domenica 16 maggio 2010

[fantascienza] I contemporanei – Le stelle senzienti (Stars Seen Through Stone - 2007) di Lucius Shepard (n.1947)


E’ un vero piacere anche tornare a parlare di Lucius Shepard, un autore la cui voce è tra le più significative tra gli scrittori americani di science fiction.

Shepard, tra i dominatori della scena negli anni ’80 e ’90 (ha esordito nel 1983), dimostra di scrivere oggi narrativa eccezionale come allora. Le stelle senzienti è una novella molto lunga, finalista nel 2008 ai due principali premi fantascientifici, lo Hugo e il Nebula, ma ha il passo di un romanzo. Pubblicata in origine sul fascicolo del luglio 2007 della rivista Fantasy&science fiction, e successivamente ristampata nell’antologia The best of Lucius Shepard, è stata edita in Italia in volume dalla Delos Books nel 2009. E’ un’opera decisamente non comune; al di là dell’equivoco su una connotazione come genere, ciò che non essendolo non le appartiene, la fantascienza è generalmente contrapposta alla narrativa mainstream: da un lato il fantastico e dall’altro il realismo. Shepard scrive qualcosa che troverebbe una perfetta definizione dall’intima fusione dei due campi. Di più, anche: da una loro indistinguibilità all’interno dell’unità della novella.

L’elemento fantascientifico, che è anche fantastico tout court, irrompe in scena sin dalla prima frase dell’opera. Ma sin da quella stessa prima frase l’ambientazione realistica vi si connette, non meramente innervata ma consustanziale:

Mi stavo facendo una canna sui gradini della biblioteca pubblica quando giunse il soffio di una ventata gelida, che non proveniva da uno dei punti cardinali ma proprio dal cielo notturno sopra di me.

Nel mentre Shepard svolge piano gli elementi fantastici e fantascientifici, dipanandoli in un crescendo che è come il fluido e maestoso innalzarsi del Bolero di Ravel, vediamo prendere corpo nelle pagine della novella un ritratto analitico, penetrante dell’America e dei suoi abitanti. Un ritratto schizzato più che dettagliato, ma ugualmente in grado di affondare nella realtà. Un’America marginale, ma non emarginata. O forse più correttamente un’America eccentrica. Lontana da quelle ribalte che (ci) sono abituali: New York; la California; la Florida di Miami e Orlando; la Seattle dell’ultima frontiera culturale; il Texas, vecchia e nuova frontiera al quadrato; la luccicante spudoratezza di Las Vegas. Al limite la trasognata fantasticheria di New Orleans. Black William è invece una qualunque cittadina, un grosso paesone, del grigio bacino industriale di Pittsburgh, provincia americana profonda. Nessun degrado vero, ma l’anonimità di un immoto benessere senza slanci.

La storia è presto detta. E’ in questa città che, una decina d’anni prima degli eventi narrati, vengono a incagliare la loro vita Andrea e suo marito Vernon, narratore e protagonista principale della novella. In viaggio per raggiungere la California settentrionale dove intendono trasferirsi, quando la loro macchina si rompe nei pressi di Black William, Pennsylvania, decidono di fermarsi il tempo di guadagnare qualche soldo e poter comprare una nuova auto. Resteranno per tutta la vita. Noi li conosceremo molto dopo, una decina d’anni appunto. E qualche mese dopo il prologo rappresentato da quella prima epifania notturna dell’Insolito nella vita di Vernon e di Black William.

Dopo arriveranno le Stelle. Che non sono astri, ma luci che si presentano quasi fantasmatiche, legate a strani fenomeni luminosi. E a fenomeni più strani. Shepard non ne chiarisce la natura in modo conclusivo; esse sono senza dubbio un qualche tipo di forma di vita intelligente che esiste in quello che sembra una sorta di campo fisico che ciclicamente giunge in un punto di intersezione con il nostro pianeta, localizzato a Black William. Non vi è nessuna comunicazione con esse, e si riveleranno tanto enigmatiche e remote quanto anche pericolose. La loro apparizione è accompagnata da fenomeni bizzarri. Molti abitanti della città dopo il contatto con le Stelle sviluppano talenti prima inespressi o repressi, o mai posseduti e probabilmente solo sognati. Stanky, l’immondo aspirante musicista che è la terza figura di maggior rilievo della storia vede le sue già notevoli doti musicali esplodere in un parossismo creativo di talento puro; Rudy, un mediocre architetto amico di Vernon ed ex aspirante fumettista frustrato riprende in mano la matita per disegnare vignette di ottimo livello. E poi c’è chi si mette a scrivere romanzi; chi inventa nuovi, geniali attrezzi per il giardinaggio; chi idea inediti processi di produzione industriale e chi un sistema fiscale comprensibile ed equo. Ma non è solo questo: un serial killer in erba sviluppa un “talento” diabolico per l’omicidio; e per converso un detective da quattro soldi lo arresta grazie a un fiuto investigativo eccezionale. E Vernon e Andrea tornano ad amarsi. Le dinamiche della vita li avevano prima allontanati e poi fatti divorziare, ma gli anni trascorsi non avevano interrotto una tensione erotica ed emotiva che non riusciva a fuoriuscire, concretizzarsi, se non appunto come tensione irrisolta. Fin quando le Stelle stimolano il loro talento per l’amore reciproco. Le doti più disparate, dunque: dal genio artistico o tecnico a quello per l’interazione umana, o magari solo per dare corpo alle proprie aspirazioni e senso alla propria vita. Pare di essere inseriti nel filone de La Sentinella di Arthur C. Clarke, il monolite che sarà poi kubrickiano. Ma l’incombente presenza delle Stelle è molto più inquietante, rimanda ai Vitoni di Schiavi degli Invisibili di Eric Frank Russell. Shepard scioglie la questione secondo un ben rodato schema, ma con la sua non comune acutezza: esse “seminano” gli abitanti di Black William per poter poi nutrirsi dei frutti di questa semina. Non tutti i talenti sviluppatisi interessano loro: solo quelli artistici. Se ne nutrono lasciando i “seminati” più vuoti di come li avevano trovati. Qualcuno più sensibile e in grado di intuire forse la natura delle Stelle, come Rudy, cede e si suicida prima del “raccolto”. I “seminati” che non risultano interessanti manterranno le doti acquisite, come Vernon e Andrea, che probabilmente continueranno a interrogarsi sulla naturalità del loro sentimento ritrovato… e continueranno ad amarsi. E’ anche un romanzo d’amore questa storia. Sui suoi meccanismi, sulla sua natura, sulla sua psicologia.

Quella che Shepard mette in scena è una rappresentazione ricca e complessa della vita e delle dinamiche che essa innesca, della psicologia dei sogni che viviamo o non riusciamo a realizzare. Un affresco di un angolo residuale d’America che facilmente si muta in una epitome di tutta la nostra società occidentale, e almeno per quel che attiene i risvolti psicologici, della natura umana. La solida, e affascinante, sovrastruttura fantascientifica serve da potente lente di ingrandimento per arrivare a comprendere questa struttura alla base, per focalizzarne gli elementi portanti. La personalità frastagliata e sfaccettata di Vernon, il modo in cui le sue iniziali aspirazioni di successo quale rockstar si sono mutate nella soddisfatta insoddisfazione di un moderato, placido successo come affidabile produttore musicale e talent scout. E Vernon riassume in sé la città, l’America, forse tutti noi. A partire da Andrea, che è avvocato giuslavorista che difende i lavoratori, e sa che i suoi clienti in genere perdono anche quando in tribunale vincono. Quella che Shepard racconta è una terra di mezzo dove la sconfitta non è forse così sconfitta e la vittoria non è mai vittoria. Forse perché i personaggi non sono (ovvero non siamo noi) capaci di agire in modo diverso da quello che conduce a tale risultato.

Lucius Shepard è dotato di una ars narrandi di elaborata raffinatezza, un registro stilistico sempre alieno dalla banalità, che illumina la narrazione con la finezza della caratterizzazione psicologica e comportamentale dei personaggi; l’atmosfera da realismo magico che trasfonde nelle sue descrizioni naturalistiche o urbane. Così, Vernon emerge con nettezza dal ritratto appassionato che l’autore fa della sua ossessione musicale e del lavoro di produttore (Shepard del resto fu musicista a sua volta). Così, le Stelle assumono una connotazione narrativa allusiva, trasognata, sfumata, e lo scrittore americano vi intesse un presagio malevolo, sfuma le sensazioni in un indistinto che evoca tuttavia con precisione pericolo e angoscia. E’ un romanzo anche sulla creazione artistica, le sue tensioni e aspirazioni.

Non è mai scrittore di facile accessibilità, Shepard, ma a farsi trasportare nella dovizia prismatica del suo narrare si può godere di un’esperienza che è prima sensuale e solo poi intellettuale, ma ancor più un’esaltazione dei due aspetti. Lucius Shepard è uno scrittore autentico, raro. E non solo tra gli autori di sf.    

A proposito di titoli, Le Stelle senzienti è del tutto preciso e funzionale al contenuto, ed è di una piattezza che sconsola. Il titolo originale non è solo una scheggia di lirismo malinconico, ma anche una fotografia ancor più precisa, e soprattutto intima, della magia di cui Shepard sa rivestire le apparizioni delle Stelle. Ci voleva davvero tanto a mettere Stelle viste attraverso la pietra? Nella canzone di Stanky la frase c’è…

martedì 11 maggio 2010

Soltanto parole III - I titoli nella sf: Ex uno plures/It happens sometimes


Ex uno plures

 Catherine L. Moore, alle sue spalle il marito Henry Kuttner

Tanti titoli per lo stesso libro o racconto. Nei capitoli precedenti si è già visto più di un esempio, ma forse il record appartiene al racconto Mimsy were the borogoves dei coniugi Henry Kuttner&Catherine L. Moore, del quale si contano quattro diverse traduzioni (pure loro, però, mettere un titolo del genere ;-)). Per fortuna i casi simili non sono molti, anche se a complicare il tutto può sopravvenire il fatto che lo stesso titolo originale può essere plurimo. Non sono infrequenti, infatti, i casi di diversità di titolo in sede di pubblicazione tra le due sponde anglofone dell’oceano (comici i risvolti del fatto per il romanzo di Jack Vance Servants of the Wankh, il secondo della tetralogia del pianeta Tschai: http://en.wikipedia.org/wiki/Servants_of_the_Wankh), o magari tra l’edizione in rivista e quella in volume, talora ampliata, di un romanzo. Di seguito qualche altro esempio.

La tigre della notte ovvero Destinazione stelle/Tiger! Tiger! ovvero The stars my destination (1956-57), di Alfred Bester. Doppio tra le due sponde atlantiche, il titolo del capolavoro di Bester si ritroverà ballerino anche una volta approdato al Mediterraneo.


Qui si raccolgono le stelle ovvero La casa dalle finestre nere/Here gathers the stars ovvero Way station (1963), di Clifford D. Simak. Doppio titolo sin dall’origine anche per Cliff! ;-)


Picnic sul ciglio della strada ovvero Stalker/Piknik na obocine (1971), di Arkadij Strugatskij&Boris Strugatskij. Forse il titolo più noto dei fratelli russi, sulla scorta del film tratto da Tarkovskij è stato anche tradotto come Stalker.


Codice 4GH ovvero Rete globale/The shockwave rider (1975), di John Brunner. Noto con il titolo anodino di Codice 4GH, in tempi più recenti il romanzo più maturo dell’autore inglese è stato rititolato con il banale Rete globale.


Solo il mimo canta al limitare del bosco ovvero Futuro in trance/Mockingbird (1980), di Walter S. Tevis. Tradotto originariamente con il primo, bellissimo titolo, in seguito il capolavoro di Tevis è stato presentato con quel Futuro in trance che risulta sicuramente più pastorizzato.





It happens sometimes

Isaac Asimov



A volte capita anche questo: i titoli scelti in italiano risultano più intensi (o più chiari o evocativi, comunque migliori) di quelli originali. Probabilmente l’esempio principe è quello relativo alla trilogia della Fondazione asimoviana. I titoli inglesi di Asimov sono in genere molto lineari, precisi e semplici, e le loro traduzioni li hanno seguiti. I tre romanzi (o più correttamente le antologie in cui vennero fusi insieme i racconti e le novelle che compongono il ciclo scritto da Isaac negli anni ’40) ricevettero in origine delle traduzioni decisamente più suggestive dei piani titoli inglesi: Foundation divenne Cronache della galassia, Foundation and Empire divenne Il crollo della galassia centrale e infine Second Foundation si mutò in L’altra faccia della spirale. Pochi altri esempi simili possono farsi, alcuni sono tutto sommato emersi anche prima, come per il capolavoro di Tevis Mockingbird. E tra gli altri…


I trasfigurati/Re-birth ovvero The Chrysalids (1955), di John Wyndham. Quale che si voglia considerare come titolo “più” originale, quello italiano del grande capolavoro di Wyndham sulle mutazioni genetiche è molto più potente e incisivo. Succede, per fortuna!


L’inverno senza fine/The world in winter (1962), di John Christopher. Ovviamente il titolo originale di questo bellissimo romanzo è preciso ed esauriente, ma quanto più profondo, lirico, evocativo e ricco di significato quello italiano!


Le ali della mente/On wings of song (1979), di Thomas M. Disch. In tutta franchezza entrambi I titoli sono molto belli: quello originale ha un’inflessione più poetica, quello italiano più pregnante sotto il profilo fantascientifico. Mi piace sottolineare, qui, come pur cambiando e ponendo l’accento su un pilastro della storia diverso da quello focalizzato nel titolo originale, la traduzione italiana sia riuscita a cogliere e veicolare un aspetto caratterizzante e basilare di questo assoluto capolavoro di Disch, il suo ultimo libro squisitamente di sf prima di dedicarsi soprattutto alla poesia e a romanzi più genericamente fantastici (e splendidi).


L’alternativa/Philip K. Dick is dead, Alas ovvero The secret ascension (1992), di Michael Bishop. Una delle più belle opere di recursive science fiction, ovvero di meta-fantascienza, questo romanzo è meglio rappresentato dall’enigmatico titolo italiano, che cela suscitando curiosità, che non dai titoli originali. Il primo è fin troppo prosaico, e il secondo, pur evocativo, in non dice nulla di veramente significativo né riesce a stimolare la curiosità.


Le puntate precedenti:
http://olivavincenzo.blogspot.com/2010/05/soltanto-parole-ii-i-titoli-nella-sf.html

Soltanto parole II - I titoli nella sf: Bastava così poco, eppure…


Bastava così poco, eppure…
Hal Clement

Eppure, immancabilmente, quel poco è mancato ;-). Se parecchi sono gli esempi di titoli tradotti in maniera raccapricciante o che lasciano interdetti per la mancanza di un senso; molti, molti di più sono quei titoli che non possono non dirsi corretti, ma nella loro correttezza mortificano quelli originali banalizzandoli senza rimedio. Esemplare il caso di Stella doppia 61 Cygni, titolo del più famoso romanzo di un maestro della hard sf, Hal Clement, il più ortodosso, al cui confronto Clarke è un romantico appassionato ;-). Titolo assolutamente corretto: è il sistema solare su un pianeta del quale Clement ambienta il romanzo. Ora, il titolo originale è: Mission of gravity. Nulla di particolarmente eclatante o suggestivo come si vede; in fondo si limita a sottolineare un aspetto diverso del libro, con quel terribile problema della mostruosa gravità del pianeta Mesklin. Eppure… Eppure in Mission of gravity c’è qualcosa che manca nel corretto, banale titolo italiano: c’è mission, a indicare l’avventura, la sfida; e c’è gravity, a indicarne il contenuto rafforzando la sfida. Bastava poco, appunto. Di seguito una scarna selezione di titoli. 

Il mestiere dell’avvoltoio/The unpleasant profession of Jonathan Hoag (1942), di Robert A. Heinlein. Et voilà, la sgradevole professione di Jonathan Hoag, sulla quale è lecito interrogarsi, diventa un qualsiasi mestiere dell’avvoltoio. Quale che esso sia. Nulla da eccepire, in realtà, se non fosse appunto che il titolo, pur senza fornirla realmente, dà un’indicazione al lettore invece di suscitarne l’interrogativo e la curiosità contenute nel titolo originario di questo romanzo, abbastanza atipico per lui, nel quale Heinlein si districa tra i generi.

smg. "Ram" 2000/The Dragon in the sea (1956), di Frank Herbert.  Nella traduzione, il primo romanzo dell’autore di Dune perde quella forte coloritura romantica, perfino fuorviante per certi versi, che gli viene dall’accostamento di un luogo, il mare, e un soggetto, il drago, tra i più classici della narrativa d’avventura; e della fantascienza per immediata transizione. Basti pensare al verniano Ventimila leghe sotto i mari e ai dinosauri de Il mondo perduto di Doyle, sorta di upgrade del drago in chiave più fantascientificamente pura (come lo è il sommergibile herbertiano). I traduttori debbono poi avere qualcosa di personale nei riguardi di Herbert se il suo miglior romanzo, Hellstrom’s Hive, dopo la corretta traduzione primigenia in L’alveare di Hellstrom è stato più recentemente rititolato Progetto 40. Che magari non è neanche così tremendo, ma certo stempera quella minaccia naturale che non è difficile prospettarsi a partire dal titolo originale.

Incidente nucleare/Nerves (1956). Di Lester Del Rey. Se la novella del 1942 è stata correttamente tradotta con Nervi, questo romanzo del 1956 che ne è l’espansione è stato correttamente tradotto come Incidente nucleare. Peccato che un titolo così burocratico soffochi in culla il senso di ansia immediato provocato dal titolo originario del lavoro di Lester Del Rey :-/

Incognita uomo/Who? (1958), di Algis Budrys. Anche qui una traduzione impeccabile. E inesorabilmente burocratica. Il senso è quello, ma decade l’urgenza, l’angoscia di quell’interrogativo esistenziale espresso nella secchezza della domanda esplicita. E vabbe’.

Davy, l’eretico/Davy (1964), di Edgar Pangborn. Che differenza c’è? Be’, apparentemente nessuna. O quasi. Appunto, quasi. Come si diceva, bastava così poco. Eppure non si è resistito alla tentazione di apporre una qualifica al semplice nome del protagonista. Una qualifica che invece di aggiungere senso, (de)limitando la figura del personaggio ovviamente ne sottrae. Ci vuole un certo talento per fare ‘ste cose. Il romanzo è uno dei più intensi e belli nella storia della sf.

Dalle fogne di Chicago/The Clone (1965), di Thodore L. Thomas&Kate Wilhelm. Alla sua quarta ristampa, su Urania Collezione, infine ci si è decisi per un secco, preciso, minaccioso: Clone. Ma fino ad allora, questo ruspante romanzo di mutazioni e “orrori” scientifici scritto da Kate Wilhelm insieme all’altrimenti poco noto Theodore L. Thomas si era fregiato di quel titolo da rigurgito idraulico, indubbiamente corretto, ma anche tanto da presa per i fondelli.

Il villaggio dei fiori purpurei/All flesh is grass (1965), di Clifford D. Simak. Ancora una volta un titolo impeccabile, ma che annega nella banalità il portato simbolico ed emozionale di quello originale annullando la forza evocativa di quel legame/identità che esso instaura tra la carne, che percepiamo come umana e nostra, e l’erba che prima facie ci appare ovviamente aliena. Nel titolo di questo romanzo minore di Simak c’è un po’ tutta la sua poetica, insomma. Bastava così poco…

Il mondo della foresta/The word for world is forest (1972), di Ursula K. Le Guin. In genere a levare si fa bene. In genere: qui la soppressione di quella piccola parola comporta una forte perdita di senso. Da un mondo che _è_ foresta, alienità - a partire dal suo nome - si passa a un qualunque mondo della foresta. E insomma… Ursula Le Guin avrebbe poi ampliato la sua celebre novella, ma il titolo italiano è sempre quello.

La matrice spezzata/Schismatrix (1985), di Bruce Sterling. Non era facile, e alla fine il risultato non è neppure male. Però un migliore tentativo di mantenere l’ambiguità di significato contenuta nella crasi schismatic/matrix lo si poteva fare. Un tentativo per illustrare meglio non una banale rottura di quella matrix, ma la sua intima scissione. Okay, non lo si è fatto.


Il quinto giorno/Der Schwarm (2004), di Frank Schätzing. Il titolo è scelto tutt’altro che male, ha un suo senso preciso e una precisa rispondenza con il romanzo. Eppure il titolo originale tedesco (sciame, branco, frotta) con quell’indicare una pletora, una massa in movimento, esprime con immediatezza un’idea di minaccia, che con sottigliezza ben maggiore rende giustizia a questo ciclopico thriller (fanta)scientifico.


Soltanto parole I - I titoli nella sf: Peggio di così si muore


Dannati titoli. E dannati traduttori.

Sono soltanto parole, si dirà. Ma un titolo è molto di più: è il biglietto da visita, l’atto di presentazione di un racconto o un romanzo al potenziale lettore, o di una pellicola allo spettatore. E’ la prima impressione che suscita in quel potenziale lettore o spettatore, che potrebbe esserne attratto o respinto, in modo puramente epidermico ma non per questo meno deciso.
Gli italici traspositori di titoli fantascientifici paiono affetti da una particolare creatività e da fervenza di inventiva nello storpiare atrocemente quelli originali. Senza andare con la memoria ad autentici “capolavori” quali L’invasione dei mostri verdi per il film The day of the Triffids (per altro scialba trasposizione cinematografica del capolavoro letterario di John Wyndham) o La società della camicia stregata, prima traduzione di Player Piano (1952) del grande Kurt Vonnegut, gli scempi sono innumerevoli. Oltre agli scempi ci sono poi i titoli tradotti e ritradotti: lo stesso Player Piano esiste anche (per fortuna) come Distruggete le macchine (che insomma…) e Piano meccanico (e andiamo già meglio). Tutto per la chiarezza in favore del lettore. Comunque in questo caso il cambiamento era un atto come minimo dovuto.

La casistica dell’incessante lavorio mentale dei traduttori (editori, produttori, distributori e quant’altro) non si esaurisce negli scempi. Ci sono i furbi, innanzi tutto.  Il loro capolavoro è forse il filmico 2002: la seconda odissea, traduzione truffaldina di Silent running (1972) - intenso, splendido film di Douglas Trumbull che però nulla ha a che fare con l’universo narrativo di Clarke e Kubrick – del quale per soprammercato sconcia senza verecondia il perfetto titolo.
Ci sono poi quei titoli affatto legittimi, affatto onesti, affatto corretti; che però banalizzano con inesorabilità il senso sottile di quelli originali. A volte basta il minimo scostamento di significato di un vocabolo; altre volte la scelta di privilegiare un aspetto diverso da quello focalizzato nel titolo originale rende la cosa più evidente. Ne accennavo scrivendo a proposito del racconto La professoressa marziana (And madly teach) di Lloyd Biggle, jr.: http://olivavincenzo.blogspot.com/2009/10/fantascienza-il-classico-la.html.

Sempre più, anche in ambito librario, si va inoltre affermando la scelta di non tradurre il titolo originale. A volte essa appare indovinata, in altre occasioni se ne farebbe volentieri a meno: se Star Trek finì fortunatamente con il prevalere (La pista delle stelle…), titoli invariati come Seeker (romanzo di Jack McDevitt pubblicato su Urania); Engine City (di Ken MacLeod sempre su Urania); Human front (di nuovo MacLeod, ma per Odissea Fantascienza) risultano anodini.
In un cantuccio ci sono anche i titoli migliorativi. Pochi, ma ci sono. Perché in fondo non è che editors e curatori vari (a parte gli autori stessi) difettino così tanto di quell’alacre fantasia distruttrice di cui sono dotati gli italici traspositori. E così, a volte, accade anche questo.
I brevi elenchi che seguono, composti quasi solo di romanzi, hanno un valore unicamente indicativo, e in fondo non sono altro che un’occasione di segnalare letture interessanti. Quasi sempre a dispetto del loro biglietto da visita ;-)

Peggio di così si muore
 Kurt Vonnegut, jr.

Se il primato spetta di diritto a chi seppe massacrare Vonnegut con quel La società della camicia stregata, tuttavia certo non mancano altri – autorevolissimi – esempi della creatività italiana in materia. Tra i "migliori" mi piace ricordare...

Gorilla sapiens/Genus Homo (1950), di L. Sprague De Camp&Paul Schuyler Miller. Che non si deve MAI perdere l'occasione di tradurre un titolo che non tradotto si mostrerebbe perfetto. Soprattutto se traducendolo si riesce a trovarne uno che dia l'idea della buffonata. Chissà, forse è stato il terrore per una possibile lettura senza "H"…


Orrore su Manhattan/Shadow on the Hearth (1950), di Judith Merril. E’ fuor di dubbio che fosse un compito arduo tradurre il titolo del capolavoro merriliano: quella ambigua, meravigliosa duplicità contenuta nel termine “Hearth” poneva serie difficoltà. Bisognava cambiare tutto. Ovviamente sparare un “Orrore” nel titolo, giusto per sottolineare la corrività della propria inventiva era una delle peggiori scelte a disposizione, e quindi è stata adottata.

Guerra al Grande Nulla/A case of conscience (1953/1958), di James Blish. Non era facile trovare un titolo che banalizzasse (nullificasse...) quello tanto semplice quanto denso di questo romanzo di Blish, una delle opere più interessanti e profonde di quel fertile campo che è la fantascienza che affronta argomenti religiosi. Non era facile, ma alla Nord e in Mondadori ci sono riusciti.

La lampada del sesso/The primal urge (1961), di Brian W. Aldiss. E anche quella di Aladino, no? Un titolo forte, che esprime davvero l'urgenza di un istinto primario che preme per esplodere, si perde in una traduzione che a voler essere generosi si può definire timida e insipida (ma con taaaanta generosità). Per non farsi mancare nulla. Mondadori nell'ultima pubblicazione del romanzo, sui Classici Urania, ha pure rititolato: La lampada dell'amore. Così non manca nulla davvero.

Infinito/Why call them back from heaven? (1967), di Clifford D. Simak. Non si può affermare, in verità, che Infinito sia un titolo brutto. E però avendo a disposizione un titolo così variamente interpretabile, dove si fondono la pura curiosità e l’urlo disperato, l’ambiguità di senso di quel heaven e l’angoscia di quel call back – avendo tutto questo a disposizione, non era così facile scovare un titolo che non dicesse assolutamente nulla e rendere un così pessimo servizio a questo grande capolavoro simakiano. Bisognava mettercisi d’impegno.

Il cacciatore di androidi/Do androids dream of electric sheep? (1968), di Philip K. Dick. In realtà non c’è nulla di sbagliato nel primo titolo italiano del romanzo dickiano. A parte il fatto che nella sua ragionieristica equanimità si perde tutto il portato esistenziale di quella domanda. Si perde la ricerca dell’identità, che il titolo originale sottende. Insomma si perde tutta la forza di quel titolo enigmatico, bizzarro e seducente. Né andrà meglio quando il successo del film partorirà lo scontato Blade Runner; e infine si arriverà a Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, filologicamente correttissimo, ma che nel passaggio tra le lingue si muta in farsesco.

Il signore della svastica/The iron dream (1972), di Norman Spinrad. I nazisti fanno sempre cassetta, e fanno tanto tanto colore. Per cui perché non sbattere in bella evidenza la loro colorita e cassettosa presenza nel titolo? In particolar modo se quello originale possedeva tutta l'evocatività dell'accostamento tra la cupezza metallica suggerita dal ferro e l'ambigua leggerezza di quel sogno.

I reietti dell'altro pianeta/The dispossessed. An Ambiguous Utopia (1974), di Ursula K. Le Guin. Anche dell'altro mondo, volendo. Per carità, il titolo del grande romanzo della Le Guin era impegnativo da tradurre, complesso e articolato di senso com'è. Però magari si poteva fare a meno di trovarne uno così privo di attrattive. E quando hanno deciso di rimediare ne hanno scelto un salomonico che banalizza al cubo: Quelli di Anarres. La cover qui accanto li sfoggia addirittura entrambi.

C'era una volta l'America/Through darkest America (1986), di Neal Barrett, jr. Merita indubbiamente una menzione questo titolo che probabilmente vorrebbe evocare un effetto di nostalgia, annullando, invece, con eco buffonesche la durezza del titolo originale che prefigura l'immersione nel cuore più nero e drammatico della nazione USA. Grazie, Urania.

X/Little brother (2008), di Cory Doctorow. Per chiudere, un esempio fresco fresco che ci viene dalla Newton Compton. Quel “fratellino” originale era senza dubbio una sfida, rimandando sin dal titolo sia al “fratellone” orwelliano che al contenuto di questo romanzo assai anomalo sui giovani, il controllo sociale e l’educazione. Per essere sicuri di operare al peggio, una bella incognita, una bella croce sopra e passa la paura!

sabato 1 maggio 2010

[fantascienza] Precursori – Il parassita (The parasite - 1894) di Sir Arthur Conan Doyle (1859-1930)


Ho sempre avuto l’impressione che, appiattito sulla sua fama di “padre” di Sherlock Holmes, e schiacciato tra i nomi di Jules Verne ed Herbert G. Wells, Doyle sia poco considerato quale anticipatore della fantascienza del XX secolo. Il suo notorio interesse per l’occulto probabilmente fa il resto. Eppure con i romanzi dedicati al personaggio del Professor Challenger, primo tra tutti quel seminale Il mondo perduto i cui riverberi arrivano a noi attraverso Jurassic Park, e con il più tardo romanzo L’abisso di Maracot Doyle occupa un posto di rilievo quale precursore di quella letteratura che diverrà poi la fantascienza.  Né il suo apporto si esaurisce con esso. The parasite, breve novella pubblicata in origine a puntate sulla rivista Harper’s Weekly, è in genere rubricato alla voce “horror”, ma si tratta di un’opera che appartiene senza dubbio alla fantascienza. Anche alla fantascienza: le atmosfere, le suggestioni e lo stile emotivo sono certamente quelle del racconto dell’orrore; ma l’argomento, il carattere di estrapolazione e ragionamento sui confini della conoscenza, nonché le caratteristiche del suo protagonista sono agevolmente ascrivibili al campo della di là da venire science fiction.

Austin Gilroy, il protagonista della novella, è un giovane ricercatore e professore universitario, un fisiologo dal brillante presente e ancor più luminoso avvenire. E’ un campione del razionalismo e dello scetticismo ottocentesco. O quanto meno è ciò che egli ritiene di essere. A Doyle sfugge infatti un po’ la penna, e il desiderio “indecente” di Gilroy, perfino ardente a tratti, di credere a certi fenomeni preternaturali, assume a volte concretezza ed evidenza. Non che la cosa si traduca in un difetto: forse senza che lo scrittore ne avesse l’intenzione, questo tratto della personalità del personaggio che egli gli attribuisce si rivela infatti un sottile elemento di verosimiglianza e complessità psicologica. Gilroy si sforza continuamente di stabilire la dimensione perfettamente materiale, fisica, razionale dei fenomeni nei quali va incorrendo, ma è appunto il profilo psicologico stesso che Doyle gli conferisce, con indubitabile maestria, a confutare la sua filosofia.

Il grande interesse di Doyle per il sovrannaturale è evidente in tutta la novella, come il fatto che in questo stadio della sua vita egli ne è affascinato e coinvolto, ma non ancora al livello estremo dei suoi ultimi anni di vita. Traspare, da queste pagine, l’interesse dello studioso e non la propaganda del fedele.
Illustrazione originale da Harper's Weekly (Howard Pyle)

Nella novella si respira una robustissima aria di fine ‘800, un registro stilistico che, quanto ai contenuti, oggi sarebbe probabilmente impensabile. Un registro stilistico per molti versi più sincero di quanto oggi è comunemente ritenuto accettabile. Gilroy è un personaggio per molti versi prototipico, il classico eroe-scienziato che di lì a poco la narrativa popolare canonizzerà (almeno per qualche tempo). Gli si affiancano l’inevitabile fidanzata dell’eroe – inevitabilmente sfocata e apposta a guarnizione, salvaguardia, e preoccupazione dell’eroe – e il villain di turno. Se nel personaggio di Agatha, la fidanzata di Gilroy, Doyle non fa nulla per uscire dal prodotto in serie, con il professore come già detto svolge ben altro lavoro. E forse ancor più con l’antagonista. La antagonista.  E già la scelta di contrapporre all’eroe una donna è interessante. Per rendere accettabile la cosa lo scrittore scozzese dota Helen Penclosa degli attributi morali – e fisici – del mostro. Attributi che oggi ne farebbero più una vittima, forse perfino del giovane professore stesso. Ma questo è un racconto ottocentesco: quindi è statutariamente un mostro una donna, menomata da zoppia, esteticamente comune fino all’insignificanza, più anziana dell’eroe, consapevole del suo impegno con una giovane e bella ragazza – è un mostro - per principio - una donna siffatta che osi innamorarsi dell’eroe. E che tenti di carpirne l’amore con l’inganno, e, respinta nonostante tutto, si trasformi in una Erinni assetata di vendetta. Doyle non nasconde il disgusto fisico ed il rifiuto estetico, anche crudeli, del giovane scienziato.

E la fantascienza? Helen Penclosa è una medium dai poteri enormi. Mesmerizzatrice, ipnotizzatrice, diviene l’oggetto degli studi scientifici di Austin, che incautamente si sottopone ai suoi poteri per verificarli e poter compiere le sue brave riprove sperimentali. Doyle è molto attento, fiscale perfino nel presentare le parti del racconto dove svolge il suo ragionamento più speculativo. Come non fa prendere una parte definitiva al suo personaggio, non sembra prenderne neppure lui.  I poteri della donna esistono: ella si dimostra davvero in grado di prendere il completo controllo della volontà altrui come affermava di poter fare; però il giovane scienziato, tra un’angoscia e l’altra per ciò che viene costretto a fare dalla medium, continua lucidamente a cercare o quanto meno aggrapparsi all’idea che essi poteri siano perfettamente naturali e in quanto tali investigabili. Trasformato suo malgrado in burattino, reagisce con vera ferocia in una poderosa escalation di emozioni e sentimenti di risentimento e odio, speculari a quelli della sua controparte.
Harper's Weekly, nov.1894

Il solido scheletro (fanta)scientifico viene così rivestito di calda carne romantica, venata da una cifra orrorifica intensa ma costruita con abilità e sapienza. E un certo gusto per stupire, forse anche scandalizzare.

Anche nella risoluzione della vicenda Sir Arthur manterrà l’ambiguità di fondo che percorre il tessuto di tutta la novella: il nodo gordiano in cui i due protagonisti hanno intrappolato sé stessi non viene sciolto né da Austin né da Helen Penclosa, ma più semplicemente dalla casualità della vita, a ribadire dunque la non scelta di campo dello scrittore. E in tal modo viene anche preservata la verginità morale di Gilroy; oggi un riguardo del genere all’eroe non verrebbe concesso e dovrebbe sporcarsi non solo le idee e l’anima, ma anche le mani ;-)

La breve novella può essere letta in inglese a questo (tra i molti) indirizzo: http://www.classic-literature.co.uk/scottish-authors/arthur-conan-doyle/the-parasite/