website.

best regards;

S_3ves ha detto...

Grazie per i link agli introvabili Shambleau e The graveyard rats, e grazie per avermi ricordato la mia infanzia, quando spulciavo i già vecchi Galassia e Urania dei miei genitori e mi ripetevo sottovoce quei titoli così strani: Il Twonky, il tempo e la follia… e quei nomi - Sturgeon, Leiber, Kuttner, De Camp – che allora non mi dicevano niente (ma ancora per poco: poi cominciai a leggere i libri di nascosto…

Vincenzo Oliva ha detto...

Grazie a te per le tue parole. Se è vero che molta fantascienza dei primi decenni delle riviste è ormai sorpassata, le cose migliori acquistano invece una profondità maggiore man mano che gli aspetti più legati al voler stupire il lettore perdono d'importanza e se ne recupera il senso.

Ciao!

V.