Il
percorso in autobus fino al lavoro fu placido in maniera surreale. Nessuno che
si spintonasse per essere il primo nella fila, e Chesney vide addirittura un
adolescente cedere il suo posto a una vecchia signora. Il traffico era pacato,
i taxi davano la precedenza e nessuno passava con il rosso. Ed è
così che capiamo di essere in una storia di fantascienza – anzi: fantasy tout court.
Scherzi a parte.
Il fascicolo n.7
dell’edizione italiana di Fantasy&ScienceFiction, operazione a dir poco
meritoria e azzardata mandata in edicola dall’editrice Elara (e meritoria
quanto azzardata, cioè tantissimo), si era aperto con un racconto agghiacciante
di Ken Liu: Letteromante.
Agghiacciante per la durezza e crudezza del suo contenuto, per lo sguardo
totalmente disincantato dell’autore cinese naturalizzato americano sulla realtà
della nostra umanità. Un racconto splendido, ma il cui contenuto fantastico è testimoniato
unicamente dalla sua pubblicazione su una delle più antiche e belle riviste che
hanno elaborato l’immaginario fantastico e fantascientifico dello scorso
secolo.
Sull’appartenenza del
racconto di Hughes al campo del fantastico, più che uno specifico
fantascientifico, non vi è invece dubbio alcuno. E, volendo spaccare il capello
in quattro e mettersi a fare i tristi etichettatori di storie, la trattazione
satirica e laica che egli fa della mitologia angelica e demoniaca (per tacere
dell’innominata divinità del racconto e della speculazione sul libero arbitrio)
è tuttavia più inclinata verso la fantascienza che non la fantasy.
Tono e registro sono quanto
di più lontano da quelli di Liu, alla cui liricità (nella prima parte di Letteromante) e scabrosa tragicità
(nella seconda) Hughes sostituisce l’aerea leggerezza della sua sferza satirica
e un cinismo divertito e sornione. Lo sguardo di Hughes non è tuttavia meno
ampio di quello di Liu, né meno profonde le sue riflessioni sull’uomo. E sebbene
tali riflessioni appaiano più banali, più scontate e a buon mercato, le parole
di Hughes pizzicano in realtà con grande sapienza i nervi più scoperti delle
male abitudini, dei malvezzi, delle piccole e grandi meschinità che trapuntano di
fragile umanità le vite e i comportamenti di noi esseri umani. Le parole di
Hughes penetrano altrettanto in profondità sotto la pelle dell’uomo
Le parole di Hughes hanno la
sapidità di quelle dei grandi moralisti del passato. Ché oggi moralista è un
termine di pessima stampa, ma un tempo (e nel suo più autentico significato)
soleva indicare chi con la sua acutezza nell’analizzare la società e riflettere
sui comportamenti umani sapeva indicare quelli migliori per una convivenza
umana serena e solidale. Con i preti (di ogni genere) che oggi se ne arrogano
il monopolio, per la morale e il moralismo sono tempi francamente grami.
Vabbe’.
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Un giovane Jack Vance, autore prossimo alla sensibilità di Hughes |
Se Hughes è variamente descritto e indicato,
ivi compreso il suo profilo su Wikipedia, come un erede tutt’altro che indegno
di Jack Vance (e il suo romanzo Guth Bandar Esploratore della Noosfera, apparso in Italia per Delos Books può
testimoniare la fondatezza dell’assunto); non di meno nel suo editoriale
al settimo fascicolo di F&SF, Armando Corridore definisce swiftiana questa ispirazione satirica
del racconto di Hughes (e appunto Swift fu certamente tra i grandi moralisti
del passato).
Pur senza voler troppo oltre scomodare
il grande irlandese o il C.S.Lewis delle Lettere
di Berlicche non vi è dubbio che Hell
of a fix risenta, beneficamente, dell’opera di Swift. O che quanto meno sia
accostabile a un altro divertissement “diavolesco”
di un grande autore di fantascienza del passato: Isaac Asimov con il suo
Azazel. I fulminanti racconti che Asimov dedicò al suo demonio in formato
tascabile abitano molto di più il versante puramente umoristico e i territori
del funambolismo logico e linguistico; laddove la riflessione che Hughes
propone nelle due direzioni della natura umana e dei meccanismi della creazione
narrativa è senza dubbio molto più analitica e approfondita. Con Azazel Asimov
dava libera voce e libero sfogo alle immaginifiche profondità dell’Homo ludens (dell’Asimov ludens…) senza proporsi di scendere in profondità; in questo
racconto Hughes si sofferma sui meccanismi psichici profondi di quell’uomo che
gioca (e narra), e sulle regole e i percorsi della sua creatività. Oltre a
scatenare una nobile vena moralista.
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Isaac Asimov sui vent'anni |
La trama è presto riassunta:
Chesney Arnstruther fa una cavolata e all’Inferno entrano in sciopero; con
conseguenze devastanti sulle attività dell’umano consorzio civile. Per essere
più giusti e precisi, Chesney si trova coinvolto suo malgrado in un quasi
kafkiano cul-de-sac originato dalla
stolidità della burocrazia infernale – stolida come ogni burocrazia compiuta
che si rispetti: ciò che è molto più in sintonia con il tono del racconto e i
suoi intenti. Si noti en passant come
il nome del protagonista suoni molto asimoviano: chiaramente dell’Asimov dei
racconti di Azazel.
Chesney è un protagonista assolutamente
tipico di certa letteratura popolare, certo cinema, certa televisione americana
e più in generale anglosassone. È tutt’altro che uno stupido, Chesney, e
sebbene sia il primo ad essere cosciente del fatto che gli manchi
quell’elemento fondamentale di visionaria creatività atta a trasformare un
matematico che si guadagna la pagnotta come attuario in una società
assicurativa in un Gauss o un Peano, il suo è un cervello fino e abituato a
ragionare in termini quantitativi, di costi e benefici. È però anche il
prototipo del nerd, infatuato di
Batman e con un universo psichico di fantasie che sostituiscono l’assenza di
una vita reale. Ed è questo a renderlo il protagonista tanto tipico di una
storia del genere. Il protagonista perfetto, che salverà la baracca – non senza
l’aiuto di un altro personaggio non meno tipico, il self made man dai mille talenti, anche e soprattutto truffaldini,
perfettamente rappresentato dal “reverendo” William “Billy” Lee Hardacre, che
nell’economia del racconto funge da deus
ex machina non meno che da specchio privilegiato di tante nostre piccole e
grandi meschinità e infingardaggini. Oltre a fornire il destro per un altro topos da novanta della narrativa
popolare: il ravvedimento operoso del peccatore. Tutto questo va immaginato
inserito nella tramatura fortemente ironica della narrazione, nel gusto
divertito e insistito con il quale Hughes procede all’esposizione degli eventi
e in seguito alla soluzione del dilemma: qui basti vedere con quanta levità e
al contempo accurata e spassionata lucidità l’autore analizzi la diade
fondamentale della civiltà umana attraverso la descrizione che fa del rapporto
madre/figlio che intercorre tra Letitia e Chesney Arnstruther.
L’intera storia corre su un
doppio binario: da una parte la riflessione sui meccanismi creativi della
narrazione, su come i personaggi prendano in qualche modo vita propria e
finiscano per prendere la mano al loro autore; dall’altro, e specularmente, il
libero arbitrio umano che sembra il modello – o la mimesi – di tale meccanismo.
Nulla di inedito, ma il vero punto di forza e la giustificazione del racconto
restano la soave impudenza e la benevolente cattiveria con la quale Hughes
mette, o meglio omette in scena la sua divinità che va a tentoni, servendosi
della storia umana per apprendere il senso profondo dell’etica, scrivendo e
riscrivendo la trama del suo “romanzo” rappresentato da quell’intera storia,
correggendone passo passo gli errori e le dimenticanze. Attorno a Chesney,
Billy Lee e all’apprendista dio ignaro dei termini dell’etica si affolla una
pittoresca galleria di dèmoni, angeli e più o meno improbabili personaggi
umani. Nel seguire questo suo doppio binario, con altrettanta negligente
noncuranza l’autore mette alla berlina i capisaldi della civilizzazione umana
(la competizione, la gerarchizzazione sociale, la famiglia, la libidine, la
necessità di trascendenza), senza nascondersi quanto essi siano anche necessari
a una evolutiva civiltà umana – e ovviamente necessari alla creazione
narrativa: senza il conflitto, senza la grandi passioni negative o quelle
estreme, senza gli orrori dell’umanità, la letteratura diverrebbe molto noiosa.
Senza il pungolo del desiderio la vita sarebbe piatta e priva di attrattive. In
tal senso, Chesney appare quasi come una possibile soluzione di compromesso tra
le due eterne polarità del Bene e del Male. O, anche meglio, della passione e
dell’apatia.
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Il romanzo di Hughes pubblicato da Delos Books in Odissea Fantascienza, oggi come oggi probabilmente la miglior collana di sf in Italia. |
La fantascienza ha usato
innumerevoli volte del concetto di una umanità trastullo di entità (o divinità)
infinitamente superiori a essa, o semplici pedine di esperimenti di tali entità
o divinità. Questo aspetto appare però secondario nella breve novella di
Matthew Hughes, e l’autore si serve soltanto dell’escamotage, per riflettere
beffardamente su quanto su detto. In questo Hughes si allontana in qualche modo
da un’ortodossia fantascientifica per addentrarsi piuttosto nella narrativa
speculativa. Tuttavia la miglior fantascienza ad argomento religioso ha sempre
fatto null’altro che questo: per citarne che pochissimi, dal Miller di Un Cantico per Leibowitz al Blish di A case of conscience, dal Del Rey di For I am a Jealous People! (http://olivavincenzo.blogspot.it/2012/10/i-classici-non-avrai-altro-popolo-for-i.html) al Chiang di L’inferno è l’assenza di Dio i migliori
risultati fantascientifici sono stati ottenuti in apparenza allontanandosi da
una fantascienza pienamente riconoscibile come tale. Il Satana afflitto dalle
rivendicazioni sindacali della manovalanza demoniaca e i noiosissimi angeli di
Hughes sono il sogghignante e perfetto specchio degli spietati alieni senza
peccato di Lester Del Rey; i fratelli minori degli iperuranici angeli di Ted Chiang
e del loro distruttivo e noncurante manifestarsi nella realtà umana.
Matthew Hughes non è un
giovane di primo pelo, e di primo pelo non era neppure vent’anni fa quando
iniziò la sua carriera letteraria nel campo della narrativa. Britannico di
nascita ma emigrato ancora bambino in Canada, come racconta nel suo sito, oltre
a scrivere da alcuni anni si dedica all’attività di housesitter, in tal modo
vivendo spesato un po’ qui e un po’ là e dedicandosi così alla scrittura con
maggiore comodità.
Un’ultima notazione sulla
traduzione del titolo, quell’insipido e burocraticamente (ecco…) preciso Soluzione infernale che non rende
giustizia al titolo originale, che suonerebbe meglio come qualcosa tipo Un diavolo di soluzione! Ma non si può
avere tutto dalla vita J
4 commenti:
infernale!
Caro Vincenzo, non scrivi più!?
Ciao,
J
È soltanto una pausa, sebbene (molto) prolungata. La vita ci propone fasi, anche belle come quella che sto vivendo, molto impegnative, che assorbono le nostre energie. Ma spero di rimettermi a scrivere tra qualche tempo.
Un sincero grazie per avermi scritto!
V.
Oohh, molto bene. Spero solo ti sia rimasto un po’ di tempo per la lettura… che quella aiuta sempre!
Ciao, alla prossima,
J
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