domenica 7 ottobre 2012

I classici – Non avrai altro popolo (For I am a Jealous People! - 1954) di Lester del Rey (1915-1993)




Che il suo vero nome fosse quel Ramon, seguito da una sfilza di altri nomi degni di un Grande di Spagna con una schiatta millenaria sulle spalle, oppure il ben più prosaico Leonard Knapp riferito in una intervista a Locus dalla sorella Sarah che gli è sopravvissuta, “Lester del Rey” è stato un autore di rilievo primario della fantascienza di matrice positivista propugnata con forza da John Campbell sulle pagine di Astounding, principale rivista americana di sf negli anni ’40 dello scorso secolo, da lui diretta per oltre tre decenni, fino alla morte. In seguito, nel corso degli anni ’50, del Rey si affermò come una delle principali firme del campo della sf nella produzione di juveniles, romanzi che oggi si direbbero Young-adult, spartendo la maggior gloria con Andre Norton e Robert Heinlein. Se non vi è dubbio che la gran parte di quelle opere fossero alimentari, come certamente anche molte del periodo precedente, non è meno vero che nei lavori dove volle o poté permettersi di essere più curato, soprattutto racconti e novelle scritti dal suo esordio nel 1938 e nei circa vent’anni successivi, del Rey abbia saputo mostrare una cifra stilistica e di contenuti personale e la capacità di attrarre il lettore con il fascino delle trame avventurose sempre abbinato a un rigoroso stimolo alla riflessione. Nella voce a lui dedicata dalla Encyclopedia of Science Fiction curata da John Clute e Peter Nicholls, Brian Stableford scrive di del Rey che “LDR was a versatile but rather erratic writer who never fulfilled his early promise. His best work appears in the collections (…)”. E l’autore britannico commenta con acume: di rado infatti del Rey parve mantenere quelle promesse (e premesse) poste in alcuni dei suoi primi lavori, in particolar modo Helen O’Loy, scritto agli esordi, che pur presentando le inevitabili ingenuità dell’età in cui fu pubblicato e del tipo di pubblicazione su cui apparve, compresa una decisa coloritura romantica, è ancora oggi una lettura emozionante e in grado di rivolgersi ai sentimenti autentici del lettore. Oppure Nervi, la novella del 1942 poi espansa alla misura di romanzo che rappresenta il miglior risultato narrativo conseguito da del Rey e che narra, con realismo eccezionale per l’epoca, di un incidente in una centrale nucleare.

L'antologia dove apparve la novella in origine
Pubblicato in origine nel 1954, For I am a Jealous People! Fu edito per la prima volta in Italia nel 1965 sulle pagine di una bellissima antologia curata da Roberta Rambelli con altisonante prefazione di Gillo Dorfles, Fantascienza della crudeltà, con l’impeccabile titolo Perché sono un Popolo Geloso. Comparve in seguito nel 1974 nel fascicolo n.653 di Urania (si ometta pietosamente il titolo utilizzato per l’antologia), che presentava in Italia l’antologia personale di del Rey Gods and Golems, che raccoglieva la sua migliore produzione di media lunghezza della prima metà degli anni ’50; questa volta il racconto è pubblicato con l’ugualmente corretto titolo Non avrai altro popolo. Nella “migliore” tradizione della rivista mondadoriana, l’edizione ometteva di pubblicare uno dei cinque lavori presenti nell’antologia originale, Pursuit (leggibile in inglese a questo indirizzo: http://www.gutenberg.org/catalog/world/readfile?fk_files=1635003), secondo un filo d’acciaio che connette la Urania di Fruttero&Lucentini a quella dei nostri tempi nell’attitudine all’uso delle forbici. Le successive edizioni della breve novella manterranno questo titolo fino all’ultima, comparsa di nuovo su Urania (nel fascicolo n.1479) come Perché sono un dio geloso!, titolo fuorviante quanto altri mai, che travisa radicalmente il senso profondo dell’opera in precedenza sempre rispettato: tanto per confermare che se si può far peggio ci si impegna con alacrità.


For I am a Jealous People! è per molti versi un’opera tipica della Golden Age della fantascienza (http://en.wikipedia.org/wiki/Golden_Age_of_Science_Fiction), senza dubbio rispettosa del verbo campbelliano che prevedeva che gli esseri umani (o per meglio dire: gli americani rigorosamente wasp) fossero sempre e comunque in grado di vincere le sfide, le battaglie, i rovesci di fortuna, le imprese impossibili e a ogni modo qualunque avversità il destino proponesse loro attraverso le vicende narrative. E non vi è dubbio che il tipo di avversità che il reverendo Amos Strong, protagonista principale della novella, si trova a fronteggiare è del tipo più arduo: combattere avendo Dio nel campo avversario. Quale che fosse la sfida, gli uomini (americani wasp) di Campbell e dei suoi discepoli più fidati vincevano immancabilmente, per cui non dubitiamo che la sfida finale lanciata dall’uomo di Dio al suo (ormai ex) dio e al popolo eletto di questi, gli alieni invasori e sterminatori, sarà coronata da successo. Una variante potrebbe sempre essere quella della gloriosa soccombenza in stile Alamo: poco importa che il mito di Alamo sia autentico quanto una moneta da tre euro; e in ogni caso si ricordi che, DOPO, a Santa Ana gli abbiamo fatto un mazzo così. Ma sebbene del Rey non narri l’esito finale del confronto, crediamo vi sia ben poco spazio per uno diverso dalla vittoria umana (americana wasp).

L’elemento religioso ricorre in più di una delle migliori opere dell’autore americano - anche nell’antologia Gods and Golems -, compreso quello che probabilmente è il suo miglior romanzo: L’undicesimo comandamento, pubblicato nel 1962, a sostanziale chiusura del periodo creativamente felice e abbondante della sua produzione. Nella novella in esame come nel romanzo, del Rey sa miscelare sapientemente gli aspetti più tipicamente avventurosi e di intrattenimento con un’acuta azione di stimolo alla riflessione sui temi teologici e di coscienza che getta in campo, e senza che l’uno aspetto soverchi mai l’altro. Il riferimento a Kant che Amos fa (“Quindi agisci in modo da trattare l’umanità sia nella tua propria persona che in quella altrui, in qualunque caso, come un fine e assolutamente mai come un mezzo.”) non stride con la trama di una feroce, apparentemente insensata, invasione aliena: è anzi essenziale per comprendere lo sviluppo del personaggio e per inquadrare concettualmente la novella.

Nell’economia della breve novella di cui si tratta, la necessità di porre in modo succinto le questioni attinenti alla tematica religiosa non inficia minimamente l’efficacia del lavoro dello scrittore americano. Paga se mai egli lo scotto di una certa rozzezza stilistica, o meglio della brutalità con cui deve comprimere e sollecitare il suo personaggio a compiere rapidamente l’evoluzione – e anzi la rivoluzione – copernicana del suo spirito e del suo modo di essere, della sua personalità profonda. A onta di questa necessaria brutalità, del Rey è tuttavia abile a mostrare ogni sottigliezza del lavoro corrosivo che il dubbio suscitato dall’osservazione della realtà e dal contatto con lo stesso Dio, “traditore” del suo ex popolo, compie nella psiche e nell’anima di Amos Strong. Novello Giobbe, ma che infine rifiuta lo schema psicologico che riteneva Dio avesse scelto per lui – che Amos si era costruito per sé, insieme alla immagine di un dio fatto a propria immagine - , quest’uomo pio e sottomesso al verbo di Dio, ma pur ammantato sempre di una dolente e nobile dignità, giungerà nel finale della novella a pronunciare il programma (campbelliano ;-)) della guerra contro gli avversari dell’uomo (americano wasp): “Dio ha denunciato l’antico patto e si è dichiarato nemico dell’umanità – disse, e la chiesa risuonava al rombo della sua voce. – E io vi dico che egli ha trovato un valido antagonista.

Che del Rey ne fosse consapevole o meno (e probabilmente lo era eccome), in tal modo il reverendo Strong veniva anche a chiudere il cerchio, specularmente ritrovando la pienezza della sua quasi esaltata fede giovanile in Dio in tale ispirata opposizione allo stesso Dio. Minor successo ha forse l’evidenziazione del percorso interiore che trasforma l’un tempo ardente e ormai intiepidito predicatore in un profeta carismatico: qui lo spazio narrativo risulta eccessivamente tirannico. Tuttavia l’autore compensa la pochezza analitica con la vividezza emotiva con la quale descrive la (ri)presa di coscienza di Amos: “Amos passò il resto della giornata nella casa dove aveva trascinato il cadavere di Doc. Non andò nemmeno in cerca di cibo. Per la prima volta in vita sua, da quando gli era morta la madre, a cinque anni, non aveva protezione contro il dolore. Non l’amara convinzione che si fosse fatta la volontà di Dio a consolarlo della perdita di Doc. E, rendendosene conto, sentì anche l’acuto dolore per le altre perdite dolorose, come se fossero anch’esse avvenute insieme con la morte di Doc.” Lester del Rey lascia sempre al lettore il suo libero arbitrio, si residua lo spazio del dubbio, tuttavia la sua scelta di campo appare razionale. O quanto meno lo sono le scelte di campo dei suoi personaggi, Amos Strong compreso.

La vividezza cromatica delle emozioni non resta concentrata nel solo reverendo; pur nell’economia della necessità di farne giganteggiare la figura, del Rey si dimostra professionista particolarmente smaliziato nel dipingere con rapide pennellate dei personaggi di contorno credibili e in grado di andare oltre la pura funzione di mascherine e cliché. Non solo il “Doc” della citazione qui sopra, il dottor Alan Miller, figura assolutamente stereotipa del medico condotto dell’America profonda di parecchi decenni fa (l’azione si svolge in un Kansas agricolo, perfettamente aderente a quello dell’epoca in cui la novella è stata scritta) e che pure diviene materiale narrativo caldo e vivo sotto la penna di un del Rey in grado di fornire tridimensionalità al personaggio con pochi indizi sparsi ad arte. Anche figure del tutto minori come la sartina e improvvisata organista di chiare origini italiane Angela Anduccini saltano all’occhio del lettore per la chiarezza con la quale pare di poter sbirciare nel suo animo. Mestiere, senza dubbio, ma mestiere ispirato. La capacità, anche, di saper spingere i tasti emozionali del lettore con sobrietà, come del Rey mostra nelle scene delle varie morti che toccano e infine travolgono la vita di Amos: sua moglie Ruth; il cane del figlio; sua nuora Anne; infine il dottor Miller, l’amico di tutta la vita.

Leggendo la fantascienza di parecchi decenni addietro si è sempre assaliti da un senso di fortissimo anacronismo. Personalmente è un sentimento di commosso calore quello provo. Nell’era del trionfo della Rete e della comunicazione planetaria immediata è affascinante vedere all’opera l’antica fantasia dei maestri del passato che non si peritavano di costruire basi lunari, narrare di invasioni aliene, far sfrecciare razzi futuribili nei cieli; e poi passavano attraverso una centralinista umana per mettere in comunicazione due abitazioni di un paesotto del Kansas rurale. Con tutto ciò, il senso profondo di opere come questa non risente in minima misura di tale effetto straniante. E’ degli eterni interrogativi dell’anima umana, dei tormenti e delle risoluzioni interiori che lacerano lo spirito umano, che parla la novella di del Rey. E il tempo che passa e rende sempre più lontana la sua apparenza esteriore non fa che avvicinarci la sua sostanza autentica, distillandola. E’ quanto fa di un lavoro professionale un capolavoro.

Quasi trent’anni dopo la pubblicazione di For I am a Jealous People!, Raymond F. Jones, un veterano i cui esordi letterarii precedevano quello di Lester del Rey scrisse un romanzo liberamente ispirato alla novella. In Italia venne pubblicato da Urania con il titolo di Alieno in croce (sempre benedetta sia la brillantezza dei curatori uraniani nella scelta dei titoli), a firma congiunta di Jones e del Rey.

domenica 8 luglio 2012

I contemporanei – Meraviglie dell’Invisibile (Wonders of the Invisible Worlds, 1995) di Patricia A. McKillip (n.1948)


 Vi sono racconti che rappresentano un enigma e una sfida, e anche una sofferenza. Sofferenza perché vanno a toccare delle corde interiori, tese e sensibili, e toccandole, stuzzicandole, le attivano e ne attivano la carica ansiogena. A fine lettura si prova il disagio di essere appena entrati in contatto con un rovello irrisolto; o, con minor disagio, come in questo caso, con una questione lungamente analizzata e dibattuta al proprio interno senza venirne mai davvero a capo. Un enigma perché spesso in tali occasioni non è immediato riconoscere il rovello o la questione; e gli enigmi sono fatti per installarsi nella parte inquisitiva della nostra mente in modo da tormentarci perché li affrontiamo e li risolviamo. Infine una sfida per l’ovvio motivo che il racconto in grado di tormentarci a questo punto va aperto come un guscio di noce perché riveli quale sia l’elemento che sfugge alla nostra comprensione immediata.

 I am the angel sent to Cotton Mather. Così esordisce Wonders of the Invisible Worlds (che Patricia McKillip mutua dall’opera quasi dello stesso titolo del teologo e leader puritano Cotton Mather, figlio di Increase Mather, egli pure celebre leader puritano del New England coloniale). Siamo dalle parti, fantascientificamente assai e volentieri frequentate, dell’interpretazione/riscrittura in chiave fantastica dell’elemento religioso/trascendente? Da una scrittrice nata a Salem (benché l’altra, quella in Oregon J) sarebbe lecito attenderselo, ma è una lettura che si rivela povera e limitata. Nella brevità delle sue poche pagine, questo racconto è molto più ricco e sottile che non una divagazione sulla religione o sul DNA religioso degli Stati Uniti, e non stupisce minimamente che David Hartwell lo abbia incluso nel primo volume di quella che sarebbe divenuta la sua felice serie di antologie annuali del Best of the year. La figura storica di Cotton Mather appartiene di diritto ai miti fondanti della nazione e ne rappresenta alla perfezione la vocazione a un’ottusa fede, assolutista e rigorista; ma nell’economia del racconto di Patricia McKillip egli è un pretesto, seppure un pretesto esemplare. Come esemplare è per altro la descrizione che l’autrice dà dell’uomo e del suo ambiente familiare e sociale con una vividezza perfino sgradevole, sbalzandone con vigore la figura sulla pagina e illustrando con pochi tratti precisi ed energici, stilisticamente ricercati perfino, la scena del New England della fine del XVII secolo dove è ambientata la prima parte del racconto: "If your throat is no better tomorrow, we'll have Phillip pee in a cup for you to gargle." From the way the house smelled, Phillip didn't bother much with cups. Cotton Mather smelled of smoke and sweat and wetwool. Winter had come early. The sky was black, the ground was white, the wind pinched like a witch and whined like a starving dog. There was no color in the landscape and no mercy. Cotton Mather prayed to see the invisible world. Non esattamente il tipo di luogo e di gente che si sceglierebbe di visitare in prima battuta avendo la possibilità di spostarsi nel tempo. Non solo l’opprimente sentimento religioso dei Puritani e della loro Legge Divina ossessiva. La prima parte del racconto mostra un ambiente umano di immaginazione sovreccitata, una cultura il cui immaginario era tanto potente quanto morboso, e tanto ricco di barbarie barocca quanto fissato su un sovrannaturale sospeso tra un Bene spietato e cieco alla comprensione umana e un Male multiforme dai riflessi orrorifici profondi. Dalla padella alla brace. Ambiente perciò anche fecondo, letterariamente parlando. E’ facile vedere Lovecraft nel futuro di quell’immaginario.

Il Millemondi autunno del 1997 contenente il racconto tradotto
Già nell’incipit, una volta conclusa la lettura, è possibile riconoscere come il racconto non si fermi a una banale lettura futuribile del fenomeno religioso. I am the angel sent to Cotton Mather.  Qui è necessaria una digressione di cui mi scuso. La traduzione è: Sono l’angelo (che è stato) mandato a Cotton Mather. Nel volume italiano si legge invece: Sono l’angelo che è stato visto da Cotton Mather. Al di là di una certa goffaggine stilistica a fronte della secchezza della frase di Patricia McKillip si tratta di una semplice differenza nei termini scelti dall’autrice e da chi ha tradotto? Non direi proprio, in sede di traduzione si è operato uno stravolgimento di senso dell’originale. Che non a caso rende più difficoltoso individuare il nocciolo del discorso della scrittrice americana. “Sono l’angelo mandato a Cotton Mather” chiarisce immediatamente che l’uomo non è un allucinato; e non importa che l’angelo non gli sia inviato dal Dio che Mather prega, non importa che si tratti di una donna del futuro truccata da angelo stereotipato ai fini di una ricerca storica e sociologica sul campo. Ciò che rileva è che l’angelo non è un parto della mente malata e allucinata del leader puritano: Mather non è il creatore della visione ma il suo ricevitore, e l’angelo non è andato lì sua sponte, ma è stato mandato presso di lui. “Sono l’angelo che è stato visto da Cotton Mather” comporta una netta modificazione di senso, a partire dall’ambiguità sotterranea sul soggetto: l’angelo è stato visto per sua decisione, perché qualcun altro ha deciso in tal modo oppure perché Mather è in effetti un fanatico ai limiti della psicosi? Essendo Mather un puritano e dunque un protestante che appartiene a una cultura altra dalla nostra, essendo anche un noto cacciatore di streghe (o almeno sentito come tale) è per tale motivo che va presentato senza dubbio al lettore come un invasato? Quanto scrive in seguito l’autrice lo dipinge come tale, è vero, tuttavia l’ottica è diversa. Patricia McKillip offre una lettura laica e scientifica dell’uomo e del suo ambiente spirituale, sin da quella prima frase. La traduzione dell’incipit orienta invece l’interpretazione della figura di Mather non tanto sulla sua esaltazione mentale quanto sull’aspetto religioso di essa. In apparenza è una differenza sottilissima, e non vi è dubbio che Cotton Mather fosse un individuo la cui vita era dominata da una religiosità totalizzante. Ma questo è il Mather storico, non quello del racconto, che è un puro esemplare: un oggetto di studio per Nici, la ricercatrice addobbata da angelo e per il suo capo, nonché un personaggio scelto per il suo valore riassuntivo, iconico. Giuseppe Lippi, l’allora come oggi curatore di Urania e collegati, probabilmente ci direbbe che si tratta di uno di quegli interventi di “editing” (così vengono definiti… vabbe’) che migliorano la qualità delle opere tradotte e per i quali si deve ringraziare.
Cotton Mather da anziano

Al di là della sciatteria della traduzione che fa perdere la bellezza essenziale di quella frase introduttiva, qui si finisce però con il manipolare la lettura, sottolineando all’attenzione del lettore un aspetto che nell’architettura del racconto è accessorio; e mutando il soggetto attivo della visione si viene a perdere la circolarità del racconto e dunque il suo senso profondo, il gioco di specchi tra Nici e Cotton Mather. Nella frase di Patricia McKillip il puritano non è in grado di creare la propria visione senza un intervento esterno; che tale intervento sia di Dio o degli uomini del futuro come detto non è così importante. Esattamente come alla fine del racconto Nici e suo figlio Brock (e intuitivamente tutti gli uomini del futuro) non sono in grado di creare materialmente il proprio immaginario visivo senza un intervento esterno, in questo caso di un prodotto della tecnologia umana, un computer. Senza il computer Nici non avrebbe visualizzato i propri sentimenti nella figura dell’angelo ingabbiato, impossibilitato a prendere la sua libertà e volare (e a mutare la Storia). Viceversa nella frase tradotta Mather appare ambiguamente come il possibile creatore di una visione allucinata e il soggetto attivo della visione, invece che il suo oggetto e un oggetto di studio.

L'antologia dove venne originariamente pubblicato il racconto
 Ma questo non è un racconto di argomento religioso o una descrizione razionalistica del fanatismo religioso. Neppure mostra una contrapposizione tra ragione e fede. E’ invece una storia sui meccanismi e i percorsi creativi della mente umana, sulla fantasia e su come essa opera. Senza dubbio il sentimento religioso è un generatore potente del nostro immaginario, ma come lo è anche la scienza e la tecnologia che ne deriva. Sia Cotton Mather che Nici sembrano accomunati della impossibilità di dare corpo materiale alla loro visione angelica, e l’uno e l’altra ci appaiono vittime di un immaginario che li condiziona dall’esterno e che li manipola: Nici appare a Mather sotto le spoglie di un angelo da manuale confermando quelle che sono le sue illusioni, e l’illusorio angelo dà forma ai sentimenti di impotenza di Nici riguardo alla Storia e alla sua immutabilità. Sembra una conclusione sconfortante: da una parte la fede frutto di illusioni e dall’altra la ragione che non può cambiare né creare la realtà – compresa l’illusorietà della fede. 

 C’è qualcos’altro? Forse sì. Questa è una storia sulla fantasia e la creatività umane, dicevo: Nici è l’Autore e Cotton Mather è il Lettore. Il Lettore si attende che il racconto abbia certe caratteristiche, che la creazione letteraria venga incontro al suo immaginario incardinato nelle immagini stereotipate della tradizione e introiettate nella sua coscienza. L’Autore si sente ingabbiato dalla tradizione ed è incapace di liberarsi dalla struttura della realtà (realtà editoriale, realtà degli schemi della scrittura). Di nuovo una conclusione mesta? Il racconto termina con questa frase di Nici: When I opened my eyes, the angel had disappeared. Sembra una resa, l’accettazione di una realtà che l’uomo non può mutare. Ma non è Nici che apre gli occhi sulla realtà, è l’autrice che li apre sulla propria fantasia. Se si aprono gli occhi sul proprio mondo interiore e la sua fantasia, gli angeli della tradizione scompaiono, se si vuole e se ne è capaci. E si dà la stura alle risorse del proprio immaginario. Che si nutre della tradizione, si nutre dei sentimenti, si nutre della scienza. Si nutre del passato e del futuro. Così come Nici ha nutrito le visioni di Cotton Mather e questi ha contribuito a strutturare la fantasia di lei. Così nasce una storia, magari una gemma come questo racconto: dai mille rivoli dei quali si nutre la fantasia umana, e dal catalizzatore del talento di un individuo. Patricia McKillip aveva scritto prima del puritano che: Cotton Mather prayed to see the invisible world. Nici glielo mostrerà esattamente come egli aspettava che fosse, ma con questo racconto la scrittrice americana fornisce invece a noi lettori una chiave per non desiderare che gli angeli siano tutti biondi, boccoluti, intunicati di bianco e aureolati d’oro. Una chiave per cercare nella ricchezza proteiforme dei mondi di fantasia, per crearli da lettori insieme agli scrittori.

 Forse poco nota in Italia (e un po’ dimenticata), Patricia McKillip è non solo una prolifica scrittrice principalmente di fantasy, ma soprattutto una delle protagoniste contemporanee della letteratura fantastica. 

link dove è possibile scaricare il file .pdf del racconto in inglese:

domenica 24 giugno 2012

I classici – Rapporto sulle migrazioni di materiale didattico (A Report on the Migration of Educational Materials, 1968) di John Sladek (1937-2000)


E’ di gran lunga il racconto più antologizzato di questo, quanto meno in Italia, assai sottovalutato scrittore. L’ultima volta in Letture pericolose, deliziosa e un po’ carbonara antologia a tema, sul tema appunto della lettura e connessi; e sul “pericolo” rappresentato da un’attività tanto sovversiva, capace di distogliere l’individuo dal pensiero uniformato. In passato il racconto apparve anche in una delle antologie einaudiane dello snobbone Fruttero. Americano, John Sladek visse a lungo in Gran Bretagna; e non a caso il suo umorismo come il suo gusto per il surreale hanno una coloritura squisitamente british. E’ l’autore di un caposaldo della letteratura di fantascienza quale Il sistema riproduttivo (Mechasm), più volte proposto anche al pubblico italiano, da ultimo in Urania Collezione e, di nuovo non a caso, saggio pirotecnico di funambolismo surreale e di umorismo verbale. 

Giuseppe Lippi, il tizio che oggi da bravo soldatino mondadoriano propaganda come migliorativi gli orrendi tagli operati in sede di traduzione italiana a sconciare le opere originali presentate su Urania, lo definisce nella sua postfazione come il più visionario dei racconti raccolti nel piccolo volume. E una volta tanto ha perfettamente ragione: questo racconto è una visione. O anche meglio: una fantasmagoria. Della visione possiede certamente il rigore stilistico e contenutistico, ma la ridda di interpretazioni che possono affollare la mente del lettore appartiene più alla fantasmagoria. Non è certo un oggetto maneggevole questo racconto di Sladek. Privo com’è di una trama vera e propria o di personaggi che abbiano un ruolo più che di semplici presenze, si presta con difficoltà a essere a sua volta raccontato. E’ un racconto che molto meglio si presta a essere “sentito”. Toccato, forse; in qualche modo annusato. Non sono termini scelti a caso né incongrui. Sono un tentativo di esprimere la qualità principale di questa breve opera.  La sua irriducibilità, mi appare, a una lettura intellettuale. Può sembrare, di nuovo, incongruo; eppure questo racconto scritto che parla di libri è in primo luogo un oggetto sensuale. Che dona un’esperienza sensuale. Dei sensi, cioè. Non necessariamente dei sensi classici, anche se prima richiamavo tatto e olfatto. Sensi più sottili, magari. Come il piacere di una lettura dove la comprensione intellettuale è del tutto secondaria rispetto al semplice godimento dell’atto in sé: perché la lettura potrebbe essere priva di alcun senso a parte l’esercizio stesso del leggere. O come il piacere dell’immaginazione di una realtà a tal punto insensata da divenire prosaica, da ricostruire il reale entro nuove, aeree coordinate. Ma anche il piacere di poter rincorrere significati profondi al di sotto di un tessuto narrativo all’apparenza privo di qualsiasi logica. Perché anche letture rigorosamente sensate sono legittime per questo breve racconto.

La non-trama è presto riassunta: i libri prendono il volo. Letteralmente: le biblioteche, le librerie, le case, tutti i luoghi dove sono ammassati i libri, se ne svuotano; i volumi prendono il volo, a  milioni, come stormi di uccelli. Null’altro ci dice Sladek. Dove essi vadano o perché si mettano in volo, come uccelli migratori. A ciascuno la lettura che gli è più congeniale. L’autore vuole narrarci (ammonirci, magari?) del venir meno della cultura? O dell’intera struttura alfabetizzata della nostra civiltà, perché non sono soltanto preziosi codici miniati trecenteschi o ponderosi tomi enciclopedici a spiccare il volo: anche gli elenchi telefonici e i libretti degli assegni sfidano gli spazi del cielo verso l’ignoto. Il racconto è del 1968, Sladek ci offre forse uno squarcio profetico sulla smaterializzazione della cultura che stiamo cominciando a vivere in questi tempi? O ancora è possibile vedervi – è sempre il 1968 – una ribellione verso una cultura librescamente istituzionalizzata? Quegli stessi libri che furono strumento e veicolo di libertà nei tempi passati, e che troppo spesso si mutano in oggetti inanimati e privi di vita nelle mani dei custodi acritici della tradizione riconquistano la propria vitalità, riprendono letteralmente vita e lasciano un mondo e una civiltà umani ancorati alla pesantezza della terra, ai vincoli di un reale che ha dimenticato il potere del sogno e della fantasia, il potere creativo dell’immaginazione. Del volo di fantasia. Forse questa è un’interpretazione più seducente di altre: quando Sankey e Preston, i due per così dire protagonisti del racconto, decidono di affidare al suo destino di libertà anche il rapporto che stavano stilando sul fenomeno migratorio dei libri, si potrebbe vedere nella decisione proprio una ribellione all’imposizione di un pensiero standardizzato, scandito da modelli preconfezionati di comportamento e di cultura. Ci si potrebbe anche spingere più in là, vedere nel fenomeno migratorio dei libri la manifestazione della forza delle idee, della loro vitalità espansiva oltre i confini (auto)imposti dall’uomo; come oltre le conoscenze contingenti del qui e ora: quando Dante, per dire, scrive la Commedia non può immaginare quale sia il destino della sua opera, in certo qual modo la affida a un volo verso l’ignoto; come è (stato) per ciascuno prima e dopo di lui. O è possibile perfino intravedervi una sorta di processo di formazione di un (in)conscio collettivo, dove ciascuno partecipa con il suo contributo con pari dignità, che esso sia il Tractatus logico-philosophicus (citato nel racconto) oppure un libro mastro di contabilità. O ancora, chissà, si può farne la lettura del venir meno di una coscienza, individuale o dell’intera civiltà umana: erano tempi magmatici quelli in cui scriveva Sladek, anche se i nostri ci sembrano pure più labili e insicuri.

Ciascuna delle interpretazioni suggerite è possibile, e sicuramente ve ne sono altre che sfuggono alla mia immaginazione. Tuttavia la mia preferenza continua ad andare alla lettura puramente sensuale del racconto cui accennavo prima. Senza ricercarvi significati ulteriori (o sottesi) altri dal piacere del gioco verbale e intellettuale dell’immaginazione sbrigliata. Della fantasia non costretta da altre maglie che quelle dell’istinto ludico dello scrittore e del suo desiderio di stupire il lettore, stupendosi a sua volta, con l’invenzione più folle.

La fantascienza abbonda di maestri, o anche solo artigiani di talento, semi-dimenticati o del tutto dimenticati. Maestri o artigiani abilissimi anche nello sconfinamento oltre i territori (pretesi) rigorosi della science-fiction. Come appunto John Sladek, capace di tessere il surreale e farne a un tempo esercizio di gioco puro e stimolo per la fantasia e la mente.         

domenica 10 giugno 2012

Divagazioni nei territori confinanti – La bella adescatrice (The beckoning fair one, 1911) di Oliver Onions (1873-1961)


All’epoca non esistevano internet né tanto meno Wikipedia, e nella sua prefazione a quel volume mirabile che è l’einaudiano Storie di fantasmi, Carlo Fruttero confessava candidamente di non aver trovato quasi notizia alcuna sull’autore di questa storia, di non sapere neppure se all’epoca fosse ancora vivo. Fruttero scriveva (al più tardi) nell’autunno del 1960; e dunque in questa nostra Wikipedia age sappiamo che George Oliver Onions, divenuto poi all’anagrafe George Oliver ma indelebilmente immortale nella storia della letteratura come Oliver Onions, era effettivamente ancora su questa Terra. Lo scrittore britannico fu uno dei non pochi facitori dell’immaginario dei suoi tempi – tempi seminali per l’immaginario, tempi nei quali furono forgiate le basi del nostro immaginario. Uno di quegli artigiani eccellenti in grado di narrare con cura, competenza, amore e padronanza della propria craftsmanship quasi ogni genere di storia. Ha ragione Fruttero nella sua prefazione. E ha di nuovo ragione Fruttero (che come prefatore di mirabili antologie einaudiane fu infinitamente superiore al pernicioso curatore uraniano) a sostenere che sarebbe così e basta se Onions non avesse scritto questa storia. Non è la prima volta che mi capita di scriverlo, ma non mi stanco di farlo: ci sono storie, come questa secca e inesorabile novella, che valgono gli interi e pletorici corpora letterarii di scrittori incapaci di elevarsi al di sopra della propria striminzita professionalità lungo l’arco di tutta la carriera. E’ possibile che questa sia la più raffinata e ammaliante ghost-story mai scritta, come recita ancora una volta Fruttero? Certe classifiche sono prive di senso, e un volume dove sono presenti in forze Montague Rhodes James, H.P. Lovecraft e Arthur Machen ribadisce bene il concetto. E poi: ghost-story? E’ davvero così semplice, questa novella è solo una ghost-story? C’è un diavolo che tenta la nostra stupidità ogni volta che ci poniamo domande del genere; lo abbiamo visto in questi giorni, in morte di Ray Bradbury: abbiamo letto chissà quante volte che il bardo dell’Illinois non era uno scrittore di fantascienza – perché ovviamente, essendo un grande scrittore non poteva essere uno scrittore di fantascienza. Stronzate, ovviamente. Tuttavia la tentazione è sempre in agguato. Forse perché dimentichiamo che i generi sono strumenti classificatorii che abbiamo inventato per comodità e non Tavole della Legge. Dimentichiamo che la differenza non la fa il genere ma il talento dell’autore. E soprattutto la fa la storia narrata. La storia capace di assumere vita propria, autonoma, di oscurare il suo autore per rivolgersi con una diversa voce a ogni singolo lettore. Capace di travalicare il genere, di trascenderlo. Di rimodularne i confini, di giocare con le sue strutture flessibilizzandole a piacere. Storie che, non a caso, per solito occorrono una volta in una carriera letteraria. Dunque The beckoning fair one è senza fallo una ghost-story. Resta da vedere quali siano i fantasmi che ne popolano le pagine. Resta da capire cosa sia realmente un fantasma. Il doppio livello di lettura è facillimo da individuare, quasi insultante nella sua ovvietà. Alla lettura immediata, alla classicissima struttura del racconto su una casa infestata, abitata da una pericolosa e malvagia quanto elusiva presenza spettrale si affianca la lettura di un racconto che analizza con minuzia scientifica, con spietatezza asettica il precipitare di una mente umana nel delirio psicotico. Quale che sia la lettura che si voglia privilegiare, quella del racconto gotico ed escapista (scritto con maestria letteraria squisita) oppure quella del viaggio nei recessi della mente umana e del suo scollarsi dalla realtà, sempre di fantasmi si tratta; perché per quanto banale è pur vero che nessun fantasma è più reale, materico e sostanzioso di quelli che la nostra mente è in grado di partorire quando perde il contatto con la realtà.


Il protagonista della novella, Paul Oleron, è un fin troppo scoperto avatar dello stesso Oliver Onions, il che apre a un’ulteriore lettura della storia come riflessione sull’arte e sul suo potere di possessione nei riguardi dell’artista. Oleron è uno scrittore di mezz’età, squattrinato e dalle ambizioni intellettuali probabilmente superiori al tuttavia tutt’altro che disprezzabile talento. Uno scrittore che finirà per annullarsi, per liquefare la sua identità, la coscienza, il suo Io, per (con)fondersi in una passione divorante e totalizzante. Passione che nell’impadronirsi del suo corpo, della sua psiche e di tutto il suo essere, in primo luogo fagociterà la sua creatività, privandolo di ogni energia. Una passione che è la casa che va ad abitare, l’elusivo fantasma femminile che vi aleggia e seduce la sua ipersensibilità emotiva. Che è l’arte. O, più seccamente e semplicemente, il riflesso di se stesso. La follia nella quale egli precipita (come probabilmente vi precipitò Madley, il pittore che prima di lui aveva abitato la casa) non è infatti che un riflesso narcisistico, una progressiva chiusura entro le maglie mentali di una propria supposta autosufficienza (quella della propria arte dimentica della sua imprescindibile dimensione sociale, umana); così come Oleron chiuderà attorno a sé i limiti fisici rappresentati dalle mura e dalle porte della sua abitazione. Li chiuderà escludendo tutto il mondo esterno, tutta l’umanità, “scegliendo” di spegnersi sempre più velocemente nel circoscrivere l’universo a sé stesso e al proprio doppio narcisistico. Fisicamente, con il suo corpo non più nutrito che andrà esaurendosi; e spiritualmente con la sua anima che si distacca sempre più dalla realtà e dalla relazione con gli altri e con l’Altro. Il fantasma elusivo della Bella Adescatrice non è infatti altro che il fantasma stesso dell’Io di Oleron, un Io ideale e completamente falso di cui egli idealizza, visualizza e crea le tracce identificandole in un oggetto d’amore spettrale. Del resto i fantasmi non sono creature immaginarie, ma immagini create. Sono reali. I fantasmi che la nostra mente si fa, intendo. Che siano frutti allucinati e deliranti di una psiche patologica, idealizzazioni false del mondo e di noi stessi, i costrutti paranoici di cui intessiamo le nostre società umane, oppure ancora gli dei o il dio che abbiamo creato nei millenni e attraverso i quali conferiamo sostanza e vita all’immagine che abbiamo di noi stessi e che vorremmo fosse noi – che siano queste o altre immagini ancora, le presenze fantasmatiche partorite dalla nostra psiche popolano il mondo. Agiscono nel mondo. Plasmano le nostre vite, la nostra coscienza, il nostro destino.

Tutto questo in una novella elegante ma in fondo semplice, lineare nel suo scoperto doppio livello di lettura? L’eleganza e la semplicità sono i migliori strumenti atti a nascondere la complessità sottostante; e la linearità dà agio di osservare il brulicare intenso che si accalca ai bordi della linea che si percorre. Leggiamo storie per divertirci, per conoscere i mondi di fantasia immaginati da altri. Al limite per sbirciare all’interno dell’anima di questi altri, quanto meno per dare un’occhiata da un luogo d’osservazione privilegiato. Ma se non leggiamo soprattutto per creare i NOSTRI mondi allora il nostro leggere è un atto passivo, tanto vale guardarsi un reality in tv. Una storia va presa, scardinata, sventrata. Ne vanno esaminate le viscere per trarne gli auspici, ne va isolato il DNA per comprenderne l’ontogenesi e la filogenesi. Ne vanno assunti i succhi per impossessarsi dei loro sapori, per assumerne i nutrienti. Non ci si può accontentare di quello che vi si trova scritto e di quanto l’autore ha scritto nella storia, è vitale farne affiorare tutto ciò che in apparenza (e forse in realtà) non vi è contenuto. Ecco, un racconto come questo di Onions è perfetto per illustrare quanto sopra. Perché la sua apparente essenzialità, la secchezza della sua trama si disperde poi nei mille rivoli di sensazioni che suscitano e stimolano le descrizioni e le suggestioni che vi dissemina l’autore. Se la trama è fin risibile, lo stile e il lavoro di cesello letterario di Onions sono lussureggianti, dettagliati, curatissimi. Fedele alla consegna che il vero orrore sorge dalla banalità della normalità, ed impregna di sé la quotidianità, lo scrittore inglese usa magistralmente questa quotidianità per fertilizzare il terreno dal quale trae la pianta dell’orrore spirituale che farà provare al lettore nei precordi, costringendolo a confrontarsi con quel generatore di orrori reali che è la sua stessa (del lettore) mente. L’incipit della novella riassume già la ricchezza letteraria e la sintesi narrativa della horrorgenesi: THE THREE OR four "TO Let" boards had stood within the low paling as long as the inhabitants of the little triangular "Square" could remember, and if they had ever been vertical it was a very long time ago. They now overhung the palings each at its own angle, and resembled nothing so much as a row of wooden choppers, ever in the act of falling upon some passer-by, yet never cutting off a tenant for the old house from the stream of his fellows. Not that there was ever any great "stream" through the square; the stream passed a furlong and more away, beyond the intricacy of tenements and alleys and byways that had sprung up since the old house had been built, hemming it in completely; and probably the house itself was only suffered to stand pending the falling-in of a lease or two, when doubtless a clearance would be made of the whole neighbourhood.

L’amore per la propria immagine è una passione esclusiva ed escludente come mostra la parabola di Paul Oleron. Una passione che si consuma e consuma all’interno del proprio essere e lascia fuori l’Altro. Di fatto, è una passione che lascia fuori l’amore, lo distrugge. E Oliver Onions mostra di esserne perfettamente cosciente. Ancora una volta, che si voglia privilegiare la lettura gotica più classica o invece quella più squisitamente psicologica, il tragico epilogo della novella, il destino diversamente definitivo di Paul e della sua amica e innamorata Elsie, sottopone alla nostra lettura l’evidenza del fatto che l’amore è impotente dinnanzi a una chiusura autenticamente ermetica entro le pareti del proprio narcisismo. Chi ama il proprio fantasma è inattingibile dall’amore e dall’Altro, è al di là del provare emozioni reali. E’ incapace, letteralmente, di percepire la realtà dell’Altro e dei suoi sentimenti. 

Un racconto superbo, che parla della nostra testa alla nostra pancia, The beckoning fair one venne pubblicata nel 1911 nell’antologia Widdershins. Per gli angloleggenti il testo è disponibile a questi url: 
     

domenica 4 marzo 2012

I classici – Novecento nonne (Nine Hundred Grandmothers, 1966) di Raphael A. Lafferty (1914-2002)

Raphael Aloysius Lafferty è stato uno scrittore geniale. Iniziò a pubblicare la sua fantascienza irriverente e visionaria alla soglia dei cinquant’anni, nel pieno di quegli anni ’60 che videro la science-fiction mutare pelle sotto la spinta di autori nuovi quali Delany, Zelazny, Disch, Le Guin e lui stesso, e di autori già affermati o comunque attivi come Heinlein, Dick, Ballard, Sturgeon, Leiber e in seguito Brunner e Silverberg. Allargando in ogni direzione il proprio campo d’indagine sull’uomo e sul futuro dell’uomo. Di quegli anni, e in seguito, Lafferty fu protagonista con i suoi racconti incredibili per leggerezza e profondità. Pochi altri autori sono stati in grado di rendere giustizia e donare corpo quasi fisico, direi, a questo ossimoro. Tanto è perfino frivola la sua scrittura quanto è acuminata e velenosa nei contenuti al di sotto di quello stile scanzonato. Nine Hundred Grandmothers, il racconto del 1966 che dà il titolo all’antologia pubblicata nel 1970 e che presenta la sua migliore produzione dei primi anni di carriera, è un esempio perfetto della caleidoscopica prosa di Lafferty e del suo sguardo penetrante sulla vita e le strutture, stilemi e clichè della narrativa fantastica. E’, non meno, un piccolo saggio di psicologia e antropologia. Come del resto un altro racconto dell’antologia, quello che è stato preferito in sede di pubblicazione italiana per il titolo della raccolta: Associazione Genitori e Insegnanti, in origine Primary Education of the Camiroi, racconto ugualmente del 1966. Rispetto a quest’ultimo, Novecento nonne presenta occasionali slanci lirici e fuggevoli suggestioni orrorifiche che ne intarsiano il tessuto satirico rendendolo ancora più affascinante alla lettura e mantenendo un’ambigua tensione che si scioglie solo nel finale.
Edizione originale, cover di Leo e Diane Dillon

Il finale. Un finale che non può dirsi aperto, ma che in qualche modo lascia il lettore a bocca asciutta più di un finale aperto. Un finale concluso ma non conclusivo. Bruciante, per molti versi. Come essere stati sul punto di afferrare una bottiglia d’acqua al termine di una lunga camminata sotto il sole estivo battente e vederla svanire. Eppure, è un finale perfetto. Beffardo, in apparenza; ma in realtà spietatamente logico. Nel breve spazio di un racconto di una dozzina forse di pagine, Lafferty aveva già sottoposto al giudizio impietoso e spassionato del ridicolo tutta una serie di miti e stereotipi della fantascienza e della letteratura d’avventura – ma anche di tanta cultura e società americane (e non solo americane). Le Virtù Eroiche dell’Uomo Americano ne escono molto male. E anche peggio ne esce la realtà di quella vera e propria foia di dominio, conquista e rapina che ne costituisce il sostrato reale e la motivazione d’essere. Sul pianeta Proavitus (nomen omen) i terrestri sono venuti, come sempre, a cercare occasioni di arricchimento. A parte Ceran Swicegood, apparentemente. Ceran è convinto che sul pianeta troverà infine riposta alla Domanda Ultima: come è cominciato tutto? Ceran è un intellettuale, insomma, un filosofo: non si accontenta di meno che arrivare alla conoscenza suprema. Gli abitanti di Proavitus sembrano essere immortali. O così dicono loro. Così dice Nokoma, l’indigena con la quale Ceran ha contatti e che gli spiega che gli individui anziani si limitano a ridurre l’attività e vivere ritirati, per questo non li vede in giro. Nokoma racconta di avere novecento nonne (appunto…). Poche, in rapporto a famiglie ben più grandi e antiche della sua. Ceran non si accontenta delle parole di Nokoma, novello Tommaso deve toccare con mano la realtà di questa immortalità. Di questa antichità. Che se vera deve risalire alla notte dei tempi. All’inizio. A quando tutto cominciò. E’ il sogno della pietra filosofale. Ma non solo.

Apparentemente diverso dai rozzi compagni di spedizione il cui unico scopo è arricchirsi con le ricchezze del pianeta, l’intellettuale Ceran in realtà non si comporta diversamente da loro. Si introduce infatti di nascosto in casa di Nokoma per conoscere e interrogare le novecento nonne dell’aliena. Novecento volte novecento, in realtà. In una sorta di viaggio iniziatico demente e ansiogeno Ceran si inabisserà, partendo dall’abitazione di Nokoma, nelle viscere del pianeta. Alla ricerca progressiva degli individui sempre più anziani della popolazione: miriadi sterminate di minuscoli alieni. Gli alieni infatti sono sempre più piccoli, con l’età si rattrappiscono, si prosciugano. E sempre meno attivi e vigili. Sempre più arcaici, in un percorso di conoscenza a ritroso più che progressivo. Quel che Ceran scoprirà sul suo Quesito Ultimo una volta incontrato l’individuo più anziano del pianeta, la madre di tutti, è che forse non c’è proprio nulla da scoprire. Che la conoscenza è priva di senso, come lo stesso percorso che si compie per arrivarci. Non è insolito, benché appaia incongruo, che gli scrittori di fantascienza non siano teneri con la scienza e la conoscenza. Ma non è questa, secondo me, la lezione di Lafferty. Se mai vi è poi una lezione nel suo racconto e non invece il magistero molto più raffinato di un invito alla riflessione su noi stessi, i nostri desideri e aspirazioni. E quello che siamo disposti a fare per soddisfarli. Ceran arriva a minacciare gli anziani per avere una risposta, ma da loro otterrà solo risate, e forse scherno. E tutta la consapevolezza del suo processo mentale parossistico (Con voi scivolo da un grado all’altro e la mia credulità non ne è allarmata. Corro il rischio di credere, se verrà in piccole dosi, e così è.) non lo preserva dal suo compulsivo andare avanti, come un giocatore d’azzardo che non possa fermarsi mai, neppure dopo aver perduto tutto. E in un certo modo Ceran perderà tutto: senno, dignità, consapevolezza. Senza fermarsi. Perché anche Ceran è un uomo occidentale a ben vedere. Un uomo e basta, forse. Le modalità del suo prevaricare sono diverse dagli altri terrestri della spedizione sul suo suolo proavitese, eppure il suo desiderio di appropriazione è il medesimo: totalizzante, demente, incurante dell’Altro e della sua natura. Ciò che rende diverso questo racconto da altre storie che mostrano e satireggiano questi meccanismi è però la peculiarità tutta laffertiana di un linguaggio dove il moralismo non ha il minimo diritto di cittadinanza; e dove il non-sense e il surreale sono struttura integrante. Un racconto di Lafferty non si accontenta mai di essere ciò che sembra e di sembrare ciò che è. Va sempre oltre, moltiplicando i sensi e seducendo il lettore con un’eleganza letteraria inusuale e una sfrontatezza verbale da vero giullare.
Urania n.852 e 855 - cover di Karel Thole

La stagione creativa di Lafferty fu breve se rapportata alla lunghezza della sua vita. L’inizio tardo, e in seguito i problemi di salute occorsigli, l’hanno compressa in una ventina d’anni e poco più di grande produttività. Alcuni dei suoi romanzi sono giunti anche in Italia, ma è soprattutto nelle decine e decine di racconti brevi che si dispiega il suo spirito genuinamente iconoclasta. Lafferty andrebbe riscoperto ogni giorno.

Nine hundred grandmothers, l’antologia, è stata pubblicata in Italia in due fascicoli di Urania, il n.852, del quale il racconto eponimo è l’ultimo, e il n.855.      

martedì 4 ottobre 2011

Grazie, Vic.

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Grazie, Vic. E non c'è altro da dire.