domenica 10 febbraio 2013

Il classico – Passato, presente e futuro (Past, present and future - 1937) di Nat Schachner (1895-1955)



Una certa rozzezza di stile è innegabile, e ancor più un’ingenuità romantica che permea la storia; tuttavia Schachner, ancorché essa appaia a tratti schematica, dà mostra con questo racconto di una visione sociale, antropologica e psicologica assai acuta, tanto più rapportandola al luogo e tempo di pubblicazione, e della capacità di trasformare un’opera didascalica in una piccola gemma di avventura fantascientifica. Per usare delle parole del sempre puntiglioso e avaro di complimenti John Clute nella Encyclopedia of Science Fiction: His style was rough, but he was a sharp and knowledgeable writer; his inattention to the field after about 1940 is regretted. Il rammarico di Clute è senza dubbio giustificato: nella temperie della fantascienza che si sarebbe rinnovata tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50 Schachner avrebbe potuto fornire contributi di sicuro interesse se il – senza dubbio più remunerativo – campo della biografia storica non lo avesse attratto. Questo racconto da solo, del resto, è già un interessante contributo a quella fantascienza più attenta alla dimensione umana e sociale del futuro che era tutt’altro che assente perfino ai primordi della sf di genere, quell’epoca pionieristica che va dall’invenzione stessa del nome nel 1926 alla fine del successivo decennio, quando John Campbell assumerà la direzione di Astounding Stories, la più importante rivista di allora, e porrà le basi per una fantascienza più consapevole dei propri mezzi e del significato “filosofico” dell’analisi narrativa del futuro umano. Né poteva essere diversamente se pensiamo che la fantascienza “letteraria”, da Wells ad Aldous Huxley ed Ayn Rand, passando per Zamijatin e altri, stava esplorando proprio tali aspetti da almeno diversi decenni. Gli autori più attenti e sensibili, come Schachner era, non potevano che adoperarsi a una sintesi tra lo stile rutilante della fantascienza degli anni ’20 e ’30 e una maggiore profondità di analisi sconosciuta ad altri scrittori dell’epoca come Doc Smith. In fondo, immaginiamo, per Schachner il ricordo della visione del Metropolis di Fritz Lang doveva essere fresco e seducente come anche la lettura di Brave New World di Huxley. Neppure stupisce che Schachner fosse tra gli autori più amati da Isaac Asimov e che egli lo annoverasse tra le sue influenze, includendo questo racconto in una delle più famose tra le antologie da lui curate, Before the Golden Age; in Italia il titolo è Alba del Domani (qui online: http://it.scribd.com/doc/119925759/Alba-Del-Domani-Isaac-Asimov), e si trattò del primo racconto di Schachner pubblicato nel nostro paese (non che in seguito siano stati molti).

In copertina campeggiava l'inevitabile storia di Doc Smith...
Past, present and future vide la luce sul fascicolo del settembre 1937 di Astounding Stories, che per quanto è possibile appurare dovette essere l’ultimo prima che John Campbell ne assumesse la direzione, il quale perciò non ebbe verosimilmente a che fare con la storia di Schachner; tuttavia il racconto risultò probabilmente gradito al leggendario editor, se successivamente egli ne pubblicò quattro seguiti (sebbene il finale sia in qualche modo “aperto”, il racconto appare ugualmente perfettamente concluso). La storia è senza dubbio campbelliana ante litteram, e del resto Campbell non nacque dal nulla J, ma anche sottilmente eretica rispetto al verbo del direttore di Astounding, e questo dovette attrarre l’attenzione e influenzare il comportamento di Asimov. Al lettore del XXI secolo salta agli occhi la TOTALE assenza dell’elemento femminile. Il racconto è breve, non v’è dubbio, ma nell’economia di una storia che pone senza meno al centro della propria analisi e riflessione l’umanità del presente e i possibili sviluppi futuri della società una simile mancanza appare sconcertante. Non è neppure che Schachner assegni un ruolo subalterno alla donna, la tralascia del tutto. Non sottovalutazione ma indifferenza. Le sole donne che appaiono nel racconto – all’inizio – sono le native Maya che divengono le compagne dei marinai di Cleone e che svolgono una pura funzione strumentale prima di scomparire del tutto. Sconcertante di sicuro, ma Schachner era pur sempre figlio della sua epoca e soprattutto consapevole di scrivere per un pubblico di nicchia di adolescenti quasi esclusivamente maschi e tecnofili. Le stesse – poche – scrittrici dell’epoca si celavano in genere sotto pseudonimi maschili (Alice Mary Norton diviene Andre Norton, arrivando anni dopo ad assumere legalmente tale nome), oppure dietro l’ambiguità delle iniziali (Catherine Lucille Moore si firma sempre C.L. Moore), o ancora la ventura di aver ricevuto dai genitori un nome unisex (Leigh Brackett). Per altro, la profondità concettuale di questo racconto è già molto oltre gli standard dell’epoca.  

Pura tempra campbelliana (e non meno heinleiniana) hanno i tre eroi del racconto: Cleone, navigatore, scorridore, soldato ateniese dell’età di Alessandro; Sam Ward, avventuriero (nel senso più nobile della parola) americano coevo di Schachner; Beltan, membro della più alta aristocrazia della città di Hispan nel IIC secolo. Il Passato, il Presente e il Futuro. Sebbene sia condotto con maestria e sprizzi sense of wonder da ogni riga, il racconto è scopertamente didascalico. Cleone, Sam e Beltan sono al contempo lo stesso personaggio, e il foro dialettico necessario a Schachner per esporre le sue tesi. Alti, belli, nobili: i tre rappresentano non a caso delle manifestazioni dello spirito yankee, sono lo stesso maschio wasp che si è aperto la strada del continente americano da costa a costa con in pugno l’ascia per disboscare, il fucile per cacciare (o far fuori qualche milione di indigeni sulla via) e il dollaro per prosperare. Sono quell’uomo americano che si preparava a combattere per la libertà del mondo (e affermare la supremazia americana sullo stesso) di lì a poco. Tuttavia – e non a caso – l’americano al 100% Sam Ward è il solo tra questi yankee ad avere il cuore del tutto giusto: non a caso, ricorderà a Cleone che la sua nobiltà, la filosofia e la cultura prosperavano sulla schiavitù; e a Beltan che i felici tecnici e lavoratori della sua Hispan non sono poi meno schiavi (per la struttura gerarchica di Hispan Schachner appare chiaramente debitore di Aldous Huxley e del suo Brave New World). Schachner non era però autore inconsapevole o insincero, e Beltan farà a sua volta notare a Sam che le condizioni degli operai del XX secolo non sembravano poi tanto diverse da quelle dei lavoratori di Hispan. Questo aspetto probabilmente sarebbe piaciuto meno a John Campbell ;-). Non è certo a un breve racconto avventuroso che può essere demandata l’analisi accurata delle strutture del lavoro dall’antichità classica ai tempi nostri, inoltrandosi poi nei possibili sviluppi a venire; e però con poche parole l’autore enuncia con assoluta chiarezza il problema centrale della sua epoca, della nostra, di quelle precedenti e temiamo delle successive. La sperequazione nel godimento dei frutti del lavoro stesso (oltre alla funzione liberticida del lavoro organizzato e massificato). Gli Oligarchi di Hispan non appaiono semplicemente dei parassiti inutili del corpo sociale e produttivo della città, lo sono senza alcun dubbio, e in una misura che né l’antichità classica né l’America di Sam Ward avevano sperimentato con le proprie èlite di potere; ed è quanto meno inquietante la somiglianza che tale oligarchia Hispanica sembra avere con le classi apicali del finanzcapitalismo oggi trionfante. Schachner non offre soluzioni, se non individuali e individualiste. Al di là delle differenze ideali e ideologiche, Cleone, Sam e Beltan si riconoscono quali uomini, intendendo e sottintendendo uomini liberi. La risposta, individuale e individualista, è la libertà. Le costrizioni delle società variamente irreggimentate od oppresse da forme di pensiero dominante da cui provengono i tre sembrano impedire l’elaborazione di un concetto di libertà che vada oltre il piano del singolo. Non è la libertà sociale che desiderano i tre (Sam, vagamente…), né per una tale libertà combatteranno (non in questo racconto, ignoro cosa accada nei sequel). Fuggiranno da Hispan, per sottrarsi al probabile destino che li attende per mano delle autorità della città, ed emergeranno – letteralmente – dalle sue profondità sclerotiche, predatorie e artificiali a rivedere le stelle di una Terra che appare ai loro occhi vergine e incontaminata. È una nascita, un vero e proprio parto della Terra. E della mente. La risposta di Schachner appare ed è senza meno parziale, ma senza la rinascita a una libertà intellettuale individuale non vi può essere la base minima per un riscatto sociale. Una società libera può essere edificata solo da spiriti liberi. 

L’appassionato di fantascienza ritrova in questo racconto mille suggestioni ad esso precedenti e successive. L’iconografia sociale di Hispan rimanda variamente al Wells  di The Time Machine con i suoi Eloi e Morlock, ai citati Huxley di Brave New World e Lang di Metropolis e con essi ad altri – Anthem di Ayn Rand apparirà nel 1938. Così come si riflette in opere successive: il pensiero corre al ciclo a fumetti dell’Incal, scritto da Alejandro Jodorowsky per i disegni di Moebius, per certi aspetti a uno dei migliori romanzi di Robert Heinlein, Orphans of the sky, non meno che ai romanzi asimoviani del ciclo di Elijah Baley e R.Daneel Olivaw. E a molti altri. Il tema della città o della società distopica, (rac)chiusa in sé stessa e nel proprio pensiero unico, uniformante e livellante, il pensiero che diviene Verbo, è naturalmente così potente e in qualche modo imposto dalla realtà e dalla riflessione storica da essere ormai un cliché e un luogo comune. Ma non per questo da aver perduto valore di riflessione e pregnanza. La fantascienza è per storia e struttura la forma narrativa più adatta a tale riflessione, e infatti gli esempi abbondano. Il più radicale e completo appare ancora oggi quello fornito da El Eternauta di Hector Germàn Oesterheld e Francisco Solano Lopez, ma anche questo piccolo racconto fornisce il suo apporto. 

lunedì 24 dicembre 2012

I contemporanei – La sindrome di Wolverton (2002-2008) di Alan D. Altieri (n.1952)




Per il Vero Lettore uno dei piaceri più genuini è rappresentato dall’erratico vagabondare tra vecchi fascicoli di riviste da disseppellire, antologie poste ormai a basamento di vertiginosi pinnacoli librarii, cumuli disordinati di romanzi e volumi vari dimenticati da anni in angoli altrettanto dimenticati della casa. È un’attività riservata in particolare a quelle occasioni nelle quali la capricciosità  del Vero Lettore, che è lettore difficile e bizzoso, si muta in vera e propria incontentabilità. Non c’è nuovo racconto che soddisfi, articolo recente che stuzzichi la curiosità. E l’impresa di mettersi a leggere un romanzo è fuori discussione: un paio di frasi e si sbuffa incontentabili. Tanto meno si è nella disposizione d’animo di affannarsi su ponderosi saggi. Si esplora, dunque. Si torna sugli antichi passi. Si rilegge qualcosa che si è amato. Oppure si trova il tempo, il modo e l’occasione di leggere quanto si è tralasciato un tempo.

È il 2003: Robot, la rivista che è un mito per ogni lettore italiano di sf, è appena tornata in vita, e sul secondo fascicolo di questa sua nuova incarnazione viene pubblicato La sindrome di Wolverton, racconto a firma di Alan D. Altieri. Confesso subito il mio peccato: non ho mai letto nulla di Altieri. Nessuna pregiudiziale: se non forse che le tematiche affrontate in genere dallo scrittore milanese, o meglio le angolazioni visuali così spintamente techno-noir-thriller che utilizza per scrivere, non rientrano tra le mie preferite. Per inclinazione personale probabilmente potrei essere tentato dalla trilogia storica di Magdeburg. Mi attrae e al contempo respinge il suo stile, incontrato in alcuni articoli. Goticheggiante, quasi barocco, uno stile che seduce ma sazia rapidamente, come una cioccolata dolcissima. Ma è soprattutto la mole dei suoi libri ad avermi tenuto lontano. Passati i verdi anni, devo avere una motivazione davvero d’acciaio per imbarcarmi in letture pletoriche come quelle proposte da Altieri; e uno stile che promette di saziare in breve non è esattamente quanto invogli a iniziare letture di centinaia e centinaia di pagine. Ecco allora che un breve racconto si prospetta come il miglior viatico per eventuali futuri approfondimenti – e per allontanare la capricciosità domenicale da insoddisfazione di lettura ;-).
Il numero 42 di Robot, secondo della nuova serie, sede della seconda edizione del racconto

Come è noto, “Alan D.” è il nom de plume di Sergio Altieri. Terminata la lettura del racconto pubblicato su Robot n.42 si fa qualche ricerca in rete e si viene a sapere che esso era alla sua seconda pubblicazione, dopo quella avvenuta l’anno prima su M Rivista del Mistero, e che una terza avverrà poi nel primo volume antologico dei racconti di Sergio/Alan: Armageddon – Scorciatoie per l’Apocalisse. Si disseppellisce il volume da sotto un altro pinnacolo librario. Non fosse che per averlo a portata di mano, dal momento che la lettura del racconto è stata senza dubbio soddisfacente e c’è tutta l’intenzione di leggere altro di Altieri. La curiosità spinge a scorrervi le prime righe del racconto appena letto e, una volta registrate differenze che indicano una revisione non da poco del testo, a effettuare una rilettura completa. Se tra la prima (anzi seconda) edizione e la seconda (anzi terza) la trama non muta, tuttavia l’editing stilistico e di scrittura non risulta indifferente. E con pieno vantaggio del testo dell’edizione più recente! Ignoro come fosse il testo dell’edizione originale, ma in ogni modo tra quella apparsa su Robot e quella contenuta in Armageddon si guadagna un’asciuttezza e una secchezza verbali e del periodare che pur lasciando intatta la cupezza gotica delle atmosfere e la violenza quasi barocca delle situazioni e dei personaggi (anzi esaltandola) la depurano di quella ridondanza e del compiacimento che renderebbero indigeribili testi più ampi di un breve racconto. Uno stile sempre (sovrac)carico, in qualche modo, ma non stucchevole, che rende al meglio quella vivida visività cinematografica che viene ad Altieri dalla sua importante frequentazione della sceneggiatura hollywoodiana e televisiva. Alla ricerca di sensazioni forti di lettura si è soddisfatti di incontrare una scrittura così corposa e robusta; ma anche essenziale e chirurgica, verrebbe da dire. Un breve esempio:

L’uomo emerge dal fumo e dai miasmi. Nudo come un verme sul ghiaccio, nel vento. Ha il torace coperto di arabeschi di sangue raggrumato. Il suo mento gronda sangue ancora fresco, scintillante.

L’uomo cammina lontano dal fulcro degli incendi. Aggira mucchi di rottami irriconoscibili ancora in fiamme. Ignora la morsa da annientamento dei meno quarantadue gradi Celsius. Avanza sulla fanghiglia che diventa gelida, che comincia a solidificarsi.

Nella precedente versione su Robot suonava così:

Un uomo emerse da uno squarcio nella parete semi-cilindrica del Blocco Principale, sventrato dalle esplosioni.

Un uomo dal torace coperto di arabeschi di sangue raggrumato.

Un uomo nudo come un verme nella morsa da annientamento dei quarantadue gradi Celsius sotto lo zero.

Camminò sempre più lontano dal fulcro caldo degli incendi. Aggirando mucchi di rottami irriconoscibili ancora in fiamme, avanzando sulla fanghiglia gelida che stava già cominciando a solidificarsi. Anche l’altro sangue, quello ancora fresco che scintillava sulle sue labbra, sul suo mento, cominciò a solidificarsi.

La rete riserva un’ulteriore curiosità. Il testo del racconto è infatti reperibile sul forum di Altieri: http://alanaltieri.forumfree.it/?t=13533263. E a un’occhiata sommaria il testo sembrerebbe una versione intermedia tra l’edizione su Robot e quella in Armageddon. Sia come sia, la storia resta la stessa nella sua essenza :-).
Armageddon, pubblicato nel 2008, presenta la terza edizione del racconto.

Nell’introduzione al racconto su Armageddon, Altieri riconosce il chiaro debito verso il superbo racconto Who goes there? Di John W. Campbell jr., dal quale è stato tratto il film La Cosa diretto da John Carpenter e che in precedenza aveva ispirato la pellicola di Howard Hawks La Cosa da un altro mondo. Debito di atmosfera e ambientazione in primo luogo. Di potente carica d’orrore e sospetto. Una natura soverchiante e la propensione umana alla paranoia, esaltata dalle condizioni di vita estrema. In Altieri, tuttavia, la minaccia si sposta più modernamente dall’esterno all’interno. Non più un invasore alieno ma l’uomo stesso: l’individuo e la società di cui è parte. La “Cosa” è l’essere umano. L’umanità. La natura umana. E se è vero che La Sindrome di Wolverton è principalmente un racconto d’azione – e di magnifica azione – non è men vero che la pressione e l’oppressione psicologiche, la temperie fobica nella quale sono immersi i protagonisti del racconto è resa perfettamente da Altieri, con economia di parole al riguardo, ma senza venir meno alla chiara evidenziazione del fatto. Senza venir meno alla cifra più evidente da subito del suo narrare: la disperazione. Quanto meno apparentemente, non vi sono redenzione né speranza nel suo universo: in fondo non è casuale che il sottotitolo di Armageddon sia: Scorciatoie per l’Apocalisse. Non è casuale il setting del racconto, la Stazione Wolverton, della Gottschalk-Yutani Oil: Mastodontico, onnipotente meta-megaconglomerato planetario. Sistema che è tutti i sistemi, macchina che è tutte le macchine. Senza dubbio un cliché di tanta fantascienza, soprattutto a partire dagli anni ’50, ma un cliché efficace. E che qui colpisce nel segno per la sua disarmante verità. Altieri si premura di illustrarne l’efficacia con la smaliziata perizia del narratore di genere dalla penna accurata e dal solido vigore narrativo. Una scrittura mai scontata, neppure lì dove sembra più appoggiarsi agli stilemi di genere: c’è sempre una parola, un accenno o un sottinteso che rimandano a un senso più elaborato. Senza che il ritmo ne risenta neppure in parte.

È antropologicamente diversa l’umanità di Altieri rispetto a quella di Campbell (e anche di Hawks e Carpenter). È pertanto perfettamente consequenziale alla sua disperazione, e alle disperate premesse cui accennavo più sopra, la chiusa del racconto, quando l’ispettore capo Keller, che ne è la protagonista principale, definisce con implacabilità pari alla precisione il significato ontologico della “Sindrome di Wolverton”: La Sindrome di Wolverton è un dialogo. Con il lato oscuro della coscienza. E dopo aver ucciso i due uomini che (forse) si frappongono tra lei e la diffusione planetaria della Sindrome ella conclude: Ora quel dialogo può continuare.

La natura, l’umanità e la società di Altieri sono le nostre, appena appena nel futuro, appena appena più brutalizzate, violentate, distorte e sfruttate delle nostre. Una natura, un’umanità, una società a pochi anni di distanza nel pensiero economico uniformante che ha (s)governato gli ultimi quattro decenni della storia planetaria, inducendo un parossismo psicotico di consumismo che sta raggiungendo rapidamente il suo punto apicale e il conseguente declino verso l’approdo terminale da una “consumabilità” assoluta di tutte le cose e i viventi a, di fatto, il loro effettivo consumo ed esaurimento. La società e l’umanità di Altieri sono pronte all’opera: la base antartica Wolverton è l’avamposto deputato allo sventramento e alla devastazione dell’ultima frontiera naturale intatta, quella antartica appunto. Lo scopo: l’estrazione degli immensi giacimenti di petrolio sottostanti. Fino a consumare, sempre più rapidamente, anche quelli.

Nella migliore tradizione della fantascienza catastrofica la natura violentata reagisce con violenza contro il parassita che la infesta e infastidisce. Negli individui sottoposti alle condizioni estreme della stazione Wolverton insorge un virus atto a indurre una follia omicida e autodistruttiva. Un virus che, non è davvero difficile scorgerlo, null’altro fa se non far emergere la realtà del comportamento umano, quel parossismo predatorio e consumistico di cui sopra che non risparmia nulla e nessuno, neppure i propri simili, neppure se stessi. È l’uomo stesso, la sindrome. È malattia per sé.

Senza scomodare Freud e la sua pulsione di morte, registriamo con rassegnazione che l'evoluzione non ci ha attrezzato per governare un sistema della complessità del nostro pianeta, e che difficilmente avremo il tempo per attrezzarci visto che stiamo dimostrando di non avere intelligenza sufficiente a comprenderne le necessità.


Difficilmente sarà come racconta Sergio/Alan, è ovvio. Continuando sulla strada intrapresa è più probabile che a porre fine all’avventura elettrizzante degli ultimi secoli di Homo sapiens saranno fenomeni molto più “banali” e “prosaici”: guerre per l’acqua, per le fonti di energia, per l’accaparramento delle terre coltivabili, per lo sfruttamento di mercati del lavoro a costo praticamente zero. E altre amenità del genere, magari la “semplice” pressione demografica.      

Al netto delle amare riflessione indotte, come si diceva il racconto di Altieri resta una magnifica storia d’azione. Concitata, sincopata, dura. Senza mai scadere in una violenza che sia puramente gratuita. Violenza a volte anche pervasiva, ma sempre perfettamente giustificata dalle situazioni e dall’analisi psicologica e sociale. Una storia d’azione che non rinuncia a far riflettere, e riflettere a fondo. E lo fa con semplicità pari all’efficacia. 

domenica 7 ottobre 2012

I classici – Non avrai altro popolo (For I am a Jealous People! - 1954) di Lester del Rey (1915-1993)




Che il suo vero nome fosse quel Ramon, seguito da una sfilza di altri nomi degni di un Grande di Spagna con una schiatta millenaria sulle spalle, oppure il ben più prosaico Leonard Knapp riferito in una intervista a Locus dalla sorella Sarah che gli è sopravvissuta, “Lester del Rey” è stato un autore di rilievo primario della fantascienza di matrice positivista propugnata con forza da John Campbell sulle pagine di Astounding, principale rivista americana di sf negli anni ’40 dello scorso secolo, da lui diretta per oltre tre decenni, fino alla morte. In seguito, nel corso degli anni ’50, del Rey si affermò come una delle principali firme del campo della sf nella produzione di juveniles, romanzi che oggi si direbbero Young-adult, spartendo la maggior gloria con Andre Norton e Robert Heinlein. Se non vi è dubbio che la gran parte di quelle opere fossero alimentari, come certamente anche molte del periodo precedente, non è meno vero che nei lavori dove volle o poté permettersi di essere più curato, soprattutto racconti e novelle scritti dal suo esordio nel 1938 e nei circa vent’anni successivi, del Rey abbia saputo mostrare una cifra stilistica e di contenuti personale e la capacità di attrarre il lettore con il fascino delle trame avventurose sempre abbinato a un rigoroso stimolo alla riflessione. Nella voce a lui dedicata dalla Encyclopedia of Science Fiction curata da John Clute e Peter Nicholls, Brian Stableford scrive di del Rey che “LDR was a versatile but rather erratic writer who never fulfilled his early promise. His best work appears in the collections (…)”. E l’autore britannico commenta con acume: di rado infatti del Rey parve mantenere quelle promesse (e premesse) poste in alcuni dei suoi primi lavori, in particolar modo Helen O’Loy, scritto agli esordi, che pur presentando le inevitabili ingenuità dell’età in cui fu pubblicato e del tipo di pubblicazione su cui apparve, compresa una decisa coloritura romantica, è ancora oggi una lettura emozionante e in grado di rivolgersi ai sentimenti autentici del lettore. Oppure Nervi, la novella del 1942 poi espansa alla misura di romanzo che rappresenta il miglior risultato narrativo conseguito da del Rey e che narra, con realismo eccezionale per l’epoca, di un incidente in una centrale nucleare.

L'antologia dove apparve la novella in origine
Pubblicato in origine nel 1954, For I am a Jealous People! Fu edito per la prima volta in Italia nel 1965 sulle pagine di una bellissima antologia curata da Roberta Rambelli con altisonante prefazione di Gillo Dorfles, Fantascienza della crudeltà, con l’impeccabile titolo Perché sono un Popolo Geloso. Comparve in seguito nel 1974 nel fascicolo n.653 di Urania (si ometta pietosamente il titolo utilizzato per l’antologia), che presentava in Italia l’antologia personale di del Rey Gods and Golems, che raccoglieva la sua migliore produzione di media lunghezza della prima metà degli anni ’50; questa volta il racconto è pubblicato con l’ugualmente corretto titolo Non avrai altro popolo. Nella “migliore” tradizione della rivista mondadoriana, l’edizione ometteva di pubblicare uno dei cinque lavori presenti nell’antologia originale, Pursuit (leggibile in inglese a questo indirizzo: http://www.gutenberg.org/catalog/world/readfile?fk_files=1635003), secondo un filo d’acciaio che connette la Urania di Fruttero&Lucentini a quella dei nostri tempi nell’attitudine all’uso delle forbici. Le successive edizioni della breve novella manterranno questo titolo fino all’ultima, comparsa di nuovo su Urania (nel fascicolo n.1479) come Perché sono un dio geloso!, titolo fuorviante quanto altri mai, che travisa radicalmente il senso profondo dell’opera in precedenza sempre rispettato: tanto per confermare che se si può far peggio ci si impegna con alacrità.


For I am a Jealous People! è per molti versi un’opera tipica della Golden Age della fantascienza (http://en.wikipedia.org/wiki/Golden_Age_of_Science_Fiction), senza dubbio rispettosa del verbo campbelliano che prevedeva che gli esseri umani (o per meglio dire: gli americani rigorosamente wasp) fossero sempre e comunque in grado di vincere le sfide, le battaglie, i rovesci di fortuna, le imprese impossibili e a ogni modo qualunque avversità il destino proponesse loro attraverso le vicende narrative. E non vi è dubbio che il tipo di avversità che il reverendo Amos Strong, protagonista principale della novella, si trova a fronteggiare è del tipo più arduo: combattere avendo Dio nel campo avversario. Quale che fosse la sfida, gli uomini (americani wasp) di Campbell e dei suoi discepoli più fidati vincevano immancabilmente, per cui non dubitiamo che la sfida finale lanciata dall’uomo di Dio al suo (ormai ex) dio e al popolo eletto di questi, gli alieni invasori e sterminatori, sarà coronata da successo. Una variante potrebbe sempre essere quella della gloriosa soccombenza in stile Alamo: poco importa che il mito di Alamo sia autentico quanto una moneta da tre euro; e in ogni caso si ricordi che, DOPO, a Santa Ana gli abbiamo fatto un mazzo così. Ma sebbene del Rey non narri l’esito finale del confronto, crediamo vi sia ben poco spazio per uno diverso dalla vittoria umana (americana wasp).

L’elemento religioso ricorre in più di una delle migliori opere dell’autore americano - anche nell’antologia Gods and Golems -, compreso quello che probabilmente è il suo miglior romanzo: L’undicesimo comandamento, pubblicato nel 1962, a sostanziale chiusura del periodo creativamente felice e abbondante della sua produzione. Nella novella in esame come nel romanzo, del Rey sa miscelare sapientemente gli aspetti più tipicamente avventurosi e di intrattenimento con un’acuta azione di stimolo alla riflessione sui temi teologici e di coscienza che getta in campo, e senza che l’uno aspetto soverchi mai l’altro. Il riferimento a Kant che Amos fa (“Quindi agisci in modo da trattare l’umanità sia nella tua propria persona che in quella altrui, in qualunque caso, come un fine e assolutamente mai come un mezzo.”) non stride con la trama di una feroce, apparentemente insensata, invasione aliena: è anzi essenziale per comprendere lo sviluppo del personaggio e per inquadrare concettualmente la novella.

Nell’economia della breve novella di cui si tratta, la necessità di porre in modo succinto le questioni attinenti alla tematica religiosa non inficia minimamente l’efficacia del lavoro dello scrittore americano. Paga se mai egli lo scotto di una certa rozzezza stilistica, o meglio della brutalità con cui deve comprimere e sollecitare il suo personaggio a compiere rapidamente l’evoluzione – e anzi la rivoluzione – copernicana del suo spirito e del suo modo di essere, della sua personalità profonda. A onta di questa necessaria brutalità, del Rey è tuttavia abile a mostrare ogni sottigliezza del lavoro corrosivo che il dubbio suscitato dall’osservazione della realtà e dal contatto con lo stesso Dio, “traditore” del suo ex popolo, compie nella psiche e nell’anima di Amos Strong. Novello Giobbe, ma che infine rifiuta lo schema psicologico che riteneva Dio avesse scelto per lui – che Amos si era costruito per sé, insieme alla immagine di un dio fatto a propria immagine - , quest’uomo pio e sottomesso al verbo di Dio, ma pur ammantato sempre di una dolente e nobile dignità, giungerà nel finale della novella a pronunciare il programma (campbelliano ;-)) della guerra contro gli avversari dell’uomo (americano wasp): “Dio ha denunciato l’antico patto e si è dichiarato nemico dell’umanità – disse, e la chiesa risuonava al rombo della sua voce. – E io vi dico che egli ha trovato un valido antagonista.

Che del Rey ne fosse consapevole o meno (e probabilmente lo era eccome), in tal modo il reverendo Strong veniva anche a chiudere il cerchio, specularmente ritrovando la pienezza della sua quasi esaltata fede giovanile in Dio in tale ispirata opposizione allo stesso Dio. Minor successo ha forse l’evidenziazione del percorso interiore che trasforma l’un tempo ardente e ormai intiepidito predicatore in un profeta carismatico: qui lo spazio narrativo risulta eccessivamente tirannico. Tuttavia l’autore compensa la pochezza analitica con la vividezza emotiva con la quale descrive la (ri)presa di coscienza di Amos: “Amos passò il resto della giornata nella casa dove aveva trascinato il cadavere di Doc. Non andò nemmeno in cerca di cibo. Per la prima volta in vita sua, da quando gli era morta la madre, a cinque anni, non aveva protezione contro il dolore. Non l’amara convinzione che si fosse fatta la volontà di Dio a consolarlo della perdita di Doc. E, rendendosene conto, sentì anche l’acuto dolore per le altre perdite dolorose, come se fossero anch’esse avvenute insieme con la morte di Doc.” Lester del Rey lascia sempre al lettore il suo libero arbitrio, si residua lo spazio del dubbio, tuttavia la sua scelta di campo appare razionale. O quanto meno lo sono le scelte di campo dei suoi personaggi, Amos Strong compreso.

La vividezza cromatica delle emozioni non resta concentrata nel solo reverendo; pur nell’economia della necessità di farne giganteggiare la figura, del Rey si dimostra professionista particolarmente smaliziato nel dipingere con rapide pennellate dei personaggi di contorno credibili e in grado di andare oltre la pura funzione di mascherine e cliché. Non solo il “Doc” della citazione qui sopra, il dottor Alan Miller, figura assolutamente stereotipa del medico condotto dell’America profonda di parecchi decenni fa (l’azione si svolge in un Kansas agricolo, perfettamente aderente a quello dell’epoca in cui la novella è stata scritta) e che pure diviene materiale narrativo caldo e vivo sotto la penna di un del Rey in grado di fornire tridimensionalità al personaggio con pochi indizi sparsi ad arte. Anche figure del tutto minori come la sartina e improvvisata organista di chiare origini italiane Angela Anduccini saltano all’occhio del lettore per la chiarezza con la quale pare di poter sbirciare nel suo animo. Mestiere, senza dubbio, ma mestiere ispirato. La capacità, anche, di saper spingere i tasti emozionali del lettore con sobrietà, come del Rey mostra nelle scene delle varie morti che toccano e infine travolgono la vita di Amos: sua moglie Ruth; il cane del figlio; sua nuora Anne; infine il dottor Miller, l’amico di tutta la vita.

Leggendo la fantascienza di parecchi decenni addietro si è sempre assaliti da un senso di fortissimo anacronismo. Personalmente è un sentimento di commosso calore quello provo. Nell’era del trionfo della Rete e della comunicazione planetaria immediata è affascinante vedere all’opera l’antica fantasia dei maestri del passato che non si peritavano di costruire basi lunari, narrare di invasioni aliene, far sfrecciare razzi futuribili nei cieli; e poi passavano attraverso una centralinista umana per mettere in comunicazione due abitazioni di un paesotto del Kansas rurale. Con tutto ciò, il senso profondo di opere come questa non risente in minima misura di tale effetto straniante. E’ degli eterni interrogativi dell’anima umana, dei tormenti e delle risoluzioni interiori che lacerano lo spirito umano, che parla la novella di del Rey. E il tempo che passa e rende sempre più lontana la sua apparenza esteriore non fa che avvicinarci la sua sostanza autentica, distillandola. E’ quanto fa di un lavoro professionale un capolavoro.

Quasi trent’anni dopo la pubblicazione di For I am a Jealous People!, Raymond F. Jones, un veterano i cui esordi letterarii precedevano quello di Lester del Rey scrisse un romanzo liberamente ispirato alla novella. In Italia venne pubblicato da Urania con il titolo di Alieno in croce (sempre benedetta sia la brillantezza dei curatori uraniani nella scelta dei titoli), a firma congiunta di Jones e del Rey.