domenica 8 maggio 2011

I classici – Anime (Souls – 1982) di Joanna Russ (1937-2011)


Or sono alcuni giorni che è morta Joanna Russ. La sua è stata una delle voci più forti, singolari e significative della fantascienza americana, e di sicuro non solo tra le scrittrici. Sebbene negli ultimi trent’anni la sua produzione narrativa sia stata così rarefatta da apparire episodica, i lavori prodotti nella breve e feconda stagione più creativa sono tali da consegnarci il ritratto di un corpus letterario raro per rigore intellettuale e stilistico, accostabile a quello delle altre due grandi autrici emerse tra i sixties e i seventies, Ursula Le Guin ed Alice Sheldon/James Tiptree jr., e qualche anno più tardi Octavia Butler. Femminista militante, Joanna Russ fu un’agguerrita teorica del movimento a partire dai tardi anni ’60 e seppe riversare con coerenza il suo impegno tanto negli scritti critici sulla fantascienza che nei suoi lavori di narrativa.

Anime è l’approdo terminale del felice periodo produttivo che si apre nel 1968 con Picnic su Paradiso, il primo dei romanzi della guerriera transtemporale Alyx, una delle più riuscite figure di eroina; all’epoca Joanna Russ pubblica professionalmente già da nove anni. Anime vede invece la luce nel gennaio 1982 su Fantasy&Science Fiction, la rivista sulla quale la scrittrice pubblicò anche innumerevoli recensioni. Dei suoi non molti lavori giunti in Italia, e tra i quali spiccano il romanzo sperimentale Female Man e il racconto breve Quando cambiò, è senza dubbio il più bello e intenso, per lo stile rigoroso ed energico, per la visionarietà con la quale ella svolge i temi affrontati, per la sfaccettata ricchezza e al contempo la completa impenetrabilità della protagonista, e per la forza d’impatto dell’allegoria allestita in poche decine di pagine dense di significato e fluide alla lettura: questa è una novella che vale una carriera letteraria, un risultato che gli estensori di serie in dozzine di volumi non riusciranno mai a raggiungere.

Souls è una storia sulla maternità più che sull’identità (di genere e non) come spesso è detto.  Chiaramente il tema identitario è ben presente, e non potrebbe essere diversamente, poiché non piccola parte dell’identità culturale e biologica della donna nelle società umane viene costruita attorno e sulla maternità; e perché ciascuno di noi, uomo o donna che sia, indossa una o più mascherature nel corso della propria vita e nel dispiego della propria vita relazionale. Ma sotto la lente trasfigurante dell’osservazione russiana è posta direttamente la questione centrale della funzione materna nella storia, e nella vita umana.

L’elemento fantascientifico in Anime può apparire secondario, eccentrico, perfino ridondante se non del tutto superfluo: la vicenda della badessa medievale Radegunde alle prese con un assalto vichingo alla sua abbazia potrebbe sembrare ancor meglio affrontabile in un’ottica interamente storica (o comunque realistica). In realtà esso elemento fa davvero corpo unico con la riflessione a tutto campo di Joanna Russ sulla maternità e sulla storia femminile all’interno di quella più ampia trama che è la storia del genere umano. Solo l’alienità vera e propria di Radegunde, che prende corpo finale nelle ultime pagine della novella, può dar conto appieno dell’alienità che agli occhi del lettore (del lettore maschio in particolare, e Joanna Russ è ovviamente consapevole di come la maggior parte di coloro che avrebbero letto la novella sulle pagine di F&Sf fosse appunto costituita da maschi) rappresenta una madre così fuori dai canoni come è Radegunde - e la maternità una volta denudata della retorica con la quale siamo usi rivestirla per proteggerci dalla sua realtà. Una madre lontana dagli schemi codificati e santificati dalle religioni e dalle società patriarcali. Una madre terribilmente reale proprio per questo. E tanto più vicina a una maternità primitiva e naturale, ben lontana dalle false mitologie che verranno e pretenderanno di sostituire la natura con la propria elaborazione fantasiosa.

Ovviamente Radegunde non è madre in senso biologico, ma è proprio per questo che la sua figura costituisce un simbolo ancora più potente di maternità, una ricapitolazione psicologica, culturale, emozionale di _ogni_ madre. In senso culturale ella agisce da madre per tutta la “sua gente”: le suore del suo convento, i preti in visita a esso, la popolazione del villaggio. Finanche l’orda vichinga indifferenziata che si è spinta dalla Norvegia fin sulle coste di una qualche landa tedesca medievale dove Joanna Russ ambienta la vicenda. Ma è nei riguardi di alcuni di costoro che Radegunde assume una più precisa e circostanziata identità di madre. Per ciascuno di loro, una volta dismessa la maschera culturale della madre perfetta assegnatale d’ufficio dalla società e dal suo status, rappresenterà una delle facce reali della madre: cannibale, terribile, benevola, fonte di vita, o indifferente. E soprattutto inconoscibile nella sua identità più intima. Ciascuno di loro può, al meglio, andare a tentoni nel tentativo di comprenderla: con Radegunde l’autrice consegna ai lettori una delle più raffinate e complete interpretazioni della figura materna, e della distanza che marca ogni donna/madre reale dall’immagine mitologica che ne abbiamo. Oltre che una rappresentazione dell’infinitamente più grande ricchezza che si nasconde nelle madri reali, che appena è possibile scorgere. E questo ci accomuna tutti, uomini e donne, in quanto figli, così come accomunati sono i particolari “figli” e figlie” di Radegunde.

L’innesco, come detto, è rappresentato dall’approdo presso il convento di Radegunde di una piccola orda vichinga. L’evento, traumatico, comporterà la presa di coscienza della propria alienità in Radegunde, parallelo di un vero e proprio percorso di riappropriazione della propria autonomia identitaria di donna al di là della funzione/maschera materna da parte della badessa/madre.  Come donna Radegunde si rimpossessa della propria identità e autonomia ricongiungendosi con la propria razza; ma come madre ella è sempre presente nello spirito dei suoi “figli” e delle sue “figlie”, segnati indelebilmente, e a volte definitivamente, dalla sua azione e dalla sua parola.

All’apparenza Radegunde riserva il destino più crudo a Thorfinn, il giovanissimo vichingo verso il quale sostituisce la pietà iniziale con la spietatezza una volta dismessi gli occhi misericordiosi e ciechi della madre con quelli spassionati della donna. Che Thorfinn muoia per intervento diretto delle facoltà superumane di Radegunde o per un caso, come pietosamente e forse illusoriamente ritiene Radulphus, la sua morte è sempre e comunque riconducibile alla dissoluzione dell’identità maschile in presenza di un rapporto irrisolto e inadeguato con la madre/donna. Ma in realtà il destino di Thorfinn lo stupratore dall’anima fragile è ancora misericordioso se paragonato a quello di Thorvald Einarsson, il riluttante capo dell’orda vichinga. Thorvald è infatti condannato dalla vendetta di Radegunde a vivere. A vivere in piena consapevolezza. Thorvald che rappresenta il Padre nella sua più brutale espressione, il Padre incapace di liberarsi del retaggio della violenza insensata nonostante le sue indubbie facoltà intellettuali e spirituali, il Padre incapace di rapportarsi alla Madre quale compagno. Il risentimento di Radegunde per l’inadeguatezza di questo suo “figlio” a elevarsi a pari si sostanzia, come ella dice nel finale della novella, nel dargli i “suoi occhi”: per vedere il mondo, così come esso è percorso dalla violenza insensata che Thorvald stesso e i suoi uomini rappresentano; per soffrirne come lei (e con lei tutte le donne) ne ha sofferto. In un finale duro e spietato come pochi, e dunque autenticamente poetico, Radegunde risponde con un secchissimo No revenge? Thinkest thou so, boy? (…)Think again. . . . alle perplessità di Radulphus - al quale il destino di Thorvald, ovvero la missione affidatagli da Radegunde di divenire un Pacificatore, non sembra frutto di un qual grande vendetta.  

A Sibihd, la giovane suora stuprata da Thorfinn, e a Hedwic, la consorella sognatrice, Radegunde concede invece una solidarietà e una benevolenza un po’ d’ufficio. Come se il genere comune la obbligasse a riservare a queste due “figlie”, inadeguate ai suoi occhi di madre quanto i due bestioni norvegesi, un trattamento comunque pietoso, a tendere loro una mano perfino complice. O comunque conscia della necessità di proteggerle non soltanto da loro stesse ma anche dagli uomini. Forse la giovane Sibihd riuscirà a superare il trauma subito, ma Radegunde mostra chiaramente che neppure una madre può sostituirsi alla figlia nella sofferenza dello spirito. Ma può tuttavia fornire consolazione alla fantasia sovreccitata di una figlia come fa con Hedwic. Con una bugia: ma una madre sa bene che la verità a volte è sopravvalutata.

Non è però alle due “figlie” femmine che Radegunde consegna il lascito più prezioso. Che consegna la sua figura di madre che continua a vivere nel figlio al di là dell’assenza, della partenza, della morte della madre. Al di là dell’impossibilità per il figlio di conoscere davvero sua madre. E’ il lascito della vita stessa. E’ a Radulphus, il bambino di sette anni che poi diventa il narratore stupito della storia di Radegunde, che la badessa fa davvero dono della vita. Al di là di tutto, a me pare che Joanna Russ consegni in tal modo un chiaro messaggio di speranza e un invito deciso alla collaborazione. Radulphus che la badessa aveva già eletto e ora riconferma a figlio adottivo, a significare che la scelta cosciente dell’amore è più importante della cieca biologia, la quale assicura al figlio soltanto una vita biologicamente limitata; e Radulphus dal quale si congeda con le parole: Remember me. And be ... content. Abbi il coraggio di vivere e di assumerti la responsabilità di trovare la tua strada per la felicità… e ricorda chi ti ha dato la vita. Una madre non può salvare ogni figlio, perché questo dipende da lui. Ma può cercare di insegnare la strada per salvarsi. Radulphus si salverà e diverrà un uomo completo e sereno, nei limiti della una normale vita umana di un uomo non particolarmente brillante. Ma vivo e funzionante. E Radulphus serberà sempre l’amoroso ricordo di Radegunde.

Souls è reperibile in italiano nelle varie raccolte dei premi Hugo in cui sono presenti le opere premiate nel 1983, anno appunto nel quale ebbe il riconoscimento.

La novella in inglese:

domenica 24 aprile 2011

Sull’egoismo – note a margine di un racconto di Philip K. Dick (Cadbury, il castoro scarso - Cadbury, the beaver who lacked, 1971/1987)


I pensieri possono infine coagularsi in conseguenza degli eventi più disparati. Da giorni avevo appunto una parola e un pensiero installati nel cervello, premendo per prendere forma in qualcosa di compiuto. Una riflessione compiuta (che poi abbia anche senso è un’altra questione). Ciò che avviene intorno a noi ci stimola appunto a riflettere, e ultimamente l’osservazione mi porta alla ricerca di una definizione di egoismo. Poi un evento accade e il pensiero prende forma. Compiuta (sensata resta sempre un altro paio di maniche :-D).

Terminata la lettura di un libro è fin troppo facile perdersi alla ricerca del successivo. Iniziarne e abbandonarne diversi. Gioco forza si finisce allora a vagabondare tra le parole scritte: un articolo di una rivista, versi sparsi, una prefazione, un racconto.

Un racconto. Passando davanti a una delle poche librerie di casa ancora (abbastanza) in ordine l’occhio si sofferma sui quattro volumi de Le Presenze Invisibili, amorevolmente comprati uno per uno negli anni ’90. Tutti i racconti scritti da Philip Dick: è più o meno da allora che non li rileggo. Prendo il quarto, le opere – più rade – della maturità, e apro a caso. Non molto soddisfacente. Scorro allora l’indice e un titolo, completamente dimenticato, cattura la mia attenzione: Cadbury, il castoro scarso. Stendo un velo pietoso sulla traduzione italiana del titolo - in originale era Cadbury, the beaver who lacked - che oltre a suonare idiotamente comica viene a perdere il doppio significato che il verbo “to lack” invece sottolineava: le manchevolezze di Cadbury e il suo finale venir meno dal tessuto della realtà: un titolo squisitamente dickiano trasmuta così nel vanzineggiante.
Il quarto volume, dove è contenuto il racconto

Comunque. Nell’introduzione al volume Vittorio Curtoni spiega che si tratta di un racconto mai pubblicato in vita da Dick (dalle note dello stesso Dick risulta scritto nel 1971) e proposto per la prima volta all’uscita di The collected stories of Philip K. Dick nel 1987. Il Vic dice trattarsi di un’opera piuttosto eterodossa nel panorama dickiano, e di un capolavoro. In genere non ci sarebbe troppo da fidarsi da chi non ami Clifford Simak e lo consideri sonnacchioso, ma quando si tratta di Philip Dick di Curtoni ci si può fidare ciecamente. E infatti ha ragione.

Il Vic accenna, introducendo nel suo commento riferimenti a Poe e a Freud, sia allo sfaldamento del reale che alla perturbazione mentale, per altro i topoi più classici di Dick sebbene qui trattati in modo inconsueto, a partire dalla struttura del racconto che è quella di una favola allegorica. C’è ben poco di fantascienza a un primo sguardo (e forse anche a ben vedere), qui Dick elabora una metanarrazione della sua vita così spesso sgangherata e incasinata, della sua creatività compulsiva e totalizzante. E perciò alienante, che lo isolava dal resto dell’umanità. Di lì a poco Dick affermerà di essere stato “invaso” da una sorta di divinità benigna o qualcosa del genere, e insomma… se non è svertebrarsi del reale e psicologia disturbata questo.
Il primo volume

I due grandi temi portanti sono dunque ben presenti, ma il vero nucleo del racconto è senza dubbio tutto nella figura del protagonista, Cadbury, questo castoro che poi altri non è che Dick stesso – e forse l’identificazione tanto ovvia e scoperta e la rappresentazione per certi versi brutale di sé hanno comportato che questo racconto non venisse pubblicato se non nella raccolta postuma dei suoi racconti? Cadbury/Dick che, come dice sua moglie Hilda, è privo di “energia e spinta interiore”. Ed è incapace di un minimamente sereno rapporto con le donne: proprio come il rapporto di Dick con le donne fu assai problematico per usare un eufemismo; e così come nella sua opera affiora una sofferta misoginia. Sofferta perché non convinta, ma in certo modo subìta per l’incapacità di creare un rapporto maturo e paritario e dunque stabile.

E’ qui che il racconto e il tarlo di questi giorni sull’egoismo mi si sono fusi assieme. Non mi riferisco agli effetti evidenti, violenti e per certi versi banali dell’egoismo umano inteso come una pulsione brada e un sovrano disprezzo per l’Altro (un esempio inquietante e al tempo stesso anodino lo fornisce al solito il magico mondo dell’economia contemporanea: http://www.investopedia.com/articles/bonds/08/death-bonds-portfolio.asp). La vicenda del castoro Cadbury va invece oltre, più a fondo, alla radice interiore del sentimento egoistico.
Il secondo volume

In quanto membri della specie superstite del genere Homo, in quanto Homo sapiens, noi esseri umani siamo animali e in quanto tali soggetti agli istinti e alle pulsioni di tutti gli animali. Ma dovremmo (saper) vivere come se non fossimo animali. Non per altro, ma perché ne abbiamo le possibilità intellettuali e sarebbe utile a tutti - un “tutti” statistico, okay, chi si ingrassa vendendo mine antiuomo ha meno interesse nella questione di quelli che poi ci salteranno sopra. Questo richiederebbe una sintesi culturale superiore alle nostre - attuali? - possibilità come comunità umana. I tentativi fatti sono stati fin qui fallimentari e ancora più spesso deleteri. Le religioni non solo non si sono mai avvicinate a creare una vera cultura solidale ma come è implicito nel concetto di fede sono teoreticamente impossibilitate a farlo. Per fare un esempio più recente, il sogno titanico della psicanalisi di risolvere gli affanni umani direi abbia creato più problemi di quanti ne abbia risolti, soprattutto là dove essa è divenuta cultura dominante e infine moda. Il solo legato di valore, da Freud in poi, è la straordinaria quantità di capolavori letterari del ‘900 che hanno tratto ispirazione dalle varie formulazioni teoriche e prassi di lavoro. Dalle ristrettezze mentali di un sessuofobo misogino ottocentesco probabilmente non poteva sortire altra pianta sotto il profilo scientifico (ma teniamoci stretto il fiore letterario). Al netto del fatto che senza una comprensione davvero avanzata dei meccanismi neurofisiologici e biologici in genere, e un’accettazione psicologica profonda della nostra biologia, arrivare a comprendere la psiche umana è pura utopia. Figuriamoci curarla.

Per attenerci però a un livello più immediato, elementare (ma non semplificato) e individuale – e appunto più vicino alla radice dell’egoismo – la storia di Cadbury è illuminante. Perché vi è un aspetto decisivo al di là del fatto che Cadbury è un castoro, cioè un uomo, irresoluto e tendente alla fantasticheria fine a sé stessa; al di là del fatto che è vessato da una moglie stizzosa, non migliore di lui a conti fatti; al di là del fatto che lo psicanalista dottor Drat non gli serve a un tubo perché è tanto supponente quanto impotente; al di là del fatto che il suo incontro con Carol Stickyfoot ne mette a nudo la completa incapacità di instaurare un rapporto di mutua comprensione con i vari aspetti della femminilità incarnati da Carol (che si scinde materialmente in una rappresentazione al contempo parodistica e agghiacciante del simbolismo della Triplice Dea). Incapacità che arriva a quella dissoluzione materiale corporea di Cadbury cui facevo prima riferimento. Dissoluzione che nella dimensione di Philip Dick l’uomo è il venir meno della residua coerenza sua psiche: Cadbury, evidentemente inabile a resistere alla pressione del rapporto irrisolto e irrisolvibile, abdica alla realtà.  
Il terzo volume

Al di là di tutto questo, all’origine del dissidio di Cadbury con le donne, il resto dell’umanità, la società e in genere il tessuto stesso della realtà (psichica) vi è evidentemente il suo egoismo. Come è in genere anche per noi. Egoismo non come ricerca a ogni prezzo dei propri scopi ma come la causa e l’attitudine a ciò precedente: il fissarsi mentale unicamente su sé stessi. L’autismo emotivo che ci isola dall’Altro e non ce lo fa riconoscere come a noi simile. L’autismo, soprattutto, che ci porta a non condividere noi stessi. Che è il primo passo perché l’Altro possa a sua volta condividersi. A partire dal livello più banale, il negare le nostre confidenze, paure, speranze alla partner o al partner, all’amica o all’amico: a chi ci è più prossimo. Questa nostra avarizia ci condanna all’isolamento, e l’isolamento ci conduce alla sopraffazione: la dove non c’è comunicazione non c’è conoscenza e quindi non può esservi comprensione e mutuo riconoscersi. L’incomunicabilità è verbale, emotiva, spirituale. Incapacità di comunicare e comunicarsi. Ripiegando sul proprio ego, avviluppandocisi come nella ormai proverbiale coperta di Linus, la barriera che ci protegge e rende impermeabile l’esterno a noi, e noi all’esterno.

Cadbury nega la propria interiorità alla moglie; non è in grado di comunicare con il suo analista (che è altrettanto inetto), questo disperato surrogato contemporaneo del relazionarsi con l’Altro; e infine neppure sa davvero offrire la propria personalità per una comuni(cazi)one spirituale con Carol. Che si rivela altrettanto incapace di lui, sia chiaro (e di certo nell’ottica integralmente egoistica di Dick è escluso che il primo passo possa compierlo Cadbury: al massimo può pietirlo). Delle tre figure in cui Carol si scinde, solo quella che rappresenta la Madre mostra un barlume di affetto per Cadbury; ma è un affetto incondizionato, e per ciò stesso privo di reale comprensione. Non è un affetto per ciò che Cadbury è davvero, ma solo per ciò che Cadbury – il Figlio – rappresenta per la Madre: di nuovo una visione egoistica: anzi il suo paradigma. Mito puro, non realtà umana in atto.

Hic manebimus optime?


martedì 9 novembre 2010

Precursori – La giornata di un giornalista americano nel 2890 (Au XXIXe siécle ou La journée d’un journaliste amèricain en 2890 – 1889/1891 [a volte la data nel titolo è il 2889]) di Jules (1828-1905) e Michel Verne (1861-1925)


Pubblicato la prima volta nella sua traduzione inglese nel febbraio del 1889 sulla rivista americana The Forum, e solo nel 1891 in Francia a seguito di una lettura pubblica fattane da Jules Verne, questo racconto apparve a firma appunto del solo Jules, ma anche in base al carteggio dello scrittore con il suo editore francese Hetzel, oggi si riconosce in genere che la prima stesura di esso sia dovuta al suo unico figlio maschio Michel (per altro spesso indicato come il vero autore o al minimo co-autore dei romanzi postumi di Jules), sul testo del quale Jules sarebbe poi intervenuto rivedendolo estesamente. Una collaborazione così precoce tra il freddo e problematico padre (che era stato problematico figlio di un problematico padre) e il suo ribelle e problematico figlio rende molto interessante il racconto all’interno del corpus verniano.

Jules Verne è uno dei padri riconosciuti di quella che poi sarà la fantascienza del XX secolo, e in particolar modo dei filoni più legati all’estrapolazione scientifica e alla dimensione avventurosa, l’azione di veri e propri tecnocrati nella storia. La hard sf, sostanzialmente. Sebbene egli fosse principalmente uno scrittore attentissimo all’attualità scientifica più che all’estrapolazione, sebbene cioè egli inventasse poco in campo scientifico e si limitasse per lo più a portare all’estreme conseguenze la scienza della sua epoca, il ritratto è abbastanza fedele: anche facendo la tara al fatto che egli fosse in primo luogo uno straordinario narratore d’avventura, tra i più abili e capaci di affascinare. Lo scrittore contemporaneo che mi pare gli sia stato più vicino come caratteristiche è Michael Crichton.
Michel e il padre Jules Verne

I migliori romanzi verniani sono a testimonianza di quanto detto: da Michele Strogoff a XX mila leghe sotto i mari, dal Giro del mondo in 80 giorni a Viaggio al centro della Terra. E tra questi, anche quelli che contengono elementi chiaramente fantascientifici seducono e avvincono per la grandiosità avventurosa dello scenario o della concezione, oppure per il magnetismo di un protagonista come Nemo: non è per caso che i romanzi verniani sono pubblicati sotto l’etichetta di Voyages extraordinaires: in primo luogo, appunto voyages. Laddove la freschezza di questi suoi lavori migliori manca, anche il più fantascientifico e visionario dei romanzi di Jules Verne, Hector Servadac, per altro coevo del capolavoro Strogoff, difetta nel trascinare il lettore dalla prima all’ultima pagina.  

E sostanzialmente corretto è anche il modello di un Verne scrittore dell’ottimismo scientifico, cantore delle umane sorti e progressive. Non che Verne fosse cieco o che la temperie dei suoi tempi avesse completamente occupato la sua percezione del mondo, e negli ultimi anni della sua vita l’ottimismo si farà più riflessivo e maturo; più semplicemente non gli veniva meno la fiducia nelle potenzialità umane (certo, dalle potenzialità a ciò che poi l’uomo apparecchia per sé e i propri simili ce ne passa…).

Ecco allora che questo racconto, assai probabile frutto di un “soggetto” del figlio Michel accolto dal padre che lo ha sottoposto a una profonda revisione, costituisce la miglior presa di posizione critica di Jules nei confronti dell’ottimismo scientifico. Critica, non contraria. Jules Verne (attraverso l’ispirazione del figlio) ci appare consapevole come non mai della forza dell’innovazione tecnologica e della sua capacità di mutare la vita dell’uomo, e contemporaneamente consapevole del prezzo che l’uomo paga. E Verne - padre, figlio o padre e figlio che sia – ci appare ben cosciente del carattere di inevitabilità che il progresso (nel bene come nel male, ripeto) ha già assunto in quel 1889 in cui la storia fu pubblicata per la prima volta.

Il testo è comunque scevro di amarezza, e l’acuta consapevolezza della realtà filtra attraverso alcune rappresentazioni iperrealistiche fino alla deformazione grottesca di un entusiasmo per la conquista tecnologica che anticipa l’estetica futurista. Oltre che per alcune stilettate satiriche particolarmente feroci ancorché espresse con una leggerezza aerea:
 - Parfait. Et cette affaire de l'assassin Chapmann ?...Avez-vous interviewé les jurés qui doivent siéger aux assises ?

- Oui, et tous sont d'accord sur la culpabilité de telle sorte que l'affaire ne sera même pas renvoyée devant eux. L'accusé sera exécuté avant d'avoir été condamné...

- Exécuté... Electriquement ?...

- Electriquement, monsieur Bennett, et sans douleur... à ce qu'on suppose, parce qu'on n'est pas encore fixé sur ce détail.

Qui (e altrove) Verne si mostra attento osservatore e cosciente analizzatore dei legami stretti tra innovazione, società, economia, diritto e soprattutto mezzi di comunicazione. Il monsieur Bennett al quale si rivolge l’anonimo interlocutore nella frase qui sopra è Francis Bennett, padrone del più grande impero mediatico mondiale, e attraverso la sua struttura più potente, il quotidiano Earth-Herald (l’accuratezza delle previsioni della sf è un mito privo di rilevanza) è di fatto l’uomo più potente del mondo, presso il quale mendicano attenzione o denaro tutti, dallo scienziato brillante al plenipotenziario delle nazioni straniere al rappresentante delle popolazioni asservite. Bennett è una reificazione del potere quale Verne lo vedeva nel lontano futuro e a noi pare fin troppo contemporaneo: una sorta di Frankenstein che assembla però individui dello stesso genere: da Pulitzer a Hearst – e il Cittadino Kane – fino a Murdoch e Berlusconi. Un Frankenstein benevolo, sia chiaro, che incoraggia gli scrittori al suo soldo che non hanno abbastanza successo a prendere esempio da quelli che sanno dare al pubblico ciò che il pubblico vuole; che decida del futuro delle nazioni sedendo come in una sedia arbitrale dalla quale amministra la giustizia internazionale; che decide del futuro degli individui negando o concedendo il suo appoggio. Un Frankenstein, francamente, che questa lente deformante verniana ci restituisce nella sua sinistra deformità. Una deformità che non è dell’individuo: l’amabilità di Bennett è chiara al di là dell’alacrità da ape bottinatrice che ne fa l’epitome del workaholic. La deformità è del ruolo, della concentrazione di potere che l’uomo racchiude. Incontriamo così qualcosa che ci suona molto, troppo contemporanea: Francis Bennett eut rapidement expédié ceux qui n'apportaient que des idées inutiles ou impraticables. L'un ne prétendait-il pas faire revivre la peinture, cet art tombé en telle désuétude que l'Angélus de Millet venait d'être vendu quinze francs.

A fronte di queste e altre analisi che appaiono – o temiamo siano, come la precedente – profetiche, la miriade di invenzioni azzeccate o meno, disseminate nel corpo del racconto, e per lo più desunte da Robida, ci appaiono come il festoso colore che incornicia e rende più netti e sinistri i contorni di una storia che prefigura un futuro più grigio e problematico della sua copertina e di come la pubblicità sa propagandare. Seppure la sfiori soltanto e la sottostimi anche, l’influenza della pubblicità è chiara a Verne, così come i meccanismi attraverso i quali opera una multinazionale quale l’Earth-Herald; egli scrive: La salle adjacente, vaste galerie longue d'un demi-kilomètre, était consacrée à la publicité, et l'on imagine aisément ce que doit être la publicité d'un joumal tel que le Earth-Herald. Elle rapporte en moyenne trois millions de dollars par jour. Grâce à un ingénieux système, d'ailleurs, une partie de cette publicité se propage sous une forme absolument nouvelle, due à un brevet acheté au prix de trois dollars à un pauvre diable qui est mort de faim.
Jules Verne da giovane

A distanza di centoventi anni dalla sua concezione e pubblicazione questo racconto vede scolorire sempre più i suoi contenuti evidenti e di tutta superficie, quei contenuti che probabilmente fecero la fortuna dello scrittore. Ma vede soprattutto affiorare e divenire sempre più attuali, chiari, concreti e in grado di allungare nel futuro la propria ombra quei contenuti che più apparivano riposare tra le pieghe delle pagine verniane, invitando a una lettura attenta e a una riflessione ancor più consapevole.

Il racconto è leggibile a questo indirizzo: http://jv.gilead.org.il/feghali/e-lib/journee_journaliste_amer.html

Il Classico - Tentativo di fuga (Popytka k begstvu/Попытка к бегству 1962) di Arkadij Natanovich Strugatskij (1925-1991) e Boris Natanovich Strugatskij (n.1933)

La fantascienza non anglofona è poco conosciuta: in parte per ragioni di abitudine ormai consolidata, in parte perché il divario quantitativo la sommerge e la fa sparire, e in parte infine perché a volte è arrivato di tutto alla rinfusa; così, salvo Stanislaw Lem, anche gli autori di maggior
rilievo e interesse restano nomi abbastanza oscuri; tuttavia il film Stalker, tratto da uno dei loro libri, può aver dato qualche notorietà ad Arkadij e Boris Strugatskij, i principali scrittori russi di sf nella seconda metà del XX secolo, e tra i principali del campo.

  Utopisti che crearono via via distopie dove la speranza era sempre meno
presente: i fratelli Strugatskij volevano credere nelle umane sorti e
progressive, ma non hanno mai chiuso gli occhi di fronte alla realtà degli
uomini (e del paese dove vivevano). Tentativo di fuga è un breve romanzo (non un romanzo breve), ancora acerbo e segnato dalle ingenuità della loro prima produzione,
ma che ben mostra gli sviluppi futuri della loro narrativa, l'approfondirsi e il problematizzarsi della loro riflessione sulla storia umana.
Arkadij, a destra e Boris
   
  Scontate le ingenuità di cui dicevo, ne resta una storia di forti suggestioni filosofiche sulla natura umana. I tre personaggi principali sono ancora rigidi e mancano di una reale
autenticità, e tuttavia nel corso della narrazione gli autori sembrano
prendere la mano con loro e una maggiore confidenza con il loro carattere
lasciando infine intravedere delle vere personalità dietro la funzione che
assegnano loro. Quella che parte come una banalissima avventura di classica
esplorazione planetaria si trasformerà in un serrato confronto etico tra i
tre - Saul, Anton e Vadim.
  Sul pianeta, ribattezzato Saul in onore del misterioso coprotagonista, essi scoprono una civiltà umanoide la cui organizzazione sociale è al livello di un feudalesimo brutale e ignorante. Anton e Vadim provengono da una Terra di qui a qualche secolo, ormai pacificata: una terra di utopia, felicità conseguita e aspirazioni realizzate. Saul, si scoprirà, dal "nostro" XX secolo di devastazioni umane assortite. L'utopica felicità da cui provengono Anton e Vadim è quasi sicuramente un'utopia socialista, ma sin da questo romanzo è possibile
intravedere la posizione critica che gli Strugatskij elaboreranno nei  riguardi della visione ufficiale dello sviluppo inarrestabile del progresso umano sotto l'ala del socialismo: i forti elementi satirici delle loro opere dalla seconda metà degli anni '60 li porteranno a non essere ben visti, e da qui il rarefarsi della loro produzione e l'ulteriore incupirsi della loro
riflessione. Di fronte alla situazione degli abitanti del pianeta, Anton e Vadim reagiranno in modo diverso, ma accomunato da un elemento decisivo: la loro storia personale, la loro appartenenza ("adesione ideologica"?) all'utopia li rende incapaci di comprendere la situazione reale. E  l'interventismo benintenzionato soprattutto di Vadim ci appare come un ondeggiare tra illusione, stupidità e totale incomprensione. La tensione filantropica degli Strugatskij non chiude gli occhi di fronte all'evidenza della condizione umana, e riconosce le difficoltà del progresso sociale e i pericoli dell'ignoranza - dell'ignoranza dei meccanismi psicologici e sociali profondi delle organizzazioni sociali umane. Ma neppure l'uomo proveniente dal nostro tempo e dunque conscio di tali meccanismi, Saul, può offrire risposte. Può offrire in realtà solo la coscienza, o meglio la propria convinzione, che la storia debba seguire il  proprio corso e non possa essere forzata; ma proprio per questo alla fine andrà in pezzi, o più precisamente avrà un'esplosione di furore incontrollato: il suo "tentativo di fuga" dal passato sanguinario si risolverà nell'incontro con un presente altrettanto sanguinario, e sfocerà  nella decisione di tornare indietro. Chissà, forse per fare seguire alla storia il suo corso. Perché, come dice: E' un peccato, un vero peccato che non si possa eliminare con un solo colpo tutta l'ottusità e la crudeltà senza distruggere anche l'uomo: un concetto evolutivo e non rivoluzionario, che Saul metterà in atto dopo essere andato momentaneamente in pezzi, tornando al proprio tempo per contribuire a mettere il proprio mattoncino lungo la faticosa strada dell'eliminazione di ottusità e crudeltà. Nel loro schematismo, Saul, Anton e Vadim hanno come dicevo dei guizzi di autenticità: i due autori sono tutt'altro che digiuni della tradizione letteraria russa e lo mostreranno chiaramente negli anni seguenti; il romanzo ha un ritmo pacato sconosciuto alla fantascienza anglosassone, ma il realismo con cui gli Strugatskij descrivono la "banalità" della miserevole condizione, soprattutto spirituale, degli abitanti di Saul sa emozionare, e non di meno far riflettere chi non si soffermi alla lettura più superficiale.


  Il romanzo è stato pubblicato nel 1988 nella collana Albatros degli Editori
Riuniti - insieme a un romanzo più recente dei fratelli russi, Lo
scarabeo nel formicaio
, che dà il titolo al volume - in una traduzione più
aggiornata rispetto alla sua prima pubblicazione italiana, del 1966, sul
primo numero della rivista "Fantascienza Sovietica" con il titolo Fuga nel
futuro
. Il titolo della seconda edizione è però più sottilmente centrato e
rende giustizia al contenuto del romanzo.

Per chi conosca il russo, il testo è disponibile qui: http://rusf.ru/abs/books/pkb00.htm

lunedì 8 novembre 2010

I contemporanei – Pallida la tua pelle, rosso il tuo sguardo (Blafarde ta peau, rouge ton regard 2000) di Roland C. Wagner (1960-2012)


Della ricca messe di romanzi e racconti scritta da Roland Wagner in quasi un trentennio di carriera (wikipedia riporta il dato di una cinquantina dei primi e un centinaio dei secondi) in Italia non è giunto che un paio di romanzi pubblicati su Urania, una manciata di racconti pubblicati in appendice ai medesimi, e questo splendido racconto apparso nel 2004 sul n.43 della nuova serie di Robot. Poi più nulla.

A giudicare da questa suggestiva storia (leggibile in francese qui:  http://www.noosfere.fr/heberg/rcw/extraits/blafarde.htm) è un peccato, anche se la bibliografia sul sito dell’autore mostra anche una nutrita serie di opere con tutta evidenza parecchio alimentari.

Suggestivo è forse un aggettivo che suona banale, ma è anche un vocabolo che esprime con accuratezza le sensazioni che provoca la lettura del racconto dell’autore transalpino. Esso è genuinamente di fantascienza, ma questa sua caratteristica scolorisce rispetto appunto alla capacità di evocare suggestioni nella mente e nello spirito del lettore. E’ difficile scorrere alcune pagine della breve storia senza provare sentimenti contrastanti o brividi di turbamento. Senza provare malinconia e nostalgia irrazionali per qualcosa che il racconto narra come perduto e che inconsciamente forse sentiamo come sia facilmente smarribile anche da noi stessi. Senza sviluppare una profonda sim-patia con Sandra e con Regard, con i lupi e con gli agnelli.

Il tempo si è fermato. Fermato fino al livello del movimento degli elettroni. Come un’immota e definitiva entropia. Come se la morte stessa fosse morta:  À l'entrée d'un hameau, un adolescent rieur serre la main osseuse d'un squelette gisant à terre, vêtu d'une robe à fleurs. Je ne peux m'empêcher d'imaginer la jeune fille prisonnière, incapable de se dégager de l'étreinte de son amoureux, s'affolant, cherchant tout d'abord à écarter les doigts pétrifiés, voire à les briser, puis frappant, martelant la chair rigide, en pleurs, se débattant de longues heures avant de s'effondrer dans une position de total découragement, attendant la mort désormais inévitable...

Se riflettiamo sul fatto che probabilmente le costanti universali della fisica che regolano il nostro universo (e che sono esattamente quelle costanti che rendono la vita possibile per come è) non sono rimaste immutate nel tempo – e potrebbero non restarlo – l’ipotesi di Wagner, per quanto fantasiosa, assume coloriture abbastanza ansiogene. A questo tempo cristallizzatosi sono però sfuggite delle sacche dove il suo tessuto e con esso la vita è rimasto inalterato (anche se la povera ragazza ischeletrita della sequenza prima riportata non è riuscita a sottrarvisi completamente…). O meglio è rimasto, ma mutato. Circa un essere umano su trentamila sarebbe sopravvissuto al congelamento del tempo. Sparuti individui si aggirano dunque tra statue immote non più viventi e non disfatte dalla morte, a volte sorprese nel sonno e altre volte nel compiere un tuffo che non porteranno mai a compimento. Individui sparuti e affamati. Lupi e agnelli. Sandra è una lupa, smagrita, affamata, alla disperata ricerca di un agnello di cui cibarsi. L’evento che ha terminato pressoché ovunque il tempo ha comportato cambiamenti anche per gli individui e lo cose scampati ad esso. Un essere umano che abbia avuto la ventura di imbattersi in una delle pochissime derrate alimentari sfuggite alla fine del tempo cibandosene, non potrà in futuro che alimentarsi in tal modo. Al converso, se come Sandra il primo cibo dopo l’apocalisse temporale fosse stata la carne di un altro essere umano che ha eluso l’evento, qualunque altro cibo verrebbe poi rifiutato dal corpo. Agnelli i primi, lupi i secondi. Può sembrare brutale – è brutale – ma è anche più pulito di quanto non accada con le educate forme di cannibalismo che da millenni gli esseri umani praticano nei riguardi dei propri simili attraverso le innumerevoli forme di sfruttamento dell’altro, forme che in genere ci si premura di legalizzare fino a trasformare in criminali chi vi si ribella. I lupi uccidono per sopravvivere, gli uomini sanno farlo benissimo per comprarsi l’ultimo modello di Ferrari. E’ chiaro che l’esposizione del tabù nella sua forma più estrema e primitiva ci sconvolge molto di più: un uomo mangiato da un altro uomo è un orrore molto più grande di milioni di uomini privati della dignità, ridotti alla fame e falciati da essa e dalle malattie a seguito di una firma su un trattato commerciale. Giusto?

Ovviamente questi agnelli del racconto sono pur sempre umani, e certi lupi possono fare una fine molto brutta.

Sandra è divenuta una lupa quando uno dei due uomini ai quali si era unita alla disperata ricerca di qualcosa di commestibile subito dopo la fine del tempo, indebolito dalla fame era caduto dall’alto di una scala morendo. Sandra e il suo altro compagno, alla fame, se ne erano cibati. Poi l’altro compagno avrebbe assalito Sandra che sarebbe riuscita a spacciarlo prima di venire sopraffatta. La donna inizierà quindi il suo vagabondaggio alla continua ricerca di agnelli che le permettano di sopravvivere.

Regard la incontra all’inizio del racconto. Sandra è ridotta pelle e ossa, praticamente è già morta anche se la sua volontà le dà la forza per trascinarsi e lottare ancora. Regard è un fantasma. Una proiezione, come si vedrà in seguito. In un universo tanto sconvolto al livello più basicamente fisico anche una proiezione può sviluppare sentimenti a partire dalle sue memorie artificiali, restandone turbato e avvinto. Anche un osservatore, anche lo sguardo freddo di una scienza sopravvissuta alla morte dei suo agenti può farsi caldo, può scegliere di diventare attore del dramma. Può soffrire per le scelte che compie. Ma non può fare altro che decidere di partecipare; incidere sugli eventi è al di là delle sue facoltà. Quando l’ultima estensione della scienza umana fronteggia una situazione nella quale gli esseri umani sono regrediti allo stato più primitivo ed elementare della loro esistenza essa si trova priva degli strumenti per decidere. Non è per caso che Regard non ha mani reali per afferrare (né carne per sacrificarsi e nutrire la sua lupa). E’ perché le decisioni – e la speranza – tornano ai depositari primi: gli esseri umani. Ed è una tenue nota di speranza a chiudere il racconto, come potete leggere all’indirizzo più sopra linkato. Anche disceso al suo livello più ferino l’uomo può ribellarsi ai suoi istinti più rozzi e immediati. Pur che lo voglia.
 L'antologia dove fu originariamente pubblicato il racconto.

Mi sono forse dilungato troppo sugli elementi narrativi, pur interessanti e in grado di suscitare emozioni e riflessioni tutt’altro che banali. Ho trascurato però in tal modo le caratteristiche di maggior forza del racconto. L’andamento dolente e misurato della scrittura; la notevole abilità di Wagner nell’evocare scene di gran fascino e indurre così una vasta gamma di emozioni dalla più tenue nostalgia al pieno raccapriccio; l’incisività dei due personaggi, Regard e Sandra, così rapidamente schizzati ma dei quali ci fa intuire con nettezza di contorni l’anima profonda; la ricchezza simbolica compressa in poche pagine, quasi riassuntiva della storia umana, delle aspirazioni della nostra specie e delle sue potenzialità e dei suoi fallimenti e successi.

Un racconto più facile da leggere che da raccontare.

domenica 7 novembre 2010

Il Classico – Biip (Beep 1954) di James Blish (1921-1975)


James Blish è stato uno dei Grandi; e, tra loro, uno dei meno fortunati. Il suo esordio avvenne nel 1940, in quel torno di tempo che vide l’inizio delle carriere di tutti i Futurians, il gruppo di giovani fan newyorkesi rapidamente trasformatisi in scrittori, editors e addetti ai lavori vari nel campo della sf, e di cui facevano parte, oltre a Blish, Isaac Asimov, Fred Pohl, Cyril Kornbluth, Damon Knight, Don Wollheim. Per citare i più noti. Tra la fine degli anni ’40 e quella del decennio successivo Blish visse la sua stagione creativa più felice, in special modo per l’alta qualità raggiunta dalla sua narrativa; stagione che culminò nel 1958 con la pubblicazione del suo romanzo giustamente più noto e reputato: A case of conscience (tradotto in italiano con il titolo idiota di Guerra al Grande Nulla, il romanzo è l’espansione di una novella scritta in precedenza). Il romanzo ricevette il premio Hugo l’anno successivo ed è spesso citato come uno dei migliori esempi di fantascienza religiosa. Ciò che è vero ma non esaurisce i motivi di interesse di un’opera che esplora ugualmente con i migliori risultati le tematiche della conoscenza, argomento tra i più cari all’autore, e mette in scena quel caso di coscienza richiamato dal titolo originale con forte tensione morale. A case of conscience è anche il primo tassello di una tri/quadrilogia incentrata sui temi della conoscenza e svolta attraverso i generi letterari: Doctor Mirabilis, il romanzo successivo è infatti un romanzo storico sulla vita di Roger Bacon, mentre i due ulteriori romanzi, Black Easter e The Day after Judgment, che Blish considerava un’opera unica, sono sostanzialmente fantasy.

All’epoca felice della carriera e della vita di Blish risale anche Galactic Cluster, l’antologia del 1959 che raccoglie la sua miglior narrativa breve del decennio e nella quale è presente la novelletta Beep. L’antologia è stata tradotta in Italia nel 1977 da Fanucci con il titolo Prigione senza sbarre, presentando la terza (e a tutt’oggi mi risulta ultima) pubblicazione di Beep nel nostro paese, per la prima volta con il titolo mutato in un più italico Biip.

Con gli anni ’60 la carriera di Blish prese a declinare sebbene occasionalmente abbia continuato a produrre quella sua narrativa così rigorosa, stilisticamente e intellettualmente, quelle sue storie così ardite e inesorabilmente accurate e logiche. E abbia continuato a riscrivere ciò che aveva già scritto, in uno sforzo maniacale di precisione e perfezione: Blish, che come William Atheling jr. è stato uno dei critici più implacabili del campo, riservò sempre anche a sé stesso (anzi in primo luogo a sé stesso) tale implacabilità. Il cancro che lo colpì, prima alla gola e poi ai polmoni, e lo avrebbe portato alla morte e la propensione all’alcool resero molto più amari del dovuto quei suoi ultimi anni.

Beep è uno splendido esempio della fantascienza blishiana, ancorché risenta degli stilemi dell’epoca e in modo non brillantissimo di certa narrativa hard-boiled (il racconto è strutturato come una spy-story). Seppure i personaggi della novelletta siano poco più che manichini, meri agenti della trama viene da dire, nel complesso la novelletta non ne patisce. Essa infatti dà conto come meglio non si potrebbe della definizione della fantascienza quale narrativa di idee. E un’idea, di grande forza intellettuale sebbene non sia certo una novità, è al centro della storia. Nonché della Storia. In El dìa que hicimos la Transiciòn, il racconto di cui scrivevo nel post precedente, la scoperta del viaggio nel tempo crea la moltiplicazione all’infinito delle linee temporali; in Beep, Blish fa invece seguire alla scoperta della possibilità di conoscere il futuro il sigillo della certezza che il tempo è immutabile, il futuro già tutto scritto e svolto fino alla fine del tempo. Un tempo che a questo punto ci appare non lineare, sincronico. La presenza (anzi è qui che avviene la scoperta) del Trasmettitore Dirac, grazie al quale è possibile ricevere comunicazioni dal futuro, assegna Beep a quella serie di storie, tra le quali molte delle migliori dell’autore, che vanno a comporre una tenuemente connessa storia futura dell’umanità, un tratto che accomuna Blish a moltissimi altri grandi autori della sua generazione, in particolare Heinlein, Asimov e Anderson.
Illustrazione di Ed Emshwiller per la prima pubblicazione di Beep (Galaxy del febbraio 1954)

Il Trasmettitore Dirac, permettendo di ricevere comunicazioni dal più lontano futuro pare realizzare il sogno dell’onniscienza. Ma essa continua a sfuggire tra le dita dell’uomo (ed è un bene, immaginiamo, per quanto in tale situazione possa risultare frustrante): non è ovviamente possibile, infatti, conoscere ciò che non viene registrato dal Trasmettitore. Tanto l’idea di questa onniscienza frustrata quanto il ferreo determinismo di un tempo che altro non è se non un destino immutabile sono concettualmente affascinanti. Un determinismo, per altro, che spezza una delle nostre coordinate mentali più decisive: il rapporto di causa-effetto; quantunque un determinismo apparentemente (o realmente?) incompleto, poiché ciò che non è registrato dal Dirac resta sconosciuto e perciò apparentemente (o realmente?) demandato alla libera volontà umana. Se il tempo è già determinato una volta per tutte, non esistono cause né effetti, ma soltanto eventi: sui quali la volontà umana non ha potere (ma quelli che restano ignoti?), mentre invece la nostra coscienza osserva e compulsa gli eventi elaborando le giustificazioni razionali ad essi in foggia di cause (ed effetti). Come afferma Dana Lje, la scopritrice del modo di utilizzare il Trasmettitore Dirac quale occhio sul futuro, si possono “inventare” tante giustificazioni sul perché sia stata lei a scoprirne il meccanismo e non il Servizio (segreto), ma la sola vera è che ella l’ha scoperto… perché l’ha scoperto. E il Servizio non l’ha scoperto perché non l’ha scoperto. Anche in Beep, però, come nel racconto di Romero e de la Casa, è la scoperta a determinare in qualche modo il futuro. Se nel racconto dei due autori spagnoli essa comporta lo sfarinarsi del tempo futuro in una infinità di possibilità e la necessità di salvaguardare l’unico passato dalla sua riscrittura, nella novelletta di Blish essa non soltanto apre il futuro (una parte del futuro) alla conoscenza, ma instaura la necessità (nel senso di inesorabilità) della continua esplorazione del futuro poiché esso, essendo già determinato, non può che essere attuato dagli uomini attraverso la conoscenza che essi acquisiscono dal Trasmettitore Dirac. Dana Lje consegna al Servizio le sue conoscenze il giorno e l’ora in cui era previsto che ciò accadesse, e il Servizio diventerà l’apparente custode dell’umanità, della sua espansione nello spazio e del suo successo: in una delle scene iniziali della storia il Servizio respinge una poderosa invasione aliena della Galassia con facilità irrisoria: nulla di strano se si pensi che erano al corrente da secoli di tale evento. In realtà il Servizio non svolge altro che un attività notarile certificando l’esattezza di quanto è già scritto nel futuro. Un notaio apprensivo che si fa scrupolo di verificare l’esatto svolgersi di ogni minimo evento registrato nel Trasmettitore Dirac, non importa quanto triviale esso sia. Perché, come dice uno dei personaggi, Krasna: Our interests as a government depend upon the future. We operate as if the future is as real as the past, and so far we haven't been disappointed: the Service is 100 per cent successful. But that very success isn't without its warnings. What would happen if we stopped supervising events? We don't know, and we don't dare take the chance. Despite the evidence that the future is fixed, we have to take on the role of the caretaker of inevitability. We believe that nothing can possibly go wrong . . . but we have to act on the philosophy that history helps only those who help themselves. E’ davvero così deterministicamente certo il futuro? ;-)

La prosa di Blish, laddove non concede alla moda hard-boiled dipingendo personaggi glamour come l’improbabile Dana Lje e mettendo loro in bocca parole e frasi che suonano oggi abbastanza insulse, è accurata, misurata e a tratti solenne. Gli inserti scientifici si leggono scorrevolmente sebbene necessitino della debita attenzione. Blish era di formazione un biologo specializzato in zoologia, ma a suo agio con le scienze in generale; e come scrittore abilissimo a trarne storie che coniugavano un talento visionario fuori del comune con il rigore dell’uomo di scienza. Ne è una splendida testimonianza il volume The seedling stars che raccoglie alcune storie di esplorazione e adattamento umani in ambienti tra i più diversi, tra le quali vi è il racconto Surface tension, uno dei migliori risultati della carriera di James Benjamin Blish.



sabato 6 novembre 2010

I contemporanei - Il giorno che attraversammo la Transizione (El dìa que hicimos la Transiciòn - 1997) di Ricard de la Casa (n.1954) e Pedro Jorge Romero (n.1967)


 Ma prima parliamo di traduzioni. No, non la vexata quaestio di Urania ;-). Questa volta non c’entra la già miserevole pratica di tagliare i romanzi in sede di traduzione che diviene miserabile per la slealtà di non segnalare il fatto in copertina.

Vorrei invece gettare uno sguardo più articolato alla questione. E’ infatti appena uscito in edicola l’Urania Millemondi n.53, Pianeti dell’impossibile, che presenta la seconda edizione dello splendido racconto scritto dal catalano de la Casa insieme allo spagnolo Romero. Il Millemondi traduce il volume The SFWA European Hall of Fame, antologia di fantascienza europea non anglofona curata nel 2007 dagli americani James e Kathryn Morrow. In precedenza, il racconto era apparso nel 2007 nell’Urania Millemondi n.44, Venti galassie, traduzione dello Year’s Best SF 9, curato da David G. Hartwell e Kathryn Cramer e pubblicato nel 2004 con riferimento ai migliori racconti apparsi in inglese nel 2003. Le due versioni italiane sono molto diverse e il loro valore appare diseguale. Chiarisco subito che non è questione di tagli né necessariamente di una maggiore o minore capacità dei due traduttori italiani: a quel che si può capire le due versioni dovrebbero far capo alle due differenti edizioni anglofone (di cui non trovo il testo in rete) e non al racconto originale in spagnolo, leggibile qui: http://archivodenessus.com/cuento2.htm. Le differenze e la disparità di valore potrebbero dunque essere benissimo attribuite all’origine, alle traduzioni in inglese. Non sono però queste due specifiche traduzioni di uno stesso racconto ciò su cui vorrei portare l’attenzione; tuttavia, data l’occasione, esse si prestano bene per un paio di riflessioni più particolari.

Una riflessione, più generale, vorrei riferirla allo stile. La traduzione più recente si presenta nel complesso come molto più leggibile e stilisticamente più elegante, eppure a ben vedere non è del tutto soddisfacente proprio come l’altra. Più breve della precedente, caratterizzata da un linguaggio più asciutto e pochi fronzoli, con un vocabolario più accurato e che rende il senso della storia e delle frasi con maggior chiarezza sembrerebbe quel tipo di traduzione “scorrevole” e “fluida” per cui i lettori dovrebbero ringraziare se magari il testo originale viene tagliato. Si badi bene, in realtà, che a parte minime discrepanze il contenuto di informazioni delle due traduzioni non presenta differenze: non più che qualche dettaglio minimo, e senza che vi sia uno sbilanciamento in favore della traduzione più lunga. La differenza, a leggerle, sembra proprio tutta stilistica: la traduzione più vecchia è molto più discorsiva, a tratti dispersiva e senza dubbio prolissa; in genere si presenta come abbastanza sciatta e in alcuni punti poco chiara. A prima vista pare anche più aderente al racconto originale, ma non conosco lo spagnolo da potermici addentrare più di tanto. Al di là di questo, però, recupera terreno rispetto alla seconda che in italiano fila indubbiamente meglio perché lo stile, fatta la tara alla sciatteria (che possiamo attribuire al traduttore, inglese o italiano non ha importanza), è più aderente alla materia del racconto. La scorrevolezza è senza dubbio una qualità, ma non assoluta da doverle sacrificare ogni cosa; la nuova traduzione è dinamica, sintetica e adatta all’azione quanto l’altra è statica, prolissa e ricca di distrazioni: il fatto è che in El dìa que hicimos la Transiciòn l’azione, pur presente, è del tutto vicaria rispetto al contenuto speculativo e riflessivo. Se la scarsa cura della traduzione meno recente disturba e a tratti si fa oscura, la nuova traduzione troppo spesso dà la sgradevole sensazione di sfuggire tra le dita e tralasciare di soffermarsi su particolari salienti, anche se l’indubbia eleganza attenua il rammarico.
Ricard de la Casa e Pedro Jorge Romero (primo e terzo da sinistra) insieme agli fondatori della rivista BEM

Una seconda riflessione più circoscritta vorrei riferirla alle scelte del traduttore. Nel racconto originale compare questa frase: Me veía moverme, Isabel parándolos y yo aturdiendo al primero, Isabel al segundo, yo al tercero. Interviniendo la bomba. Inizialmente è tradotta così: Mi vidi avanzare, poi vidi che Isabel li fermava e io stordivo il primo, Isabel il secondo, io il terzo, afferrando la bomba. Nella seconda diviene: [Me veìa moverme, Isabel paràndolos è soppresso avendo formulato in modo leggermente diverso la frase precedente] Io ne stordisco uno mentre Isabel ne atterra un altro, dopo di che stendo il terzo e insieme afferriamo la bomba. Più elegante ed efficace, senza dubbio: ma perché insieme afferriamo la bomba? Mi sembra una forzatura interpretativa eccessiva, per quanto non impossibile. La frase originale mi pare più indeterminata, e anzi nel prosieguo della scena Mikel, l’io narrante, studia da solo l’oggetto tenendolo in mano; è dunque più probabile che sia stato lui ad afferrare la bomba da solo e non con Isabel. Un’inezia, certo, però quante inezie ci sono nel corpo di ogni traduzione? E’ ovvio che ogni traduzione è rimessa all’interpretazione del traduttore, ma quanta di questa interpretazione deve sconfinare dallo stile (e già qui…) e dal senso generale alla lettera del testo?

 Venendo al racconto, esso nella sua impostazione generale è una classica storia di viaggi nel tempo, e più precisamente si inserisce in quel filone di storie dove agiscono corpi di “polizia temporale”. La fantascienza classica americana ha prodotto in materia il capolavoro asimoviano La fine dell’Eternità e i cicli di Poul Anderson e H. Beam Piper rispettivamente della Time Patrol e del Paratime (di cui fa parte il romanzo Lord Kalvan d’Altroquando, uno dei migliori sull’argomento). Ricard de la Casa e Pedro Jorge Romero scrivono una storia degna di quel miglior Asimov, scientificamente rigorosa, intellettualmente affascinante e ardita, e in poche pagine creano due ritratti umani credibili e approfonditi. E soprattutto delle psicologie che appaiono credibili in relazione alla situazione narrata. Psicologie che immaginiamo davvero possano venir plasmate da vite (multiple) come quelle di Isabel e Mikel se mai dovessero esistere. E tuttavia ancora perfettamente credibili come una donna e un uomo di ogni tempo.

Il 7 agosto del 2012 la formulazione della teoria Temporale rende possibile il viaggio nel tempo (passato) ma spacca anche in due la storia: prima di quella data esiste un solo piano temporale, di lì in poi il continuum si frantuma in milioni e milioni, miliardi di linee divergenti, quale più e quale meno. Il Corpo di Intervento Temporale sorveglia che l’ortodossia della storia ante 7 agosto 2012 non venga infranta da criminali temporali. Isabel e Mikel fanno parte della sezione del Corpo che sorveglia la storia spagnola. E il periodo più sottoposto ad attentati temporali è quello della Transizione, il delicato lasso di tempo dalla morte di Franco al tentativo di golpe operato da Tejero, quando la reazione ad esso consolidò in modo definitivo le istituzioni democratiche.

Nel suo contenuto d’azione e di trama, il racconto si riduce alla narrazione di un’operazione della squadra capitanata da Isabel per riportare la storia sui suoi binari noti dopo che dei criminali avevano assassinato Santiago Carrillo provocando devastanti deviazioni della linea temporale. Nel corso dell’azione Isabel morirà. Tutto qui. Ma il vero racconto avvolge questo nucleo, lo pervade e al contempo vi si fa contenere. I due autori sono abili a far emergere da questa minima trama il rapporto tra Isabel e Mikel. Tra le Isabel e i Mikel. Ovvero i molti, infiniti rapporti, tutti variazioni di una relazione portante che si sfarina in quelle degli infiniti Mikel e delle infinite Isabel che di morte in morte rinnovano la propria conoscenza, tornando ogni volta a conoscersi in un modo che al contempo è il solito e ogni volta è diverso. Dalle infinite linee temporali post 7 agosto 2012 viene infatti reclutata, a ogni morte, un’altra delle infinite versioni di ciascun agente temporale. E così ci sarà sempre un Mikel che andrà a reclutare una nuova Isabel mentre ancora sta piangendo la morte della compagna o dell’amica (a seconda di come si è evoluto il loro rapporto speciale nella specifica occasione). Oppure ci sarà una Isabel che farà lo stesso con un Mikel. Ma se le realtà sono infinite, esiste ancora una realtà? Credo che Philip Dick avrebbe apprezzato un racconto come questo. Il lettore apprezzerà invece l’emergere di un Mikel cosciente del suo essere una tappa in una successione di identità sempre diverse e sempre uguali. Un Mikel che si prepara ad affrontare per la prima volta la sua condizione normale di Mikel: la ripartenza del suo rapporto con Isabel dopo la morte – una morte – di costei.
 L'antologia Cosmos Latinos dove il racconto è apparso in inglese per la prima volta