Accantono momentaneamente la fantascienza per la bellezza e l'eccezionalità di questo romanzo, il primo di Natsume Sōseki (nom de plume di Natsume Kinnosuke).
E' possibile scrivere per cinquecento pagine senza dire nulla? Di sicuro molti scrittori di bestseller e di fumetti alla moda vi riescono. Però si può essere a tal punto abili da dare l'apparenza di farlo. Io sono un gatto sembra non raccontare nulla per le cinquecento pagine del suo fluviale fluire di pagina in pagina, al ritmo lento e torpido dei pigri, svagati giudizi con cui il felino protagonista contrappunta di svagata e a volte bislacca saggezza il suo osservare gli uomini e i loro comportamenti e pensieri. E' l'effetto ipnotico e sviante dello stile narrativo di Natsume: una scrittura che in origine è immediato figurarsi come musicale e seducente, un inseguirsi di arabeschi verbali a comporre una tela magica dentro la quale idee, sensazioni e impressioni si rincorrono, intarsiano, nascondono alla vista dei lettori per poi farsi ritrovare da quelli più attenti. La traduzione lascia scorgere quanto può di questo universo verbale e fonetico, e consegna intatta una capacità di narrare sublime. E' pura narrazione questo romanzo; nel senso di abilità di affabulare, avvincere, trasmettere il proprio pensiero e ancor più le emozioni, i moti dello spirito, e ogni loro minima sfumatura: perché la densità dei concetti, dei sentimenti, dell'analisi di sensazioni e idee, è in proporzione alla rarefazione dell'azione. Fino a comporre una realtà narrativa che pare naturalismo in presa diretta.
Davvero non accade nulla nel romanzo. Nulla di memorabile avviene nel corso dell'anno di vita di un gatto innominato che il romanzo racconta, privo com’è di una vera trama. Gatto che l’autore dota di un’umanità e, contemporaneamente, alienità, cesellate con cura maniacale: ogni parola ha un suo posto, un suo scopo, una sua funzione precisa nel libro. Attraverso gli occhi del gatto noi osserviamo però l'intera umanità dispiegarsi davanti ai nostri di occhi, rappresentata in modo esemplare e completo, fino alla minuziosità più estrema, dai membri della famiglia presso la quale il micio è ospitato. Insieme agli amici del capofamiglia, il professore di liceo nel quale Natsume ritrae sostanzialmente sé stesso, viene a formarsi un consesso che ci svela ogni piega più nascosta dell'animo umano - del nostro animo. Non esce bene, l'umanità, dalle osservazioni a volte lunari del gatto di casa. Eppure non solo non si scorge moralismo alcuno o condanna, ma sotto traccia è perfettamente percepibile una simpatia, quasi un amore per noi creature così imperfette e quasi sempre sgradevoli. Un umanesimo, che grazie allo strumento principe di un'ironia tanto sottile e impalpabile quanto pervasiva e in grado di impregnare ogni pagina del libro, mostra gli esseri umani con una serenità ed un'equanimità difficilmente riscontrabili altrove. Un'ironia che si fa satira elegantissima in alcuni personaggi dai quali Natsume lascia trasparire il suo sguardo tra pungente e amorevole nei confronti della filosofia zen, e più in generale della pensosità e sentenziosità di certo tipo di intellettuali orientali; efferata al riguardo, la figura del professor Meitei, probabilmente il più riuscito di tutti i personaggi umani, la cui lingua è tanto raffinata, leggera ed elegante quanto impietosa verso le sciocchezze e la stupidità. Per contrappasso, Natsume non ne nasconde una certa vanità di fondo che mette a nudo l'inconcludenza del cinismo, per quanto intelligente e acuto possa essere. Di nuovo e di nuovo un atteggiamento duplice, che si conferma non essere un segno di ambiguità, ma di completa, serena ed equanime accettazione della realtà. Profonda comprensione di essa.
Dai dialoghi dei protagonisti, quasi rappresentazioni teatrali, si ricava inoltre un ritratto dettagliato della società giapponese nel pieno del suo trapasso alla modernità. Il romanzo è del 1905-06; se non l'iniziatore della letteratura giapponese moderna, Natsume è stato il suo maggior rappresentante dell'era Meiji, quando il Giappone si è scrollato il medioevo di dosso e si è posto alla rincorsa dell'Occidente. E tale problematica è avvertibile lungo tutto il corso del romanzo. Non è un misoneista in linea di principio Natsume (come avrebbe potuto? Era un insegnante di inglese), e al di sotto della malinconia e della nostalgia di un Giappone che andava sparendo o era già sparito non si avverte nulla di così facile e banale come la moralistica condanna del nuovo a fronte dei valori (sempre e comunque migliori) del tempo andato. E’ ancora una volta l’equanimità con la quale si pone dinnanzi all’oggetto delle sue considerazioni a fare la differenza. A rendere la sua vista per certi versi profetica. Natsume individua con lungimiranza i nodi che verranno al pettine di questo “nuovo” Giappone. Vi è piena consapevolezza dell’inevitabilità del prezzo da pagare per la modernizzazione del paese, e dei benefici di essa. Tuttavia vi è anche un rimpianto che non è nostalgico, ma pienamente conscio, per quegli aspetti della morente civiltà giapponese che non sono/erano vuotamente tradizionali quanto invece caratteri fondanti di un’identità antropologica molto più e prima che nazionale. Un ancoraggio profondo al sé senza il quale ogni essere umano rischia la deriva.
Letture e visioni 2020
3 anni fa
6 commenti:
Ciao, non ho letto il testo che recensisci ma ne ho letti altri tre che meritano: "Anima", "Guanciale d'erba" e "Sanshiro". Ora è tardi e non mi sento di aggiungere altro che l'incipit di "Guanciale d'erba": "Salivo per un sentiero di montagna e riflettevo.
Se si usa la ragione il carattere s'inasprisce, se si immergono i remi nel sentimento si è travolti. È comunque difficile vivere nel mondo degli uomini.
Quando il malessere di abitarvi s'aggrava, si desidera traslocare in un luogo in cui la vita sia più facile. Quando s'intuisce che abitare è arduo, ovunque ci si trasferisca, inizia la poesia, nasce la pittura".
Ciao, a mia volta non ho letto "Guanciale d'erba", anche se da anni l'ho da parte in attesa di farlo. Natsume ha una voce finissima, e la frase che citi ne è un ulteriore testimonianza. Forse se le giornate fossero di 240 ore riuscirei a leggere tutto quello che vorrei leggere. E avanzerebbe tempo per vivere :-)
V.
È così come dici. La sensibilità di Soseki è quella di un uomo capace di osservare e riflettere, semplicemente.
Caratteristiche che sarebbe opportuno ritrovare di più, soprattutto nella fantascienza ipertrofica a produzione industriale di oggi.
Non v'è che da combattere l'iperserialità mefitica con la sublime arte artigianale di Ted Chiang, il più grande degli autori di sf viventi, e forse il migliore di sempre.
V.
Non ho ancora letto niente di Chiang ma posso dire che il fatto che pubblichi con il contagocce (pur non essendo di per sé condizione necessaria) mi spinge a pensare che scriva con cura e rispetto di sé e del lettore.
Diciamo pure che è maniacale nella cura.
V.
Posta un commento