
mercoledì 30 dicembre 2009
Buoni propositi per il 2010

venerdì 25 dicembre 2009
[fantascienza] I contemporanei – La stagione degli agnelli (Lambing season - 2002) di Molly Gloss (n.1944)
Una vecchia e tutto sommato fondata definizione, fa della fantascienza una letteratura di idee. E appunto ci sta, bene o male: la fantascienza generalmente pone delle ipotesi e su di esse specula. Per lo più, gioca con le idee. Solitamente crea idee, ne indaga, le influenza e ovviamente ne è influenzata. E’ una letteratura che nei più casi poggia sulle gambe solide dei fatti, che poi manipola e plasma in maggiore o minore misura, a seconda del maggiore o minore talento visionario dell’autore di turno. I personaggi con le loro psicologie, gli scenari con i loro colori e i timbri espressivi vengono dopo. Ogni regola ha però le sue eccezioni; ed esse non sono meno importanti della regola stessa; anzi lo sono forse di più. La stagione degli agnelli apparve in origine sull’Isaac Asimov’s Science Fiction Magazine, ed è stato recentemente pubblicato in Italia in chiusura del mastodontico secondo volume dell’antologia Il meglio della Sf / II che concludeva la presentazione dell’antologia Best of Bests curata da Gardner Dozois e dedicata ai migliori racconti contemporanei di fantascienza. Quindi è per definizione fantascienza. E lo è senza dubbio, visto che c’è un alieno di mezzo. Però, però…
Natale con Arthur C. Clarke
The Star è uno dei racconti più celebri non solo del suo autore ma di tutta la narrativa di fantascienza. E con ragione, direi, nonostante un fondo di prevedibilità.
L'ultima pubblicazione del racconto risale all'ottima antologia apparsa in Urania Collezione e di cui segnalo qui sotto la copertina.
domenica 20 dicembre 2009
[fantascienza] Il classico – Le Streghe di Karres (The Witches of Karres - 1949) di James H. Schmitz (1911-1981)
sabato 19 dicembre 2009
Divagazione in noir - Horace McCoy
Non sono un gran lettore di noir, e confesso che sono proprio pochini gli autori del genere che davvero apprezzi. Troppo spesso è dato trovare scrittori di scarso talento che compensano tale scarsezza sparandole grosse. Ovvero: creando situazioni così estreme da essere assurde, per titillare semplicemente la morbosità del lettore; usando uno stile ugualmente estremo, utilizzando le parole con un "realismo" che in realtà sconfina nell'iperrealismo di maniera e, in ultima analisi, nell'uso del linguaggio tanto per (tentare di) scandalizzare il lettore, o quanto meno per procurargli nuovamente emozioni morbose. Un buon parallelo è quello con tanto cinemaccio di fantascienza, che negli ultimi decenni ha sostituito le idee con gli effetti speciali.
Ecco, McCoy non è nulla di tutto questo.
Più una novella che un breve romanzo, anche se del romanzo ha l'intensità e la densità, Non si uccidono così anche i cavalli? è una delle cose più disperate che abbia mai letto. Mc Coy porta qui il noir dentro la sua dimensione più metafisica, distillando il sentimento del genere in un racconto dove il nichilismo oblitera ogni speranza e ogni senso dell'esistenza. Eppure lo fa senza mai staccare i piedi dal solido terreno della realtà: questo racconto esce dritto dalla Grande Depressione, e di essa reca le stimmate nelle vite dei suoi protagonisti; e in particolare di quella della vera, assoluta protagonista: Gloria Beatty. Questo racconto è perfettamente calato in una realtà fatta di miseria, disperazione, odio, avidità, meschinità; e riesce a depurare i suoi elementi nel ritratto di un'anima che ha perduto ogni cosa. Perché incapace di avere alcunché oppure privata di tutto dalla vita, questo è un qualcosa che Mc Coy forse lascia decidere al lettore. O forse non gli importa minimamente sciogliere il nodo, perché ininfluente. Non a caso il momento più debole dell'intero racconto è quando l'autore ci concede un minimo scorcio del passato di Gloria; ma poi la telecamera riprende a zoomare in primissimo piano sui volti e il presente dei protagonisti, in modo ancora più disincantato che nei tre romanzi qui di seguito presi in esame. Ciò che conta e vediamo è ciò che essi fanno. Il passato, ma del coprotagonista Robert Syrventer, tornerà a far capolino nel finale, ma qui darà un'illuminazione poetica a tutto il racconto e al personaggio, così apparentemente debole e che scopriamo invece forte.
Del noir c'è tutto: ci sono assassinii e assassini - il racconto è un flashback a spezzoni che parte dall'aula di tribunale dove il coprotagonista viene giudicato -; ci sono personaggi ambigui, al limite del malavitoso; uomini e donne sradicati e senza meta né casa; c'è un degrado che non è tanto morale, quanto del tessuto stesso del vivere: c'è il nostro presente, mediatizzato, pubblicizzato, reso immagine sempre fruibile, spettacolo per la curiosità morbosa di uomini e donne privi di una vita propria. C'è una situazione folle ed estrema: una maratona di ballo che dura per settimane, dove le coppie devono ballare fino a stramazzare per sperare di guadagnare qualche soldo, per il divertimento di un pubblico crudele (Stephen King estremizzerà l'idea di base nel suo capolavoro La lunga marcia). Una situazione ideale per scatenare le passioni e far emergere il peggio di ognuno. E per far maturare l'odio totale, annullante e disperato di Gloria, un personaggio che non si può non amare e non si può non odiare allo stesso tempo. Un personaggio che appare così vero da sperare che non possa mai essere vero.
Lo stile è al tempo stesso ricercato e diretto al bersaglio come un proiettile. Osserviamo un signor scrittore di elevate doti letterarie che non ha la minima paura di scrivere cose che colpiscono allo stomaco, e che colpisce con particolare violenza ed efficacia perché nulla nella sua scrittura è eccessivo, ed è anzi perfettamente misurato. Le parole di McCoy fanno male al cuore non perché estreme, pittoresche o "realistiche", ma perché mettono a nudo i personaggi con una naturalezza ed una completezza da lasciare abbacinati. Sono le loro azioni, il realizzarsi dei loro pensieri a definire i protagonisti, a svelarne la personalità e la psicologia. A mostrare un tessuto sociale e umano che, nell'anonimità completa del luogo di svolgimento dell'azione, è specchio di un'America desolata, lontana dal Sogno, corrotta da e corruttrice di quel Sogno. Un'America marcescente, di un'umanità minore e minorata, priva di speranza. Nessun compiacimento in questo far osservare, da parte di McCoy al lettore, una sezione umana e sociale vuota di sentimenti, di orgoglio, di prospettive: solo l'occhio naturalistico di una narrativa disincantata, forse anche cinica. Di certo, straordinariamente raccontata. Non solo - e questo è normale - i personaggi di McCoy non hanno nulla di epico; neppure hanno nulla di epicamente disperato. Sono dei poveri disperati e basta. Dei poveri idioti, in fondo, e Ralph Cotten, il protagonista che si crede un genio del male, per primo; di essi McCoy segue pochi giorni di vita con una macchina da presa che registra tutto per il lettore, senza emettere giudizi; e senza neppure invitare il lettore a emetterne. Fanno tutto loro, i personaggi. E' così che il finale non ha nulla della grandiosità degli sconfitti dalla vita, ma lascia, con semplicità, il vero sapore dell'amarezza che dà l'osservazione di uno spreco privo di alcun senso. Privo di alcun senso perché nessun senso, nessun valore avevano quelle vite di cui erano stati mostrati al lettore degli estratti.
Questo secondo romanzo non solo conferma, ma rilancia le doti di scrittore di Mc Coy. Se possibile, è ancora più disperato e nero di Un bacio e addio, abbandonando una visione che era principalmente individuale della sconfitta per allargarla a tutta la società. Non che in Un bacio e addio la vicenda si risolvesse unicamente nell'analisi della sconfitta, quasi metafisica, del protagonista, Ralph Cotten (o qualunque fosse il suo vero nome); né che ne Il sudario non ha tasche non metta in scena anche la sconfitta, quasi metafisica, del suo protagonista, Michael Dolan. Tutt'altro: la personalità di Ralph pare riverberarsi continuamente su quella dei personaggi che lo attorniano, e che ciascuno in modo diverso dall'altro, e da Ralph stesso, si riflettono in una società indifferente e amorfa prima ancora che corrotta. Ugualmente, la corruzione completa e senza possibilità di riscatto della città di Colton, epitome di tutta l'America e perfino di tutto il mondo, si specchia nella purezza da crociato con cui Michael la combatte; vi si specchia, ma rimandando al lettore l'immagine di un crociato la cui umanità non è solo debole, ma autenticamente ambigua e spesso riprovevole: un crociato sconfitto in partenza non solo dal suo ardore che lo pone al di sopra di tutti e quindi lo condanna a scontrarsi senza speranza con chi è troppo più potente di lui, ma in primo luogo dal suo spirito ambiguo che trae quell'ardore dal senso di inadeguatezza, dal desiderio di vendetta per la sua esclusione ancestrale da quel mondo che combatte. Spirito irrisolto quanto disperato, Michael è predestinato; come lo era Ralph: la differenza tra loro e i romanzi è nella prospettiva da cui si osserva: antropologica in Un bacio e addio, politica ne Il sudario non ha tasche. L'America de Il sudario non ha tasche è potentemente antihollywoodiana, un affresco di malaffare, soperchierie piccole e grandi, provincialismo gretto, razzismo violento, complotti politici; un affresco che non trova alcun riscatto né nella storia personale del protagonista né nello scioglimento della vicenda; che non lascia alcuno spiraglio per il minimo riscatto. Se Hollywood ha mostrato tante volte la lotta - vittoriosa - dell'eroico giornalista, a volte vincente e altre nobilmente perdente, contro il Male, Mc Coy mostra un giornalista che ha ben poco di eroico o di nobile, ma che lotta eroicamente contro esseri umani ed organizzazioni che non sono il Male, ma più concretamente fanno del male, e tanto. L'eroicità e la nobiltà di questa battaglia non risiedono in sé, ma unicamente nella sua impossibilità di essere vinta. Michael, come Ralph, è un personaggio tanto forte da divorare gli altri, che a volte appaiono come aspetti della sua personalità stessa, negati o fortemente desiderati che siano. Non tentato qui da troppe analisi psicologiche, lo stile di Mc Coy si fa ancora più asciutto, preciso, implacabile nelle sue implicazioni descrittive, raffigurando un tessuto umano e sociale dove la pietà e la decenza non hanno cittadinanza.
John Conroy, il protagonista di questo romanzo si distacca nettamente dal delinquente sociopatico Ralph Cotten di Un bacio e addio e da Micahel Dolan, il giornalista crociato e dannato di Il sudario non ha tasche. Non a caso il suo destino sarà diverso. Non che Conroy non sconti un prezzo agro e duro per la sua battaglia contro un potente Sistema criminale - il prezzo sarà anzi molto agro e molto duro - ma tuttavia ne uscirà vivo e vincente. Di estrazione sociale modesta, come l'eroe/antieroe del Sudario, diversamente da costui Conroy non soffre di alcun complesso di inferiorità che lo porti a desiderare una rivalsa nei confronti dell'ambiente grasso e corrotto con il quale entra in contatto; è un intellettuale, perfettamente conscio della propria statura, e che quando gli si offre l'opportunità di conformare la propria vita alle sue idee decide forse con un pizzico di incoscienza di afferrarla e andare fino in fondo costi quel che costi. Se per questo appare meno interessante degli altri due, è però vero che la sua scelta mette in moto una serie di eventi e personaggi che rendono la storia più densa delle altre due. I personaggi di contorno sono più definiti, meno sfuggenti; in poche battute acquisiscono personalità molto concrete e rifinite. Il padre di John, il capitano di polizia Mickey Conroy; il giudice Helen Waycross e sua figlia, che poi aiuterà e sposerà John; la madre di John; l'ex avvocato radiato dall'albo Cicero Smith: tutti costoro, e non solo, hanno una vividezza e si muovono sulla scena con naturalezza, concorrendo a creare una storia non soltanto avvincente e credibile, ma anche compiutamente corale.
L'azione si svolge in una grande città, che resta tuttavia anonima (New York? Los Angeles?), e il Nemico è una potente organizzazione mafiosa al cui vertice sta un villain di spessore: Nemo Crespi. Di spessore non perché Crespi sia un genio, è più un bestione istintivamente furbo e cauto, ma perché il ritratto criminale che Mc Coy fa di lui e della sua organizzazione, degli uomini che gli gravitano intorno, dai picciotti ai politici, giudici e poliziotti corrotti, è un ritratto che non ha bisogno di una penna intinta nei colori foschi per risultare fosco agli occhi del lettore. Mc Coy descrive e lascia osservare un'umanità brutale e degradata nell'animo; un'umanità senza orizzonti che non siano la sopraffazione, il denaro e il potere. Vediamo svolgersi la vicenda come avessimo l'occhio su una telecamera che ritrae i personaggi in azione. I loro pensieri ci arrivano immediati da quanto accade loro, da quanto si trovano a vivere.
La lotta tra Conroy e Crespi sarà senza esclusione di colpi, e lascerà morti e feriti sul terreno. Colpirà John nel modo forse peggiore per lui, ma il ritmo incalzante del romanzo non permette di approfondire troppo; eppure la frenesia che vediamo vivere a John fa sì che il lettore quasi non se ne accorga. Lo stile di Mc Coy resta secco, di un'eleganza e concisione perfette. Senza rinunciare mai a una qualità letteraria ricercata si adatta alla materia narrata.
Finale positivo, dunque? Sì, ma la quasi irrealtà del personaggio purissimo di John Conroy e la devastazione morale e non, disseminata lungo tutte le pagine del romanzo, appaiono come un monito: sì, forse può succedere; ma se anche succedesse potrebbe essere una volta soltanto. E i cocci restano a terra.
[fantascienza] I contemporanei – L’inquilino ozioso (Idle roomer - 2008) di Mike Resnick (n.1942) e Lezli Robyn (n.1982)

Con lo scorrere delle pagine e in seguito alla risposta di Mr.Valapoli al gesto di Maria scopriremo che l’abitatore della stanzuccia è davvero un abitante di un altro mondo, un reietto in fuga da nemici sconosciuti, il protagonista di una partita forse mortale giocata da attori la cui potenza ci sfugge ma che intuiamo grande, di certo superiore a quella di noi esseri umani incatenati al nostro pianeta.
mercoledì 16 dicembre 2009
Metalli senzienti e dintorni

Le Tre Leggi della Robotica
1) A robot may not injure a human being or, through inaction, allow a human being to come to harm.
2) A robot must obey any orders given to it by human beings, except where such orders would conflict with the First Law.
3) A robot must protect its own existence as long as such protection does not conflict with the First or Second Law.
Poche altre figure partorite dalla fantascienza – forse nessuna – hanno colpito la fantasia e modellato l’immaginario più di quella del robot, l’uomo metallico. Antecedenti di uomini meccanici, statue animate e quant’altro ve ne sono sin dall’epoca omerica, ma il robot nella sua incarnazione di moderna icona fantascientifica è recente e ha un’origine precisa: il dramma teatrale del 1920 R.U.R. (il titolo originale per esteso è Rossumovi Univerzální Roboti: Robot universali di Rossum) dello scrittore ceco Karel Čapek. Il termine venne probabilmente suggerito a Čapek da suo fratello Josef dalla parola ceca robota, lavoro pesante, servile. I robot nascono dunque come creature destinate a servire l’uomo con il proprio lavoro forzato. I robot di Čapek non sarebbero mai considerati tali ai nostri giorni, sono più quelli che noi chiameremmo androidi, o ancora meglio una sorta di organismi biologici artificialmente creati, ma cambia poco: l’idea del robot era nata e avrebbe avuto vita propria. L’idea di un doppio artificiale dell’uomo, di prova del suo potere di creare la vita, seppure così limitata, e di usarne per i proprii scopi. Un golem moderno, tecnologico, che del golem conserva l’ambiguità e la pericolosità. Infatti i robot del dramma si solleveranno contro l’umanità sterminandola e inaugurando in tal modo un cliché che sarebbe durato a lungo. Sul valore dell’opera in questione faccio affidamento sul Buon Dottore, Isaac Asimov, che la reputava illeggibile.

Da allora è passata acqua sotto i ponti, e tanta. Il robot come dicevo è entrato nell’immaginario collettivo e si è ramificato. Isaac Asimov ha ovviamente elaborato le celeberrime “Tre Leggi” riportate qui all’inizio del testo. Non più soltanto schiavo ribelle il robot è divenuto di volta in volta pienamente simbolo del doppio umano; minaccia incarnata della scienza disumana; prova della creatività dell’uomo; essere amputato di parte della propria umanità che aspira alla pienezza di essa (o, infuriato, la ripudia e la combatte); guida saggia dell’uomo o sua super tata (spesso con coloriture sinistre); essere superiore distaccato dai bisogni umani o parodia dei più bassi tra questi bisogni; giullare o filosofo dell’uomo. Sempre e comunque creatura in rapporto simbiotico con l’uomo.
Sembrerebbe dunque che debba esservi gran copia di opere letterarie, cinematografiche e quant’altro sui robot. E’ certamente così, ma non quanto ci si aspetterebbe. Certo, di robot sono pieni libri e pellicole di fantascienza, ma spesso la loro funzione è quasi di soprammobili. Le opere che fanno del robot il loro centro speculativo, o comunque un elemento di rilievo sono in numero molto più esiguo. Limitandomi alla letteratura di fantascienza e tentando un ordine sistematico propongo di seguito un mio breve elenco di romanzi, che come per l’analoga lista incentrata sulla figura dell’alieno può essere intesa come una tra le diverse, possibili strade per inoltrarsi nell’argomento.
Chip di silicio ma non solo
I.A. Intelligenze artificiali. Che siano computer coscienti di sé, network di computer o reti neurali o altro ancora che abbiano sviluppato raziocinio e pensiero autonomi, le I.A. emanano l’idea del potere insito nelle capacità del pensiero. Possono governare astronavi, pianeti, e comunque dirigere la vita umana - come il Multivac protagonista di diversi racconti di Asimov, tra i quali Diritto di voto: http://olivavincenzo.blogspot.com/2009/01/fantascienza-il-classico-diritto-di.html - e possono sviluppare le nostre stesse psicosi, come lo Hal 9000 di 2001 Odissea nello spazio (1969) di Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke.
Simulacron 3 (Simulacron-3, 1964)
di
Daniel F. Galouye (1920-1976)

Questo romanzo non tratta propriamente di Intelligenze Artificiali, quanto dei presupposti stessi della coscienza e della conoscenza. Esplora il concetto di realtà e della sua (ri)conoscibilità. Cosa sia vero e cosa sia falso è dunque il nucleo concettuale che viene investigato all’interno di una realtà virtuale che mima la società umana in molti suoi aspetti (è quindi l’intera umanità quale corpo sociale a essere replicata in un doppio artificiale). Ma in un gioco di specchi la società mimata è ugualmente una realtà simulacrale e così il suo tessuto pare collassare su sé stesso. Qual è a questo punto, a livello di intelligenza, un sensato discrimine tra reale e artificiale, posto che abbia ancora senso tale discrimine? Galouye, uno degli autori meno noti ma più autenticamente visionari del campo ha fortunatamente goduto in anni recentissimi di una riscoperta sulle pagine di Urania e collane collegate.
Software – i nuovi robot (Software, 1982)
di
Rudy Rucker (n.1946)

Matematico e informatico oltre che saggista e acclamato autore di fantascienza, Rucker ha più di ogni altro contribuito a ridisegnare concettualmente il robot e l’I.A. negli ultimi decenni. I suoi bopper, robot, ma soprattutto le colossali derivate I.A. bopper, che hanno sviluppato un’autentica coscienza autonoma in seguito all’innesto nel loro software di un principio “evolutivo” di casualità, non a caso negano programmaticamente le tre leggi asimoviane, e sono al centro di vicende tra il thriller puro e il noir; e i grandi bopper ordiranno e falliranno un tentativo di assorbire non solo le menti umane ma anche quelle dei piccoli bopper. Ma nel frattempo, con semplicità e scioltezza, Rucker utilizzando un sapido registro satirico compie una serie di riflessioni estremamente acute sull’intelligenza artificiale, i confini tra umano e meccanico, le vie evolutive dell’umanità e dell’intelligenza. Il romanzo avrà tre seguiti, che amplieranno la riflessione di Rucker anche ad altre aree della conoscenza e della possibile storia futura dell’uomo.
L’intrigo Wetware (Vacuum flowers, 1987)
di
Michael Swanwick (n.1950)

Halo (id., 1991)
di
Tom Maddox (n.1945?)

Aleph è la macchina che esplora sé stessa. Giunta all’autocoscienza, l’I.A. di Maddox, protagonista principale del romanzo, non si accontenta e indaga le radici, i limiti e il significato di questa autoconsapevolezza. Cogito ergo sum non è sufficiente, l’intelligenza deve risalire alla propria identità in un percorso esistenziale di conoscenza. Maddox fu tra gli iniziatori del cyberpunk letterario, e in questo romanzo che come è classico per molte opere sue contemporanee contamina le atmosfere più prettamente fantascientifiche con le suggestioni del noir egli va al cuore dell’estetica cyberpunk. Sulla scia dei bopper ruckeriani il suo Aleph è la chiave per un indagine sulle prospettive dell’intelligenza artificiale e sul concetto di Sé e di Altro in campo cognitivo.
Manufatti d’acciaio e vari
L’immagine classica del robot è quella di un manufatto di metallo più o meno vagamente umanoide, sicuramente meccanico nell’aspetto. E’ questa la rappresentazione dell’uomo artificiale entrata nell’immaginario, veicolatavi soprattutto dal cinema. Metropolis (1926) di Fritz Lang per iniziare, Il Pianeta proibito (1956) di Fred Macleod Wilcox con il suo Robbie per continuare, e, giungendo a tempi più prossimi a noi i due film che hanno trasposto sullo schermo (e come, ahinoi, come…) L’uomo bicentenario E Io, Robot di Asimov. E’ questo il robot che può spaziare da buffo soprammobile (come in Star Wars) a simbolo flessibile: schiavo o guida, stolido doppio dell’uomo o maestro filosofo.
Gli Umanoidi (The Humanoids, 1949)
di
Jack Williamson (1908-2006)

Espansione del racconto del 1947 With folded hands, questo romanzo, oltre che uno dei migliori risultati di un autore che è stato in grado di essere produttivo e apprezzato in nove diversi decenni, è un brillante aggiornamento del cliché del robot che si ribella al suo creatore (aggiornando a sua volta il mito della creatura di Frankenstein). Certo nessun robot ribelle potrà mai essere genuinamente sinistro e pericoloso come i servizievoli Umanoidi, sempre pronti e solleciti a esaudire ogni bisogno dell’uomo, prevenirne ogni necessità, impedire che egli si metta in pericolo… se pensate che sia il Bengodi fatevene regalare uno. La nera parodia disvela una applicazione implicita davvero implacabile (e la più vera) del dettato delle Tre Leggi che Asimov era andato elaborando in quegli anni.
Io, Robot (I, Robot, 1950)
di
Isaac Asimov (1920-1992)

E’ il primo e il più celebre dei volumi che raccolgono i racconti dei robot che Asimov iniziò a scrivere al principio degli anni ’40. E’ qui che compaiono quelle Tre Leggi divenute il tratto distintivo per antonomasia dei robot. Qui appare il personaggio di Susan Calvin, riuscitissima e umanamente realistica figura (a dispetto di quanto dicesse lo stesso Asimov) di scienziato. I racconti robotici di Asimov operano su un doppio livello: ludicamente sono dei mirabili giochi logici dove l’autore si diverte a mettere in crisi le premesse razionali del suo universo roboticamente ordinato; per contro il robot asimoviano simbolizza la tecnologia e i suoi effetti sulla società e la psicologia umane, e in tutte le opere dello scrittore dove appaiono il conflitto generato dal progresso è sempre presente e operante, e spesso acutamente analizzato.
Anni senza fine (City, 1952)
di
Clifford D. Simak (1904-1988)

Scritti a partire dal 1944, più Epilogue risalente 1973, i racconti che compongono la storia futura di Anni senza fine (talvolta anche in Italia il ciclo è stato pubblicato sotto il titolo originale) costituiscono un’affascinante creazione mitica e una tessitura di simbologie che hanno la base nel sostrato umanistico del lavoro di Simak – e più che umanistico: solidaristico al di là dei generi e delle specie. Sullo sfondo della storia umana che attraversa le epoche e si trascolora in declino e fine dell’umanità, trapassando nell’alba della civiltà dei Cani e di quella delle Formiche, si staglia la figura di Jenkins. Il robot che nei tempi serve fedelmente – e guida - i suoi padroni umani Webster incarna forse la coscienza migliore dell’umanità e il lascito di saggezza (non a caso inumana…) a chi viene dopo.
Cyberiade (Cyberiada, 1965)
di
Stanisław Lem (1921-2006)

Trurl e Klapaucius, i Costruttori, sono i personaggi principali di questa raccolta di racconti di Lem. L’ironia affilata, l’estrapolazione filosofica, la riflessione sulla natura dell’uomo, la sua inesausta ricerca della felicità e altri dilemmi e questioni morali o epistemologiche sono invece gli strumenti e i temi che Lem utilizza in un caso e indaga nell’altro. Trurl e Klapaucius sono i due robot che si muovono in un mondo vagamente di aspetto medioevale, ma dove la tecnologia si esplica in una fantasmagoria di invenzione assurde. E i più fantasmagorici facitori/artefici sono Trurl e Klapaucius, ovviamente. Si perde ogni connotato robotico che non sia simbolico, e sulla “carne” metallica dei due Costruttori si cuciono gli abiti dell’umanità, con una sottigliezza metafisica che va al di là della semplice satira per costruire un apologo dell’uomo.
Acidi nucleici, più o meno
Come si diceva, in R.U.R. il robot nasce proprio come androide, creatura artificiale di aspetto umano. Nonostante questa primogenitura gli androidi danno l’impressione di essere più “moderni” di un semplice robot di metallo. A volte l’androide ha solo fattezze umane (come il Data di Star Trek: The Next Generation), altre volte si tratta di una creatura sì artificiale, ma creata su basi biologiche, per certi versi apparentabile a un clone. In ogni caso esso si presta a estremizzare le simbologie implicite nella figura dell’uomo artificiale: nostro doppio, nostro schiavo che ingiustamente sfruttiamo, ribelle contro l’autorità (paterna o politica che sia), fratello evoluto, mentore o ancora altro.
Il cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968)
di
Philip K. Dick (1928-1982)
Reso universalmente noto dalla sua trasposizione cinematografica nel Blade Runner diretto da Ridley Scott (1982), questo romanzo che è uno dei affascinanti e riusciti di Dick mette in scena alcuni dei temi a lui più cari: i confini dell’identità e della realtà, la creazione biologica artificiale, i problemi identitari della coscienza, i diritti dell’intelligenza autocosciente, il discrimine tra umanità e non umanità, la figura simulacrale. Nessuno meglio dei suoi androidi modello Nexus-6 si presta a questa indagine epistemologica/riflessione sulle diseguaglianze nella nostra società. Nella tangibile, corporea ambientazione di una Terra in disfacimento lo scrittore americano attraverso i dolenti personaggi dei suoi androidi pone con forza al centro della narrazione i risvolti etici e filosofici di esseri (umani) viventi trattati come cose e cacciati come animali.
Solo il mimo canta al limitare del bosco (Mockingbird, 1980)
di
Walter S. Tevis (1928-1984)

Tradotto spesso con il titolo Futuro in trance, Mockingbird è uno dei risultati più maturi dell’ottima attività letteraria di Tevis. Tra i personaggi principali del romanzo si erge la figura di Spofforth, l’androide immortale che desidera la morte. Vertice (con gli altri robot) della sapienza tecnologica di un’umanità immemore della storia, privata di slanci creativi e di ogni scintilla di vita, immersa in una beatitudine ebete garantita, Spofforth simboleggia in parte una proiezione di questa umanità, ma è difficile sfuggire alla suggestione di vedere nel desiderio di morte dell’androide quella pulsione distruttiva che lo stesso Tevis visse per l’alcoolismo. E tuttavia, pur incapace di provare quel sentimento d’amore che attraverso i due principali protagonisti umani del libro, Bentley e Mary Lou, pone le basi di un rinnovato futuro, Spofforth si dimostra il solo in grado di comprenderlo appieno.
I robot e l’Impero (Robots and Empire, 1985)
di
Isaac Asimov (1920-1992)
Non è certo il migliore tra i romanzi di Asimov e neppure tra quelli del ciclo robotico, protagonisti dei quali sono l’investigatore umano Elijah Baley e il suo “collega” androide R. Daneel Olivaw, poi rimasto solo dopo la morte del primo e assurto al ruolo di demiurgo della Storia Futura asimoviana. L’interesse del libro è dato però dal fatto che in esso è per la prima volta resa esplicita, da parte appunto di Daneel, l’implementazione delle proverbiali Tre Leggi con la formulazione della Legge Zero: A robot may not harm humanity, or, by inaction, allow humanity to come to harm. Come Jenkins o Spofforth, ma con logica asimoviana a dettare le differenze, è in base a questo enunciato che Daneel assume su di sé il compito di guida dell’umanità, a simbolizzare il primato del razionale.
Wetware, Gli uomini robot (Wetware, 1988)
di
Rudy Rucker (n.1946)
Con la consueta abilità affabulatoria e l’ironia mordace che lo caratterizza, in questo diretto seguito di Software Rudy Rucker rovescia il consolidato universo delle storie robotiche. I bopper, i suoi nuovi robot, creano i meatbop, esseri umani con del software innestato nel loro materiale genetico per vendicarsi di quanto avvenuto in precedenza. Da qui parte una girandola di avvenimenti che vede senza sosta umani, bopper e meatbop cercare di farsi vicendevolmente la forca con successo variabile. Muore (ri-muore, dopo essere stato roboticamente riportato in vita) Cobb Anderson, l’uomo che aveva creato i bopper autocoscienti grazie al software “evolutivo” che aveva inventato e innestato nei primi di loro. L’altro principale protagonista umano, Stahn (lo Stan Mooney/Sta-hi di Software) stermina i bopper, ma è proprio in lui che rivive il sogno di creare il wetware, la forma di “vita” che concretamente realizza il binomio software+biologia.