sabato 27 luglio 2013

I contemporanei – Extraci (2010) di Massimo Mongai (n.1950)



Quando tre mesi dopo la Grande Rivolta iniziò a scemare, almeno in Italia, Roma e tutto il Lazio settentrionale erano in mano agli extraci. Le vittime ammontavano a oltre tre milioni e i profughi, fra Cittadini ed extraci, a quindici.
Ma, come si vide poi, quello era solo l’inizio.
Questa è la fine, ma era iniziato in tutt’altro modo.
Cos’è la benzina, effendi? – Chiese Kuba, l’ausiliare extraci.  
Così era iniziato. Un incipit semplice ed essenziale, che lasciava presagire un racconto sull’ecologia, sui problemi energetici; o che magari narrasse di grandi multinazionali o di storia (storia da un’ottica dell’epoca nella quale è ambientato il racconto, verso la fine del secolo attuale). Verosimilmente, un racconto narrato con il – o quanto meno venato del - tono umoristico di quel Memorie di un cuoco d’astronave che è stato il romanzo d’esordio di Massimo Mongai e che è divenuto a piena ragione un genuino classico della fantascienza. Mongai offre invece una parabola assai amara sul futuro del nostro paese. Una parabola possibile, se non probabile. Indubbiamente una parabola verosimile. Una parabola di pura fantascienza, a onta della collocazione del racconto in un’antologia curata per il Supergiallo Mondadori da Gianfranco De Turris (Sul Filo del rasoio – Estate Gialla 2010). De Turris scrive nella prefazione come la decisione di pubblicare tale antologia di racconti gialli di fantascienza nell’ambito della collana Supergiallo e non su Urania, dove pure avrebbe potuto uscire a pieno diritto, fosse stata dettata dall’intenzione di far aprire a nuovi orizzonti i lettori abituali del giallo che sarebbero usi (secondo De Turris) leggere esclusivamente opere del genere da loro prediletto. È probabile che la motivazione reale sia molto più terra terra: verosimilmente il Supergiallo garantiva vendite superiori. Sia come sia, il racconto di Mongai del giallo non ha praticamente nulla. Ci sono dei poliziotti, sì, e c’è un delitto in piena regola, sì; ma questo è tutto: nell’economia del racconto non sono centrali né il delitto, né la sua soluzione o il movente in senso specifico, né infine i tutori dell’ordine protagonisti della vicenda. Centrale è l’estrapolazione, base della narrativa di fantascienza: in questo caso estrapolazione sociale. Sia come sia, nuovamente, Extraci mostra ancora una volta come la fantascienza non sia propriamente un genere, ma una modalità letteraria passibile di essere attraversata dai generi e attraverso la quale si può fare narrativa a tutto tondo. Per citare Douglas Adams: la vita, l’universo e tutto quanto
Scabro racconto di cara, vecchia fantascienza sociologica, ancorché scritto con sensibilità umana e letteraria moderne e una chiara consapevolezza dei tempi, Extraci è una succinta ma attenta e spassionata analisi di alcuni fenomeni che negli ultimi decenni hanno interessato la nostra società, come le altre società occidentali; seppure Mongai non rinunci del tutto all’umorismo di cui è capace, facendone un uso limitato e con un registro assai inacidito dalla materia oggetto della sua riflessione. Extraci sta per extracomunitari, come non è difficile intuire da subito. Sebbene l’autore molto probabilmente pecchi di ottimismo nell’immaginare un’Italia (e un’Europa occidentale) ancora meta di grandi flussi migratori a qualche decennio nel nostro futuro, lo scenario che raffigura mantiene inalterata la sua capacità di rappresentazione di una società confusa, impaurita e incapace di comprendere, introiettare e infine governare i fenomeni causati dagli eventi che accadono al proprio esterno e al proprio interno. Una società esattamente come è quella in cui viviamo noi. Per questo non è difficile vedere nell’Italia del 2090 circa di Extraci la figlia legittima della nostra – vedere in effetti noi stessi.
L’Italia segmentata in caste di Extraci, suddivisa in Cittadini e non cittadini, in esseri umani di prima, seconda, terza classe e chissà quante altre (e l’essere extracomunitari non coincide con necessità assoluta con l’essere individui di serie B, C eccetera), appare una semplice proiezione matematicamente esatta di quella dei nostri giorni. Appare la continuazione del ritorno al passato che negli ultimi decenni viene propagandato per liberalizzazione, progresso, inevitabile smantellamento di strutture pubbliche che si vorrebbero parassitarie. Ma con il selvaggio drenaggio di ricchezza dalla disponibilità della popolazione verso poche mani private si sta attuando contemporaneamente – e conseguentemente – il ritorno a schemi e strutture sociali di molti decenni quando non secoli addietro. Non è difficile vedere come sin d’ora in molte nazioni del già quasi democratico occidente (e l’Italia è tra le prime in tal senso) si sia di fatto tornati a un’organizzazione sociale basata rigidamente sul censo, sulla chiusura delle classi detentrici del potere e sull’accesso alle medesime unicamente per cooptazione. Nella brevità di questo racconto, Massimo Mongai riesce con abilità a far sì che il lettore possa intuire questa struttura sociale dalle poche pennellate con cui la rappresenta. Ma ancor più vi riesce attraverso la psicologia dei suoi personaggi, perfettamente aderente a quell’Italia così come a questa nostra. Così come a ogni altra società, passata, presente e futura che sia, nella quale vi siano padroni, sgherri, e servi. Padroni inverecondi pieni di arroganza e paura; sgherri pieni di cattiveria e disposti a vendere ogni dignità per raccogliere le briciole delle tavole dei padroni; e servi – servi desiderosi di diventare padroni e disposti a fare i kapò e vendere l’anima, servi felici di essere servi, servi a volte inferociti.
Esattamente così sono i personaggi del racconto, con in più le stimmate di un’umanità reale e tangibile che rimanda ancor meglio al lettore l’idea della società in cui vivono – che è la stessa nostra società.
Il primo, divertentissimo romanzo di Mongai
Il capitano Franzini è un uomo vero; cosa diversa da un “vero uomo”. Non è, cioè, un esaltato, un uomo ideologicamente accecato o, peggio, psicotico. È un uomo come potremmo incontrarne sull’autobus o in fila alla posta. Un investigatore sagace e un uomo che non si fa offuscare il ragionamento dagli umanissimi pregiudizi che pure egli ha. Un uomo fondamentalmente retto, al di là dell’essere un tutore dell’ordine, e quindi incline a ubbidire a dei comandi prima che a compiere azioni dettate dalla giustizia. Un uomo che pone dei limiti di decenza alla sua appartenenza alle forze dell’ordine, e perciò inadatto a essere uno sgherro fino in fondo. Un uomo che con tutta la sua intelligenza investigativa si rivelerà un ingenuo.
Colpisce davvero che nell’economia di un racconto abbastanza breve un personaggio emerga a tutto tondo con tanta forza dalla pagina. Della vita privata, degli eventuali vizi o malattie di Franzini nulla sappiamo; però Massimo Mongai ce ne fa conoscere l’anima. Ugualmente, ben poco o nulla ci è dato sapere della vita privata del suo assistente Kuba, del quale Mongai ci fa però comprendere ancora una volta la personalità profonda: i sogni che motivano l’ausiliare extraci, le sue aspirazioni, la sua psicologia sono in tutto adatte e adattate alla società inflessibilmente castale descritta dall’autore: Kuba può sembrare un mero meccanismo letterario, ma basta scalfire la superficie per osservarne la complessità che Mongai ha sintetizzato in brevi ed efficaci schizzi qui e là. Osserviamo come l’abilità dell’autore stia nel suggerire al lettore la vera personalità dei personaggi con solo poche parole o lasciando che trapeli dalle impressioni di lettura che egli fornisce al lettore. L’anonimo Commissario Capo, ci viene anticipato nella sua natura di sgherro dal riflettere alle parole del suo sottoposto Franzini, e poi confermato dagli eventi successivi.
Autore poliedrico, Mongai ha scritto ottimi gialli.
Il resto sono note di raffinato colore: Barzigò e Pardi sono uomini politici tolti di peso dalla macchiettistica cronaca dei nostri quotidiani e tg, ma ancora una volta danno una sensazione di autenticità (che quasi mai appartiene a quelli che appaiono nei talk shaw); la Roma elefantesca che si protende sovrappopolata verso l’Appennino e straripa sul litorale dal nord di Ladispoli al sud di Torvajanica è più una profezia che ha il sapore della matematica che non di una scolastica esagerazione; e i ghetti di ogni genere che ne formano il reticolo urbano appaiono l’esplosione diffusa di tante realtà che la città osserva oggi e vive sulla propria pelle.
In un altro racconto dell’antologia, La centesima scimmia, non meno nero e disperante dello scritto di Mongai, Luigi De Pascalis scrive: (…) Relitti di una civiltà che ha perso l’occasione di essere migliore e si è trasformata in un formicaio in costante regresso: anzi in disfacimento, come un cadavere. È la stessa civiltà di Mongai, appunto, lo stesso formicaio popolato di relitti di un’umanità passata ma che non vuole passare, e che anzi prende il sopravvento, nel ciclico riprodursi del collasso della civiltà. Sono ucronie, speriamo che restino tali: potrebbe essere il ciclo finale.

2 commenti:

Iguana Jo ha detto...

Mi rendo conto solo ora di non aver mai letto nulla di Mongai.
È grave?

Vedrò di rimediare.

Vincenzo Oliva ha detto...

Non è grave, però Mongai è interessante :). Il cuoco lo trovi in rete free, ed è sicuramente un romanzo divertente, uno di quei gioiellini minori che hanno il piglio del classico :).

Grande classico è il racconto di De Pascalis di cui ho parlato dopo.