domenica 3 maggio 2009

[fantascienza] Precursori - La voce nella notte (The voice in the night - 1907) di William Hope Hodgson (1877-1918)


Centodue anni, ma una freschezza ancora invidiabile. Forse è il fascino delle avventure di mare, la simbologia sottesa a un ambiente che è estraneo all'uomo e pericoloso, ma lo attrae con forza; creando in tal modo una mitologia - e un impulso mitografico - caratterizzati da potenza dell'immaginazione e fascinazione del pericolo. Lo stile risente in parte del tempo trascorso; un'enfasi retorica che oggi appare eccessiva e in qualche misura infastidisce nella lettura fa bella mostra di sé nelle pagine del racconto. Tuttavia Hodgson si dimostra narratore abile e sicuro, perfettamente in grado di avvincere il lettore con una storia che si rivela ancora godibilissima grazie a una lingua chiara, descrittiva, ed evocativa; grazie a dialoghi semplici ma carichi di pathos.

Quello di Hodgson è stato un nome importante nella letteratura fantastica popolare all'inizio del XX secolo. L'autore britannico è noto soprattutto per i romanzi The House on the borderland e The Nightland, e per il ciclo di racconti sul detective dell'occulto Carnacki. The voice in the night è di gran lunga la sua storia breve più nota, e dà conto molto bene della fama dell'autore. Trasposto due volte per il cinema (Matango: Attack of the Mushroom People di Inoshiro Honda, e Suspicion, in realtà un tv-movie con James Coburn); e in un episodio di Alfred Hitchcock presenta, il racconto è lineare, semplice, quasi descrittivo. "It was a dark, starless night" è il prosaico e perfetto incipit, che prosegue con la rapida evocazione di un'atmosfera di attesa presaga, la descrizione di una piccola imbarcazione immobile nell'immensità desertica dell'oceano, immersa in una nebbiolina indistinta. Grazie anche all'efficacia di questo stile, pur se inficiato da un tono che oggi ci appare permeato da una sovrabbondanza di sentimentalismo, il lettore può apprezzare una narrazione priva di orpelli e centrata sulla sostanza: Hodgson racconta una storia, senza preoccuparsi di fare grande arte o di architettare complesse sovrastrutture letterarie. Però racconta molto bene. Perché non starà architettando, ma maneggia con competenza, gusto e incisività il patrimonio mitico del viaggio, e del viaggio per mare, che è il cuore della Grande Avventura. E con esso mostra di far uso con sapienza, da smaliziato produttore di storie per i pulp magazines di entrambe le sponde dell'oceano, dei meccanismi del racconto del mistero, dell'orrore, e di fantascienza. Fantascienza che allora non esisteva, di nome, ma esisteva in gran copia di storie sulle pagine di quelle riviste, che furono il terreno di coltura da cui essa si sarebbe dipartita come genere commerciale a sé.

Increspato di corpose venature orrorifiche, e in particolar modo caratterizzato da un tono di attesa, di angoscia e di progressivo raccapriccio (fino al brevissimo disvelamento finale), The voice in the night resta in tutto e per tutto una storia di fantascienza. Il racconto si inserisce nel filone dei misteri - e orrori - naturali, figlio diretto di una scienza che spiega sempre di più, ma negli interstizi della quale restano pur sempre quelle zone d'ombra dove lavora la fantasia dell'uomo, e dove si sprigionano le sue paure dettate da un controllo sulla natura che gli si rivela inconsistente nonostante le sue conoscenze. Dopo Linneo, la classificazione sistematica delle specie viventi è stato uno strumento eletto di controllo, e ancor più di conoscenza e quindi appropriazione della natura. Ancora oggi, ogni giorno o quasi, scopriamo l'incompletezza di tale lavoro, e scopriamo che questa incompletezza è probabilmente più vasta di quanto pensassimo. Vi è dunque ampio spazio per un racconto di fantascienza di un secolo addietro che immagini un fungo, un lichene (Hodgson utilizza entrambi i termini) che si rivela un parassita tanto aggressivo da mutare orrendamente gli esseri umani, e anche una droga in grado di influenzarne le azioni: un virus del corpo e della mente. Will e George, i due marinai della piccola imbarcazione bloccata dalla bonaccia, raccolgono da una "voce nella notte" una disperata richiesta di aiuto: cibo per l'uomo cui appartiene la voce e per la sua compagna, naufraghi su un'isoletta sconosciuta. Il naufrago, John, rifiuta di mostrarsi. In seguito, racconterà accorato ai due le vicissitudini vissute negli ultimi mesi, dal naufragio della nave sulla quale viaggiava all'approdo nell'isoletta, fino alla scoperta di tutta la portata della minaccia del fungo. John si allontana infine dalla barca di Will e George una volta terminato il suo racconto, andando incontro al suo destino. E' ormai l'alba, un raggio di sole squarcia improvviso la nebbia rivelandolo appena agli occhi dei marinai, virando un'ultima volta su un sentimento di pena e di pathos quella mestizia sui cui toni il racconto di John si era chiuso.

Semplice intrattenimento, ma tutto il mestiere di un narratore di grande abilità.

Il racconto fu edito in origine sul pulp The Blue Book Magazine; in Italia è stato pubblicato molte volte, da ultimo nell'Oscar Mondadori Il futuro era già cominciato, che ha tradotto l'eccellente antologia Science Fiction by Gaslight curata nel 1968 da Sam Moskowitz. Il racconto è disponibile online qui: http://gaslight.mtroyal.ca/voicenig.htm (se non dovesse funzionare: http://gaslight.mtroyal.ca./voicenig.htm)

martedì 21 aprile 2009

James Graham Ballard (1930-2009)

Ballard nella copertina del suo ultimo libro, l'autobiografia più intima.





L'accademia di Stoccolma evidentemente non ha ritenuto fosse così, ma quella di James Ballard è stata sicuramente una delle voci letterarie più acute e chiare del '900. Ballard si è espresso soprattutto attraverso la fantascienza, perché è lo strumento più acuto, chiaro e consapevole a disposizione di uno scrittore che voglia indagare le strutture mentali e sociali dell'uomo. E che abbia i talenti per farlo con l'umiltà del semplice narratore di storie e il genio dell'artista.


Grazie Maestro, per tutto quello che ci hai insegnato.

venerdì 10 aprile 2009

[fantascienza] Il classico: Come ladro di notte (1972) - di Mauro Antonio Miglieruolo (1942- )



Le riflessioni che seguono le ho scritte una decina d'anni fa. E non si tratta che di un personale tentativo di capire cosa Mauro Miglieruolo abbia voluto dire nella sua opera.

Molte le impressioni, molti i sentimenti che lascia questo libro. Perche' molte, verrebbe quasi da dire troppe, le idee profusevi. Miglieruolo - da gran signore e scrittore d'immenso talento - fa spreco di queste idee. Dall'impianto concettuale di questo romanzo, uno scrittore americano medio avrebbe saputo ricavare una terna di trilogie e gliene sarebbe restato d'avanzo per un'antologia personale; egli invece ci offre uno smilzo romanzo, denso e compresso fino all'inverosimile.

Una nota preliminare sulla scrittura e lo stile del romanzo: un linguaggio evocativo, fascinatore che da' corpo mitico al narrato (questo e' vero soprattutto nelle parti iniziale e finale). Risonanze bibliche percorrono le pagine dell'opera conferendole sapore epico (che' la bibbia, al di la' del significato di fede che ciascuno possa o meno attribuirle, resta uno dei capolavori del racconto epico). A titolo di esempio un breve passo che sembra quasi tolto dal vecchio testamento: Ora, Seele, Cartulario di Media, genero di Lillo, il Gran Conferenziere della Lega Austrina, era venuto a conoscenza di tutto ciò che il Giudice aveva fatto con la moglie; allora decise di togliersela dalla vista per non averla ad uccidere e venire alle strette con gli Austrini; ma non si decideva. Sembra davvero di leggere un passo della Genesi. Come sembra di leggere l'elenco delle navi dell'Iliade ogni volta che Miglieruolo procede a schiacciare la fantasia del lettore registrando meticolosamente il numero esagerato e spaventoso delle astronavi coinvolte in una battaglia, facenti parte delle flotte... Utilizzando questo flessibile, affascinante, strumento che e' il suo linguaggio, l'autore ci racconta una storia che e' insieme analisi delle strutture del potere, dell'amore, dei moventi ed intenti dell'Uomo. Una prospettiva globale, un romanzo che' e' anche un trattato di sociologia, una disamina di cio' che l'Uomo e'.

Come Vittorio Curtoni e Gianni Montanari scrivono nell'introduzione al vecchio albo di Galassia che contiene il romanzo, il n.159, esso e' stato scritto in una fase di transizione, di trasformazione, dell'autore. E questo si vede. Si vede nel gran numero di idee e personaggi calati d'improvviso nel vivo tessuto dell'opera e altrettanto rapidamente abbandonati (o quasi): Elio principalmente, questa sorta di nuovo messia che Zanzotto nel suo rigoroso e religioso tendere verso la Parusia e l'eliminazione della corruzione rappresentata dall'umanita', distruggera', salvo poi acquisire coscienza del valore dei suoi insegnamenti, fino ad accettare di innovarne il sacrificio (e con esso, il sacrificio di Cristo) nel finale del romanzo. E poi altre figure, dal Giudice a Silvena, al ministro Infanta e al discepolo Pangolo che - insieme - rappresentano il balletto eterno del potere che, dietro lo schermo delle ideologie, si contende il dominio sulle persone, come i nostri antenati cavernicoli si contendevano i territori di caccia migliori. Il potere, dicevo, e' al centro di questo romanzo, e da esso si dipartono le ramificazioni dei temi secondari. Potere nel suo piu' bruto ed immediato - e per questo nascosto, come anche nella realta' quotidiana - aspetto: il potere economico. Miglieruolo accenna di sfuggita alle piu' autentiche motivazioni della Parusia nel cap. XXVIII, rivelando per un attimo il cuore del problema, il meccanismo di quelle gigantesche ed incontrollabili forze che vanno oltre il singolo uomo e finiranno per schiantare il nobile e generoso tentativo di Zanzotto di aver ragione della Storia in nome dell'Uomo.

Il potere che Miglieruolo ci mostra e' quello delle strutture che il potere stesso usa per ammantarsi di rispettabilita', per narcotizzare gli uomini, per legarli al proprio carro e al proprio destino: l'ideologia, la propaganda, la religione, la politica, gli eserciti, il sesso stesso inteso come forma di potere del singolo sul singolo. Maestri di propaganda appaiono i membri della Congrega degli Inumani, abili ad usare l'ideologia della Parusia secondo moduli religiosi, tesi ad uniformare i cittadini, predisponendoli a divenire quei sudditi tutti uguali che rappresentano il sogno di tutti i Poteri. La corruzione di tutti e ogni ideale, operata da qualsiasi struttura umana, ci svela come ogni ideale sia futile perche' destinato a perdere rapidamente di significato per trasformarsi in mero strumento del potere. Una lezione amara, ribadita dal finale, con il parallelo Zanzotto/Cristo e il ripetersi del sacrificio dello stesso Cristo a rappresentare il continuo rinnovarsi degli errori e corruzioni dell'uomo, per quante occasioni di redenzioni egli possa avere. Non dimentica, pero', Miglieruolo, altri aspetti dell'animale uomo.

Romanzo globale, Come ladro di notte, ci mostra anche la scoperta dell'amore e (di riflesso e a completamento) del sesso come elemento di crescita prer l'uomo: il rapporto irrisolto Zanzotto/Silvena appare fondamentale nel rafforzare al massimo (se non nel far nascere) i dubbi del Coordinatore.

sabato 4 aprile 2009

[fantascienza] I contemporanei - I primi dopo gli antichi persiani (The First since Ancient Persia - 1990) di John Brunner (1934-1995)


Pubblicato su Intercom: http://www.intercom-sf.com/modules.php?name=News&file=article&sid=456


In questa breve novella John Brunner mostra con abilità come la figura del mad doctor sia passibile di evoluzione e aggiornamento ai nostri tempi senza perdere l'allure che le deriva dal brivido del proibito e dal carisma negativo che la caratterizza sin dal moderno prototipo frankensteiniano. Anzi, dal solido reticolo di riflessioni e riflessi scientifici, economici, geopolitici e sociali in cui Brunner l'avvolge, il professor Snider emerge via via vivificato: laddove il modello classico apparirebbe anacronistico, proprio l'attenta ricostruzione da parte dell'autore di una personalità, al passo con i tempi, di scienziato spericolato, perfettamente consapevole della e inserito nella temperie economica e politica della nostra epoca lo rende figura realistica e lo colorisce di ombre sinistre in modo diverso da un Frankenstein, ma più concretamente pericoloso. Anche gli assistenti del professore sono caratterizzati come scienziati e tecnici di oggi; così la storia che ne deriva assume quasi i toni del reportage appena drammatizzato per scopi narrativi. E moderno è anche l'eroe positivo - anzi l'eroina - che si contrappone a Snider. Una giovane donna americana, Elsa Kahn, indipendente e sicura di sé, abituata a girare il mondo in lungo e in largo e che incappa in Snider casualmente, nelle vaste piane della Pampa argentina. Una donna che, senza cedimenti di Brunner ad alcun fanatismo, immaginiamo e osserviamo sensibile agli argomenti politicamente più delicati dei nostri tempi: dall'equilibrio degli ecosistemi alle necessità alimentari mondiali; dalle relazioni internazionali a quelle interindividuali; dalle modalità della ricerca scientifica alla ricaduta delle sue applicazioni pratiche. Nulla di sorprendente: l'autore britannico è stato scrittore politico quanto altri mai. E se, economicamente stremato dopo il fallimento di vendite dei grandi (anche per mole) romanzi scritti tra la fine degli anni '60 e la metà dei '70, egli non è più stato incisivo sulla forma lunga, la lettura di questa breve novella è indicativa di come i suoi interessi speculativi non fossero cambiati, e di come le sue capacità di analisi ed estrapolazione non fossero certo venute meno. A confronto con le opere di allora vi è come un ammorbidimento stilistico, una adesione a modalità di scrittura canoniche e quindi tranquillizzanti per i lettori, ma i temi affrontati, la vis della denuncia e la lucidità critica sono ben presenti.
Come ben presente è il Brunner narratore, che sin dalle prime battute svolge il racconto con maestria. Veniamo introdotti nella vicenda con passo lento ma non rilassato: l'attenzione del lettore è risvegliata praticamente da subito dal tono ansiogeno delle scene iniziali, dal viaggio in autobus di Elsa in una Pampa desolata e opprimente, e desolata e opprimente in primo luogo dal punto di vista antropologico, come è chiaro da subito o quasi. Brunner scandisce un incipit da film dell'orrore: la giovane donna scende dall'autobus in un paesino che ci viene mostrato come il paradigma dell'arretratezza mentale, della miseria fisica e spirituale - e della paura per l'esterno, l'intruso, l'outsider incomprensibile per la gente del luogo: che sia una donna che viaggia sola o lo scienziato/stregone e la sua corte asserragliati nella loro fortezza; ma c'è qualcosa di più, lo si capisce e lo capisce Elsa. La risposta a cosa sia quel più, Elsa potrà averla solo nella fattoria sperimentale del professor Snider dove è costretta a rifugiarsi per sfuggire all'odio dei locali per quel che lei, donna indipendente, rappresenta; giungerà da Snider quasi morta, completando la prima parte della novella con il (momentaneo) rilascio della tensione orrorifica accumulata.

E' nella seconda parte della storia che Brunner innesta la fantascienza sull'horror e, lentamente, inavvertitamente, in modo chiaro quasi solo da ultimo, la fa prevalere come nucleo tematico. Ma il tono e la grammatica del racconto restano prevalentemente orrorifici, conferendo una robustezza e una forza d'impatto sul lettore che rafforzano con naturalezza la tesi che l'autore avanza: la continua, incessante, demente ricerca da parte degli uomini del potere che deriva da armi sempre più potenti: le buone o le cattive intenzioni perdono ogni rilevanza dinnanzi al nudo fatto. Le ultime battute della storia spiegano infine il titolo, fin lì rimasto incompensibile. Nel destino - che non rivelo - dei nuovi soldati Immortali (dal nome di quelli che formavano la guardia scelta del Re dei Re persiano) e con loro di tutta l'umanità, troviamo quella demenza: un destino perseguito nonostante la sua chiarezza. La catastrofe perseguita nonostante la sua matematica consequenzialità. Non è difficile scorgere un parallelo con la dissennatezza con la quale l'umanità gestisce da decenni il pianeta: anche qui le conseguenze, benché meno nette e più lente, appaiono chiare.


John Brunner (a sinistra) con Theodore Sturgeon

La rilevanza di questo core sociopolitico non vela per nulla il valore letterario della storia. All'angosciante e vivida descrizione della pianura argentina con i suoi paesi immiseriti e la sua abbrutita umanità pampera, Brunner fa seguire la claustrofobica e tecnologica ambientazione alla fattoria sperimentale, con la contrapposizione progressiva tra Elsa e Snider, spesso mediata dagli altri personaggi: la moglie di Snider Greta, Hutt e sua moglie, e soprattutto Felipe Diaz. Felipe che, con il giovanissimo Juan nella prima parte, è il personaggio più autenticamente letterario e che evade dalla logica funzionale del racconto. Per entrambi è caratterizzante il rapporto con Elsa, e particolarmente il confronto con il suo spirito di indipendenza e libertà e con il suo coraggio. Il destino dei due è tanto un tocco di - pessimistico - realismo sugli esseri umani, quanto una metafora - realistica - del meglio e del peggio di tutti noi. Entrambi sono più di questo: vittime - e non solo simboli, ma autentici esseri umani - di logiche in-umane.

La novella fu originariamente pubblicata sulla veneranda Amazing Stories e in seguito antologizzata nel colossale volume Supernovae, il Best of annuale del 1990 curato da Gardner Dozois. In Italia è stata pubblicata da Interno Giallo nel volume Supernovae, appunto, e in seguito nel Millemondi Inverno 1996 che presentava la seconda parte della corposa antologia di Dozois. Da allora non è più stata ristampata.

giovedì 2 aprile 2009

[fantascienza] Il classico - Considera le sue vie (Consider her ways - 1956) di John Wyndham (1903-1969)


Pubblicato su Intercom: http://www.intercom-sf.com/modules.php?name=News&file=article&sid=452

Tra la pubblicazione del racconto Jizzle (1949) e quella del romanzo Il lichene cinese (1960) corre circa un decennio; è quello del grande fulgore creativo di John Wyndham, al quale l'autore giunge dopo una carriera letteraria iniziata nel 1931 e poi interrottasi per la guerra e vicissitudini varie, e dopo il quale produrrà ben poco di significativo a parte il delizioso romanzo Chocky. E' dunque nel pieno di questo periodo di grazia che egli scrive e pubblica questa breve novella, una delle storie più celebri della fantascienza, e non solo di quella britannica.

Con una semplificazione probabilmente eccessiva ma che mantiene una sua sintetica validità, Wyndham viene spesso ricordato come il primo esponente di una fantascienza di genere squisitamente "british" nelle atmosfere, psicologie, rappresentazioni della realtà, e che avrà i suoi temi privilegiati nella catastrofe e nella reazione dell'uomo all'evento catastrofico, che da naturale nello stesso Wyndham e in John Cristopher diverrà primariamente mentale e della coscienza con James Ballard. Fantascienza che si contrappone per solito non solo agli autori americani, ma anche ai principali altri esponenti della fantascienza britannica a Wyndham contemporanei e più aderenti ai moduli USA, Eric Frank Russell e Arthur C. Clarke. Come dicevo, pur nella sua schematicità l'assunto non appare inesatto.

Storia sicuramente a tema, Consider her ways non è inficiata da alcuno dei difetti che a volte presentano le narrazioni con un'idea di fondo da (di)mostrare. Storia per certi versi tipica, é contemporaneamente atipica nella produzione matura dello scrittore. Sostenuta da uno stile straordinariamente ricco nelle descrizioni e finissimo nell'analisi dei caratteri e dei personaggi, una lingua che appare naturale definire come plastica e morbida e che la lettura in inglese permette di assaporare al meglio, la novella appare atipica nel mettere in scena quella che è una classica utopia - o antiutopia a seconda dell'angolo visuale - realizzata, ma è anche perfettamente coerente con la produzione wyndhamiana maggiore nel rappresentare le conseguenze di un evento catastrofico di immani proporzioni. Nella sua introduzione alla pubblicazione della novella su Robot n.27 nel 1978, Giuseppe Lippi la definisce come "fantascienza al femminile", ma non femminista. Forse. Ma forse è davvero una storia femminista; e dolorosamente femminista; o, comunque una requisitoria tanto dura e amara quanto inappuntabile e inattaccabile.

Un'epidemia devastante spazza via pressoché metà della popolazione umana: quella maschile; un'ipotesi narrativa allora non così ovvia come può apparire oggi. Questo è quanto apprende Jane Waterleigh, la protagonista, nel corso del suo colloquio con Laura, una storica che è l'altro personaggio principale della novella. Jane si era svegliata improvvisamente in un corpo non suo, in un mondo non suo e completamente diverso dall'Inghilterra del XX secolo: magistrale la rappresentazione di come ella prenda progressivamente coscienza del nuovo sé e della nuova realtà esterna, e di come in parte non vi riesca mai. Il meccanismo per il quale Jane è giunta nel futuro (e poi tornerà nel suo presente) è prevedibilmente la cosa meno interessante del racconto, ma è tuttavia ingegnoso per una storia di qualche decennio addietro. Il colloquio tra le due donne è la scena centrale e caratterizzante della storia, e il loro confronto dialettico è una splendida prova retorica di Wyndham. Laura narra dunque del tremendo spaesamento causato dalle prime fasi della malattia; del collasso della civiltà come conosciuta che ne segue; dell'ovvia ascesa della casta medica, la sola che potesse elaborare la tecnica che avrebbe permesso di perpetuare la specie; e infine del faticoso processo di riorganizzazione secondo un nuovo ordine sociale e spirituale che viene edificato, e che introduce un'epoca di pace. Non che debbano essere solo rose e fiori - e non solo da un'ottica maschile - a dispetto del racconto entusiastico della storica. L'ombra sinistra di alcuni tratti (eterni?) dell'umanità permane, e dietro la ragionevolezza e la pace conquistate si intravede la tendenza dell'Homo Sapiens a esercitare il proprio (pre)potere sui membri della propria specie, o quanto meno e quanto meglio a dirigerli con soavità e benignità. Così come vi è un ovvio prezzo da pagare in termini di elaborazione culturale e scientifica, figlie ovvie di "tempi interessanti". Tuttavia la pace raggiunta è un fatto inoppugnabile, come anche il volto di ben maggiore equità con il quale la civiltà delle donne ci si presenta rispetto a quello di Jane e quindi al nostro; seppure a costo di essere, nonostante il bisticcio di parole, non poco paternalista. All'oratoria appassionata, eppure spassionata e analitica di Laura che squaderna con spietatezza e puntiglio tutti gli orrori del nostro legato patriarcale, Jane non riesce a opporre che una visione hollywoodiana della vita dei suoi tempi, una difesa dell'amore che ha una profondità da Baci Perugina (ma non la ha di certo il modo in cui Wyndham le fa esporre i suoi argomenti, chiamandoci a correi di tali tempi che attraversano tutta la storia). Lippi scrive che "non sa far di meglio che invocare Romeo e Giulietta": e ha ragione. E' spiazzante: perché in certo modo quello di Jane è ovviamente il nostro punto di vista; man mano lo vediamo assumere sempre più i toni della petulanza e poi di un infantile capriccio a fronte della logica di Laura: la scomparsa di tutti gli uomini dalla faccia della Terra resta naturalmente un accadimento mostruoso, ma l'analisi da parte della storica delle miserie e obbrobrii della nostra società, della civiltà edificata nei millenni, ci appare di una lucidità ed esattezza inesorabili.

Jane tornerà infine al suo/nostro tempo, e prevedibilmente tenterà di impedire l'insorgere dell'epidemia: il finale beffardo mostra il limite del suo successo. Fatta nuovamente la tara alla ovvia mostruosità della distruzione del genere maschile, Wyndham si produce qui nella sua notazione più amara, facendo emergere nella distorsione distopica come troppo spesso il peggior nemico del genere femminile possano essere le stesse donne.

Il racconto è disponibile online in inglese:
Consider her ways http://arthursclassicnovels.com/wyndham/conway10.html

Come anche altri due dell'autore:
The Stare http://arthursclassicnovels.com/wyndham/stare10.html

More spinned against...
 http://arthursclassicnovels.com/wyndham/spinned10.html

lunedì 23 marzo 2009

Pane e libertà - Giuseppe Di Vittorio (sceneggiato tv di Alberto Negrin)


Luci e ombre. Forse, nel complesso, più ombre che luci nello sceneggiato in due puntate diretto da Negrin; pure, sarebbe un peccato farsi condizionare solo dagli aspetti meno convincenti, o addirittura negativi: nella sua imperfezione è un'opera comunque importante, e per certi aspetti perfino coraggiosa. E sarebbe stato un peccato non vederlo.

le luci, allora. Intanto la recitazione: e visto che si tratta di un'opera cinematografica, nel senso lato applicabile alla televisione, non è certo aspetto secondario. Da anni e anni ormai divenuti decenni, il livello della recitazione nelle opere televisive italiane era scaduto fino a livelli canini. Qui no. Il Giuseppe Di Vittorio di Pierfrancesco Favino è intenso e perfino credibile, e si giova di un'interpretazione sensibile quanto vigorosa dell'attore, che riesce a bypassare anche le - troppe - cadute nella retorica della sceneggiatura. Bellissima sorpresa il ritratto di Bruno Buozzi fornito da un Francesco Salvi maturo e misurato quanto umano e commovente. E in genere tutto il cast è stato un buon due spanne sopra tutta la fiction italiana che mi sia capitato di vedere o anche solo occhieggiare quanto meno da un paio di lustri a questa parte. Tra le luci rientra naturalmente l'idea stessa di fare un film su Di Vittorio. L'agiografia non è stata evitata in toto, questo no, e anzi lo sceneggiato ricostruisce una sorta di vero e proprio santino del padre nobile del sindacalismo italiano, componendone la storia della vita più attraverso lo scandire di momenti e fatti decisivi che non attraverso un approfondimento reale delle lotte e del pensiero. E tuttavia l'aver mandato in onda su Rai Uno un film positivo sul sindacato, e su un sindacalista che ha lottato (uscendone per altro sconfitto) per l'unità sindacale, in un momento come quello che stiamo vivendo, è notevole. Laddove oggi osserviamo il disfacimento finale di un sindacato che pare aver completamente sovvertito la propria missione originaria e smarrita la propria identità costitutiva, e laddove una strategia non secondaria - e non da oggi - delle forze politiche è quella di frammentare in ogni modo la rappresentanza sindacale in modo da poter indebolire tutti i lavoratori - laddove oggi accade questo, mostrare sul canale ecumenico per eccellenza della tv di stato una storia che veicola, in modo forte e deciso, il concetto che senza unità del mondo del lavoro la sconfitta è inevitabile, è un atto comunque di coraggio: anche se poi non si scava più di tanto in profondità e non si sfugge a una qualche oleografia. Da essa oleografia si risollevano gli schizzi, più o meno corposi, di Togliatti, De Gasperi e Scelba, dei quali, e soprattutto del primo, non vengono risparmiati gli aspetti negativi e le doppiezze. Oggi è forse fin troppo facile, ma la riflessione impostata sugli errori del comunismo togliattiano rischiara molto gli avvenimenti successivi della nostra storia fino agli anni '90, ed è utile perfino a una interpretazione degli errori più recenti della sinistra. O meglio della "sinistra".

Meno riuscita, come anticipavo, l'operazione di inserire realmente la figura e la lotta di Di Vittorio nel contesto storico degli anni che vanno da prima della I Guerra mondiale fino alla sua morte nel 1957. La frammentazione narrativa, il bozzettismo che a volte prende il sopravvento, e l'ormai sclerotizzato vizio e vezzo della tv italiana a comporre santini, impediscono una reale disamina analitica complessiva sull'azione di quel movimento sindacale che ha davvero mutato volto ai rapporti interni alla strutturazione del mondo del lavoro, e che in ultima analisi ha potentemente contribuito a far entrare l'Italia nel mondo civile. Azione che oggi va vanificandosi; per cui anche un santino imperfetto può, imperfettamente, contribuire, se stimoli la curiosità e il desiderio di informarsi: il film evidenzia la lotta di Di Vittorio per la centralità dell'educazione - e quindi dell'informazione - per l'affermarsi di una coscienza critica individuale e sociale. E fa rabbia che oggi, che la possibilità di conoscere e informarsi è massima, ci sia troppo spesso un rifiuto noncurante di questa istanza vitale.

Dà infine fastidio davvero, tra le ombre, questa inutile falsificazione storica: http://www.carmillaonline.com/archives/2009/03/002977.html. Pur con tutto questo, si è trattato di un'opera che nel complesso non posso non valutare positivamente. Sotto il profilo squisitamente filmico, soprattutto. Ma senza dimenticare l'utilità che può rappresentare a livello di riflessione critica. E ancor più non sottovalutandone un certo coraggio dopo anni e anni di ciarpame ideologico ed estetico su santi, preti e papi assortiti.

sabato 14 marzo 2009

[fantascienza] I contemporanei - Specchi irriflessi (The Tain - 2002) di China Miéville (1972- )


Pubblicato su Intercom: http://www.intercom-sf.com/modules.php?name=News&file=article&sid=447"

Affermatosi con la monumentale trilogia fantastica di New Crobuzon, iniziata con Perdido Street Station, lo scrittore inglese China Miéville è ormai uno dei più noti autori britannici del settore. La lunga novella Specchi irriflessi fu pubblicata in origine in volume, e in seguito antologizzata da Pete Crowther nel corposo volume Cities, poi tradotto in Italia per Fanucci come Le città del futuro. Miéville si conferma qui scrittore stilisticamente elegante e ricercato, interessato a una narrativa che coniughi un forte impegno sociale e politico con una qualità letteraria molto elevata (peccato che il volume Fanucci presenti più di un errore di stampa che salta all'occhio), e con il recupero degli stilemi di una letteratura di gusto barocco e immaginifico: Miéville cita tra le sue fonti ispirative privilegiate Lovecraft. Non è dunque casuale né leziosa la frase di Borges posta a chiusura della novella e dalla quale l'autore trae il nucleo narrativo della vicenda, la figura messianica del Pesce dello Specchio, mito inventato e letterario che si fa paradigma mitico del riscatto dall'oppressione e della santità della vendetta, presagio di un ciclo che sembra non potersi spezzare. Né è casuale o fuori luogo la citazione lovecraftiana che vi si accompagna e che sottolinea e dà forma alla cifra onirica e a tratti delirante della novella.

Una Londra spettrale e diroccata è il "personaggio" di maggior rilievo stilistico, giustificando appieno l'inclusione della novella nella galleria di visioni urbane future raccolte da Crowther. Una Londra distrutta da un'invasione più che aliena. Non sono extraterrestri gli esseri che si sono avventati contro l'umanità senza concedere quartiere né mostrare pietà. Gli Imago sono creature più che aliene, dicevo, eppure incredibilmente vicine e consustanziali a noi: i nostri riflessi, come dice infatti il loro nome. Sin dalle epoche antiche le superfici riflettenti (acqua, pietre e metalli levigati, gioielli, vetro e infine specchi) erano le trappole che costringevano tali creature a mimare l'universo dell'uomo: gli oggetti, gli animali, e soprattutto gli esseri umani. A mimarlo con dolore: assumere fattezze umane, o comunque essere forzati a costruire l'immagine riflessa del mondo umano, costringere la propria sostanza informe e multiforme nella fissità della forma, è per gli Imago fonte di dolore, fisico e spirituale. E' una prigionia alla quale si finisce per rassegnarsi, sfruttando ogni minimo interstizio per avere sollievo, ma la cui natura non si può sfuggire: essere alla merce' dell'altro. Pochissimi gli Imago che nel corso della storia umana sono sfuggiti al loro destino, e forse solo per incontrarne uno altrettanto doloroso; taluni di loro, casualmente, riuscivano ad "attraversare lo specchio", finendo con l'uccidere l'essere umano che stavano riflettendo, ma venendo condannati a vivere in eterno con quelle fattezze, senza più poter assumere la forma desiderata di volta in volta, vagabondando in un mondo per loro alieno, ma al quale forzatamente faranno l'abitudine: sono i Vampiri; sono le creature che hanno originato il mito del vampiro. Avanguardia dell'invasione e spie del loro popolo pur ormai tagliati fuori dall'essenza del loro popolo.

Miéville fornisce una spiegazione pseudoscientifica dell'esistenza degli Imago e del modo in cui le creature arrivano a liberarsi, il che qualifica certamente Specchi irriflessi come fantascienza; tuttavia non è difficile vedervi un'ibridazione fortissima con atmosfere e linguaggio di un realismo magico magnificamente adattato agli scenari londinesi e gli echi altrettanto forti di quella congerie letteraria dei primi decenni del '900 che ebbe il suo centro principale negli scrittori più rappresentativi della rivista Weird Tales. Sebbene dunque l'autore peschi le proprie fonti a piene mani anche fuori della tradizione del Regno Unito (e sia in più fortemente critico verso la fantasy di matrice tolkieniana), egli si inscrive bene nel solco della fantascienza più umanista che in genere caratterizza la sf britannica. Miéville intesse dunque una simbologia stratificata sul tema del doppio, che si complessifica abbandonando rapidamente la radice stevensoniana del doppio malvagio e arricchendosi di richiami politici e suggestioni sociali. Gli Imago sono molto più che un doppio dell'uomo: sono una parabola della sua storia e del suo modo di essere. Popolo oppresso che vive un'attesa messianica, che si sfrena nella vendetta a lungo sognata; popolo invisibile: gli Imago sono quell'umanità che soffre e di cui, letteralmente, gli altri uomini non si accorgono; ignorando il loro dolore e la loro stessa esistenza. Né, soprattutto, gli altri uomini hanno la minima coscienza di essere causa di quel dolore e di quell'oppressione. Riflesso ignorato e misconosciuto della nostra umanità e della nostra civiltà, che si nasconde negli anfratti della storia dei vincitori per esplodere in una rivoluzione vittoriosa. E' il registro più politico di Miéville a emergere nelle sequenze incentrate sulla storia e la cultura Imago, sconfinando nell'intensità di un genuino lirismo, e facendomi escludere una ulteriore lettura psicanalitica degli Imago come la parte più istintuale e repressa della nostra coscienza, sempre a rischio di attraversare il limite e liberarsi dalle regole sociali.

La novella si snoda in un controcanto a due voci. La descrizione delle vicende di Sholl - l'uomo che né Imago né Vampiri sembrano poter toccare, e che sembra essere l'Eletto a poter parlamentare con essi - è alternata alle riflessioni dell'io narrante di un vampiro anonimo, il solo che sembri poter toccare Sholl (di nuovo un legame a doppio filo, e non è a caso come si vede nel finale). Sullo sfondo di Londra, desolato di rovine e di scontri sanguinari tra uomini sempre più vinti e Imago sempre più trionfanti, fino alla noncuranza, Sholl e il vampiro raccontano dalle due ottiche, opposte eppure tanto simili nella comunanza del dolore, la storia di un confronto e di una guerra che affonda le proprie radici nella leggenda dell'Imperatore Giallo che imprigionò gli Imago con l'inganno, e della promessa dell'avvento del Pesce dello Specchio che avrebbe riscattato il suo popolo. Fino alla conclusione, che sembra chiudere il cerchio lì dove era iniziato.