lunedì 19 ottobre 2009

[fantascienza] I contemporanei - Chernobyl nervosa (Our neural Chernobyl - 1988) di Bruce Sterling (n.1954)

"Visti in retrospettiva, la fine del ventesimo secolo e i primi anni del nostro millennio formano un'unica epoca. Questa infatti era l'Epoca dell'Incidente Consueto, periodo durante il quale la gente accettava con allegra leggerezza rischi tecnologici che oggi verrebbero considerati pura follia."


La fantascienza è una letteratura escapista, che parla di improbabili futuri, alieni bizzarri e astronavi che viaggiano alla volta di galassie lontane. Sarà. Cioè, sarà così per chi non ne ha mai letta una riga. O per chi non ne ha capito un tubo. L'incipit di Our neural Chernobyl è una delle migliori definizioni di fantascienza che io abbia mai letto: un continuo riflettersi di passato, presente e futuro, in un gioco di specchi. Gioco speculativo ed estrapolativo. Tutto questo non esclude minimamente il sense of wonder; né implica che non vi siano storie leggere o puramente avventurose, sia di perfettamente godibili che di ignobili (il cinema, di queste ultime, ne sforna a getto continuo). Ma il nucleo, il nucleo filosofico oserei dire, della fantascienza, è tutto racchiuso in quelle poche parole all'inizio del racconto di Sterling: usare la lente d'ingrandimento del futuro per indagare sul presente e riflettere sulla natura dell'uomo, nel passato come sempre.


Grande Babalao* del cyberpunk, di cui curò l'antologia-manifesto, Mirrorshades, Bruce Sterling è una figura esemplare di intellettuale impegnato; ma non nel senso dispregiativo che qui da noi in Italia - giustamente - quasi sempre si accompagna alla definizione. L'autore americano ha costantemente affiancato a quella di scrittore un'attività, forse addirittura prevalente, di operatore culturale militante nello studio e nella diffusione delle conoscenze in merito alle nuove tecnologie e, ancor più, ai loro riflessi sociali ed economici. Un'attività di sensibilizzazione sulle potenzialità della scienza e della tecnologia e i pericoli di un loro uso distorto a opera di potentati economici e politici.


Chernobyl nervosa
è un ottimo esempio, sul piano invece dell'opera letteraria, di questa sua tensione, questo interesse per una presa di consapevolezza del grande potere che scienza e tecnologia hanno posto nelle mani dell'uomo. Il racconto si presenta sotto forma di articolo giornalistico/recensione libraria di un saggio di storia della scienza scritto da un guru della neurochimica del futuro prossimo, a proposito della "Chernobyl nervosa". Sterling è lontano qui, dai labirinti algidi e dalle piste infinite di bit della realtà virtuale, il topos che generalmente è associato all'estetica cyberpunk. E' dalla chimica e dalla biologia, dal sottobosco della genetica affrontata con la leggerezza incosciente della sfida intellettuale vissuta per gioco e gusto del pericolo (dalla hybris in ultima analisi) che scaturisce la "Chernobyl nervosa". Sfruttando i meccanismi di riproduzione del codice genetico del virus dell'AIDS, viene creata una sorta di "droga" in grado di moltiplicare a dismisura le cellule e i collegamenti neuronali collegati all'intelligenza. Tutto molto bello? Non esattamente. Gli esseri umani hanno sviluppato, a quanto pare come effetto collaterale della loro storia evolutiva, una resistenza naturale a tale "droga", e la trasmissione del "virus" da individuo a individuo è, nella specie umana, molto rara. Per fortuna, perché gli effetti della "droga", sintetizzata da un supernerd tanto genialoide quanto socialmente disadattato, causano una sorta di stupore catatonico da eccesso di intelligenza. Per sfortuna, però, gli esseri umani possono trasmetterlo agli animali. E ovviamente accade subito. Cani e gatti paiono sotto controllo; ma in pochi decenni simpatici animaletti come coyote, gatti selvatici, procioni sembrano aver compiuto un progresso evolutivo normalmente stimabile nell'ordine dei milioni di anni. L'uomo non è più solo. O non lo sarà. Per fortuna, di nuovo, il loro robustissimo sistema immunitario pare rendere i ratti refrattari agli effetti dell'"infezione". E i nuovi gatti dovrebbero risolvere il problema ratti prima di un'eventuale caduta delle loro barriere immunitarie.


Questa la trama, in fondo piuttosto semplice e quasi banale, comune a tante storie di scienza malvagia o impazzita. Quel che un riassunto non può comunicare è l'ironia, a tratti decisamente feroce, di Sterling. Né la profondità della sua analisi sociale e psicosociale. L'artificio dell'articolo/saggio è particolarmente efficace perché permette all'autore di esercitare un distacco che assume naturalmente il tono dell'autorevolezza. Un tono che gli consente di frustare questi nostri tempi superficiali e pericolosi con una cattiveria fredda e quasi crudele. L'ironia è però l'arma che Sterling utilizza per schiaffeggiare anche la boria del suo recensore, uomo del tardo XXI secolo (nel quale, ancora, inevitabilmente è ritratta la nostra boria, il senso di onnipotenza che ci sta invadendo - o forse meglio, che ci stava invadendo nel 1988). In un finale che non svelo, la punizione di questa acribia appare decisamente dura. Così come l'ingenuità del recensore ci appare particolarmente... nostra.


Sterling non ricalca il cliché, diffuso molto oltre quanto sia lecito attendersi, dello scrittore di fantascienza sospettoso della scienza. Egli non sospetta della scienza, ma, molto correttamente, dell'uso che l'uomo può fare di quel prodotto della scienza che è la tecnologia. La contromisura, lampante, è l'uso della ragione e lo sviluppo della conoscenza. O se si preferisce, è la consapevolezza. Consapevolezza cosciente, in primo luogo, che nulla deve mai essere dato per scontato, e che l'attenzione deve essere tenuta sempre desta.


Raccontata così, sembra una tirata moralistica, ma a leggere il racconto non si ha mai un'impressione del genere. Lo stile sferzante di Sterling pressa il lettore e lo sollecita a seguirlo in quella che realmente è un'affascinante avventura intellettuale. Un'ipotesi ardita, ma che giorno dopo giorno appare sempre più possibile. Non sarà questa, sarà un'altra. Simile o non troppo simile. Ma ugualmente pericolosa, se non ne avremo consapevolezza. Il cerchio è chiuso. Il nostro passato, il nostro presente, il nostro futuro, la natura dell'uomo li attraversa; la natura dell'uomo deve mutare oggi che la scienza ci ha posto in mano strumenti di una potenza mai sperimentata in precedenza. Dobbiamo dimostrare di non essere solo capaci di fare la scienza, ma anche di comprenderne le implicazioni. E quindi di padroneggiarne i risultati ai fini di una loro reale utilità. Non sotto il profilo bruto del loro utilizzo materiale, ma delle conseguenze di lungo periodo. Che magari non riguardano noi tutti, ma la discendenza di tutti noi.


Il racconto è apparso in Italia sul Millemondinverno 1989 di Urania, ed è stato successivamente ristampato in più occasioni. La versione originale è online in formato pdf a questo indirizzo:

http://www.kenshinvu.com/download/matrix/Science%20Fiction%20&%20Fantasy%20eBook%20Master%20Collection%20M-Z/Sterling,%20Bruce/Bruce%20Sterling%20-%20Our%20Neural%20Chernobyl.pdf


* http://en.wikipedia.org/wiki/Babalao

domenica 18 ottobre 2009

[fantascienza] Il classico – La professoressa marziana (And madly teach - 1966) di Lloyd Biggle, Jr. (1923-2002)

La scuola e l’insegnamento non sono materie trattate di frequente dalla fantascienza. E’ singolare, perché se vi sono un luogo e un campo nei quali programmiamo il nostro futuro, è proprio lì dove e in qual modo avviene la trasmissione ai nostri figli del legato delle innumerevoli generazioni umane che li hanno preceduti.


Una piacevole incursione nei poco praticati argomenti fu l’antologia Il compito di latino assemblata da Vincenzo Campo e pubblicata nel 1999 da Sellerio (bei tempi quando la Sellerio pubblicò sf; questa piccola antologia è di qualche anno successiva alla chiusura dell’ottima e di troppo breve durata collana che l’editrice siciliana dedicò alla fantascienza). Frammisti a racconti di fantascienza, tra i quali spicca Associazione genitori e insegnanti, uno dei più noti di quell’autore geniale e bizzarro che fu Raphael A. Lafferty (indicato nel libro, ahinoi, come Robert), vi sono diversioni sul tema anche nell’horror e nel fantastico puro, come il gioiellino eponimo opera del talento di Montague Rhodes James. Tra quelli di fantascienza vera e propria, vi è la novelletta di Lloyd Biggle, il testo più lungo della raccolta.


Pubblicato in Italia con relativa frequenza sin quasi dal suo esordio letterario, Lloyd Biggle, Jr. è stato senza dubbio un autore minore, ma non immeritevole. Nella Encyclopedia of Science Fiction John Clute, che ben di rado è tenero e accomodante nei giudizi, scrive non a caso che le sue storie sono spesso “competent but undemanding” e “often convey the sense of an unrealized greater potential”: perfettamente centrato. I suoi limiti sono stati dovuti probabilmente anche a una prolificità eccessiva, che fatalmente scontava con una mancanza di profondità e una qual anonimità di ispirazione. A volte però si è innalzato un pelino oltre quel livello di competenza e leggerezza di cui scrive Clute. E’ il caso di questo racconto lungo.


Mildred Boltz è vissuta su Marte per un quarto di secolo, e lì ha insegnato inglese e materie umanistiche, alla vecchia maniera, in classe, amando i suoi ragazzi e confrontandosi quotidianamente con l’arduo compito di insegnare loro. Magari, di insegnare a imparare e ad amare lo sconfinato frutto della creatività umana, prima e più che di insegnare nozioni. Poi le sue condizioni di salute si sono deteriorate troppo per un aspro mondo di frontiera quale il Pianeta Rosso, e Mildred deve tornare sulla Terra, per essere reintegrata nel corpo insegnante del pianeta madre. E sulla Terra le cose sono cambiate assai. Non si fa più lezione in classe, ma in tv, a decine di migliaia di allievi contemporaneamente che seguono il professore comodamente da casa; il sistema educativo è ferocemente “meritocratico”, e la valutazione degli insegnanti è fatta in base a una sorta di indice Auditel delle loro lezioni… Ora immaginate, Mildred è della vecchia scuola, ma non è un dinosauro: è un’insegnante competente e innamorata della sua professione, e desiderosa di trasmettere a degli studenti quel che sa di poter trasmettere; e non ha nessuna intenzione di farsi mettere da parte come un fossile dei tempi andati. Il suo capo non può disfarsi di lei perché il suo contratto è, per così dire, a tempo indeterminato, diversamente dai suoi giovani colleghi, precari appesi al filo delle loro prestazioni e tutti tesi a trovare al più presto un lavoro fisso. Anche Mildred può essere però cacciata se scende al di sotto di un certo livello di rendimento secondo i risultati del Trendex (l’auditel di cui sopra); e dovrà lottare contro questa minaccia.


Le vicissitudini di Mildred che scaturiscono da questa situazione di partenza non sono di soverchia importanza, neppure quelle che la portano a ricreare una sorta di classe vecchio stile e lasciano intravedere una futura inversione di rotta nella politica educativa; né lo è la delicatissima storia d’amore tra l’attempata protagonista e l’altrettanto attempato Jim Pargrin, tecnico dei rilevamenti del Trendex e cavaliere in armatura scintillante al soccorso di Mildred in pericolo. Qui senza dubbio Biggle fa uso di quel mestiere abile ma scarsamente impegnativo e lascia intravedere un potenziale che non sa esprimere con compiutezza, o per il quale semplicemente non si concede il tempo necessario a una più complessa elaborazione. I personaggi non oltrepassano la dimensione di bozzetti amorevolmente torniti e privi di un carattere deciso e completo delle necessarie sfumature e approfondimenti; la scrittura è essenziale e senza fronzoli.


Più interessante è il cuore tematico della novelletta. La tv non rappresenta oggi una nuova tecnologia (anzi…); e neppure al tempo in cui Biggle scrisse La professoressa marziana poteva dirsi molto recente. Tuttavia ciò che rileva è il nucleo speculativo: quali novità, quali effetti, quali eventuali vantaggi e quali eventuali distorsioni può comportare una nuova tecnologia, nuovi media, sui metodi educativi e sulla scuola? Quale impatto hanno su di essa e sui sistemi di insegnamento le evoluzioni dell’organizzazione socioeconomica? Oggi può essere internet, nel 1966 Biggle pensava alla tv (e domani chissà); ma cambia poco: la sostanza della riflessione è che le novità della tecnologia e delle comunicazioni sono in grado di stravolgere ogni aspetto della nostra società, a partire da quello attraverso il quale programmiamo il futuro - i classici hanno questo, che non invecchiano all’invecchiare degli spunti narrativi contingenti da cui prendono le mosse. La scuola a mezzo tv ha anche spezzato in due la società, perché chi è veramente ricco può permettersi di mandare i propri figli nelle scuole private dove l’insegnamento è impartito in modo più tradizionale, e dove si forma e si perpetua l’èlite al potere. Una situazione che appare oggi molto meno fantascientifica…


Biggle sembra risolvere il tutto con un classico inno ai bei tempi andati, ma a una lettura attenta non è proprio così. O non completamente così. Seppure solo per sommi cenni, lascia intendere che possono esservi anche aspetti positivi nella Nuova Scuola. Il racconto non si conclude con una restaurazione, ma con una raggiunta consapevolezza da parte dei responsabili della politica educativa di un necessario ripensamento delle modalità dell’insegnamento. Non è un male aggiungere ciò che di buono possono apportare le tecnologie più avanzate; non è un bene disfarsi dei risultati storici solo perché passati. E’ sicuramente un’idiozia sprecare il potenziale rappresentato dalle generazioni a venire solo perché ciò si traduce in un risparmio economico immediato.


La professoressa marziana fu pubblicato una prima volta in Italia oltre quarant’anni fa, sul n.493 di Urania, sempre con questo banalissimo titolo, di sicuro preciso e rispondente al vero, ma desolatamente povero delle sottili implicazioni di quello originale. In Italia siamo specialisti nel trovare sempre le peggiori soluzioni di traduzione possibili.

venerdì 16 ottobre 2009

[fantascienza] I contemporanei - Giza (Id.2003), di Joe Haldeman (1943- )













E' un piccolo racconto di un grande della fantascienza. Piccolo per brevità: nelle sue poche pagine è un ottimo esempio dello stile e della personalità narrativa di un autore che sa amalgamare al meglio riflessione politica e sociale, grande avventura e ironia.
E che scrive con l'eleganza e la chiarezza di una nitida asciuttezza di stile e linguaggio.

Joe Haldeman pubblicava da qualche anno quando, nel 1975, il suo primo romanzo di fantascienza, Guerra eterna, lo proiettò nell'olimpo degli scrittori più stimati del campo. Il romanzo, cui molti anni dopo darà dei seguiti, è una delle opere più interessanti della letteratura militare, spesso indicato come contraltare a Fanteria dello spazio di Robert Heinlein. Oltre a essere uno dei veri classici della sf. Haldeman lo scrisse ispirandosi alla sua esperienza di geniere decorato nella guerra del Vietnam, e il libro riflette tutto il suo analitico disincanto sulla guerra; ed è inoltre un testo ricco di avventura e soffuso di acuta ironia, come accennavo a proposito delle caratteristiche del Nostro. Nei decenni successivi Haldeman ha costantemente confermato la sua statura e il successo di stima e di pubblico per le sue opere, tra le quali negli ultimi anni si è segnalato il romanzo I Protomorfi, pubblicato in Italia all'inizio dello scorso anno su Urania, una delle più interessanti storie di invasione aliena che abbia letto, nonostante un finale - proprio l'ultima pagina - che appare stonato rispetto a quanto visto fin lì. Ma una rilettura si impone per una valutazione più attenta.
Autore soprattutto di romanzi, Haldeman non ha scritto moltissimi racconti, seppure in una carriera ormai quarantennale il loro numero sia ormai abbastanza nutrito. Giza è stato pubblicato in origine sull'Isaac Asimov's Science Fiction Magazine, e poi raccolto nella sua attualmente ultima antologia edita: A separate war and other stories, che accoglie anche la breve novella eponima, ultimo capitolo a oggi del ciclo della Guerra Eterna. Il volume è stato tradotto in Italia come Guerra eterna: ultimo atto e pubblicato a febbraio su Urania n.1543, ottimo tassello dell'eccellente annata 2009 della rivista.

Il racconto non ha nulla a che fare con l'Egitto dei Faraoni. Giza è il termine con il quale preferiscono identificarsi i "fantasmi", esseri umani geneticamente progettati per la vita nello spazio. Nella seconda metà del XXI secolo la scienza genetica e la logica del profitto economico hanno concluso un ferreo matrimonio, che va a saldarsi con le aspirazioni di rivalsa e le bizzarrie della psicologia umana: nella Spagna, far-west della manipolazione genetica, molti Baschi accettano di sottoporre la propria prole alle profonde modificazioni genetiche necessarie a creare una specie umana in grado di lavorare e vivere stabilmente nello spazio su asteroidi-miniera; una variante di veri e propri freaks dal punto di vista fisico, umani del tutto inadatti alla vita sulla Terra. Bisogno di distinguersi, desiderio di riscatto etnico e storico, aspirazione alla conquista della frontiera ultima: motivazioni che si intrecciano e uniscono alla centralità della diversità nella definizione della propria identità di nazione. Isolamento e separatezza, luoghi psicologici prima e molto più che fisici per una popolazione che la separatezza e l'isolamento sperimenta da diverse migliaia di anni, da quando sono rimasti i sopravvissuti preindoeuropei all'espansione indoeuropea nel nostro continente. La realtà che andranno a vivere sarà meno rosea ed esaltante di quanto i genitori della prima generazione di "fantasmi" baschi sperassero per i figli. Ma tuttavia la vita sull'asteroide ferroso Quetzalcoatl non si tradurrà in una realtà troppo cattiva.

In poche pagine, quasi poche righe, Haldeman condensa un piccolo saggio di psicologia sociale ed etnologia. In estrema sintesi, ma in modo chiaro e articolato, osserviamo le dinamiche sociali che sviluppano i giza attraverso le generazioni. Il rifiorire dell'ancestrale religione basca con i suoi riti; lo sviluppo di un'agricoltura di sussistenza a fianco del florido interscambio commerciale con la Terra e dello sfruttamento sempre più intenso del planetoide dovuto anche, in un vero e proprio loop, alla sovrappopolazione; la divaricazione in caste della società giza, pur priva di conflitti sociali, che conduce allo sfruttamento, da parte degli strati sociali che controllano la sofisticata tecnologia mineraria, del ceto più basso e oppresso dalla sovrappopolazione. Particolarmente ai fini di un vero e proprio turismo della morbosità, che accelera il primitivizzarsi della loro cultura: ovviamente più essi appaiono strani e primitivi, più turisti attirano, e quindi anche qui si innesca il circolo vizioso. Si combinano gli effetti di isolamento culturale e scambi a senso unico e sbilanciati, di frugalità e peculiare agiatezza, di arretratezza intellettuale e sociale e almeno entro certi limiti di tecnologia altamente evoluta. Fenomeni non troppo dissimili da quelli che storia e cronaca possono mostrarci. La diversa alimenta sé stessa.
Per generazioni la vita dei giza sarà via via più caratterizzata da questa tendenza allo scorrere su un doppio binario di sottosviluppo e di sviluppo. Non una vita troppo buona, ma certamente non una vita così cattiva. Di sicuro una vita per la quale essi erano adatt(at)i.

Poi, la nona generazione si scoprirà sterile in ogni suo individuo. Che ciò fosse stato pianificato dall'inizio o si trattasse del risultato di un errore dei genetisti progettatori ha poca importanza: quel che Haldeman pare riassumere è che per i propri (gli eterni) fini economici la nostra civiltà plasma, modifica, brutalizza le culture (e divora i propri figli). Scientemente o per superficialità, i risultati non cambiano: siamo vittime di una coazione a ripeterci. La conclusione del racconto sarà tanto lucidamente amara (sul piano più generale della dimensione umana tutta) quanto beffardamente cinica (su quello dell'aderenza ai modelli psicologici di popolazioni peculiari). L'ombra del periodo in cui Haldeman scrisse il racconto, alla metà di settembre 2001, è innegabile. Speriamo non sia una conclusione profetica.

lunedì 28 settembre 2009

[fantascienza] Il classico - Le auree mele del Sole (The golden apples of the Sun - 1953) di Ray Bradbury (1920 - )

I libri donano piacere a chi li ama. A leggerli. A guardarli, anche. Alcuni a soppesarli in mano, leggeri con copertine lucide, fresche; o alle volte solidi, spessi, la copertina un po' ingiallita e ferita dal tempo, illustrazioni che testimoniano un gusto un po' passato, ma anche una sorta di calda e confortevole personalità del volume. E' il caso della storica edizione dello S.F.B.C. (Science Fiction Book Club) di una storica antologia braduryana, Le auree mele del sole. Alcuni libri acquistano vigore con il tempo; o più precisamente un sapore deciso e definito, come un vino che invecchia bene nella sua botte. E' di nuovo il caso di questo volume, stampato or sono quarantacinque anni, che talvolta riprendo in mano sfogliandone piano qualche pagina a caso, invecchiata e ammantata da quella patina di incanto anacronistico che hanno le vecchie storie di fantascienza; leggendo qui e là qualche riga. Ieri mi sono soffermato qualche secondo di più, e ho preso a rileggere l'ultimo racconto del volume, quello che gli dà il titolo. Appartiene, il racconto come l'antologia, al periodo del maggior fulgore di Bradbury, tra la metà degli anni '40 e la metà dei '50 del secolo scorso.

Non credo di dover presentare l'autore. Ancora oggi credo che sia, come sottolineava anche allora il prefatore del volume, l'autore di fantascienza più noto al di fuori dell'ambito dei fan della fantascienza; e questa è forse una delle cause per le quali, tra costoro, Ray Bradbury è probabilmente più famigerato che famoso: Bradbury si emancipò rapidamente dal mercato delle riviste di settore, povero di compensi e inevitabilmente spesso di bocca buona, scrivendo copiosamente per le pubblicazioni più prestigiose degli Stati Uniti, dal New Yorker a Collier's a, in seguito, Playboy (ma questo racconto, l'oracolo della fantascienza italica Vegetti lo dà pubblicato in origine su Planet Stories, rivista pulp quanto altre mai); e questo per i fan è tradimento. Del resto, i fan sono quei bizzarri individui per i quali l'universo coincide con la loro ossessione a senso unico, quindi trascurarne i furori è virtù ;-). Certo, loro - e con loro i colleghi di Bradbury - si sono vendicati: l'autore delle Cronache Marziane non ha vinto un premio Hugo o Nebula che sia uno; i colleghi lo hanno tuttavia onorato con quel titolo di Grand Master che la fama e le sue opere gli avevano meritato.

Un secondo più specifico e più sensato motivo di disagio per i fan è dato dalla natura della narrativa bradburyana, sempre al confine tra la fantascienza e una dimensione più libera, più liberamente fantastica. Sfugge a ogni facile catalogazione, e questo la rende scomoda, provoca sofferenza intellettuale al pensiero di non sapere se sia science fiction oppure fantasy - perfino horror. Al di fuori di scopi di mera catalogazione, anche questo aspetto può essere però accantonato con tranquillità: che sia l'una o l'altra, la sua lettura è un piacere che a volte sconfina nella pura sensualità.

Le auree mele del sole in questo è un racconto esemplare. C'è un'astronave piena di intrepidi astronauti, e questo è naturalmente molto fantascientifico. Tuttavia L'interesse di Bradbury per lo specifico fantascientifico è nullo, e del resto le sue descrizioni tecniche e scientifiche sono quanto meno fantasiose e servono ad affascinare e non certo a spiegare alcunché - Bradbury non è certo un uomo di scienza. Il breve racconto narra di una spedizione, nientemeno, verso la nostra stella, allo scopo di catturare l'essenza stessa del Sole: il suo fuoco eterno dove avviene la fusione atomica, Sacro Graal per un'umanità affamata di energia. Questo è tutto, e tutto quanto serve. Ciò che nelle mani di uno scrittore di sf ortodosso sarebbe un'impresa scientifica e tecnologica senza pari da descrivere, per Bradbury è materia scelta di invenzione squisitamente poetica. Space-opera che in qualche modo coinvolgano la realtà fisica del Sole o altra stella sono prevedibilmente poche, e può essere interessante confrontare questo racconto con Il Sole è abitato (1942) di Hal Clement, forse il più ortodosso degli scrittori di fantascienza hard, al cui confronto Arthur Clarke potrebbe sembrare un poeta filosofeggiante; il racconto di Clement è reperibile nella celebre Antologia Scolastica curata da Isaac Asimov (le ultime edizioni italiane sono state rititolate Dove da qui?, in modo più aderente al titolo originale). Le auree mele del sole è scritto nell'inconfondibile stile dell'età migliore di Bradbury, inconfondibile persino oltre la traduzione: le frasi, i vocaboli, le atmosfere bradburyane resistono al passaggio e restituiscono sempre una profonda impressione unitaria di amore smodato per la parola e per il narrare. Bradbury è sempre in primo luogo uno scrittore; uno scrittore innamorato del suo mestiere, che con costanza manipola, batte, assembla, cuce assieme aggettivi e verbi alla ricerca del risultato ogni volta esteticamente più soddisfacente. Un Narciso che vi si specchia dentro. A prima vista la sua scrittura può apparire superficiale, un puro esercizio di bello stile e ricercata letterarietà allo scopo di incantare il lettore come il proverbiale serpente ipnotizzato dalle movenze dell'incantatore. Tuttavia sarebbe questa a essere una letteratura superficiale. Tra una citazione colta e l'altra, a partire da quella programmatica di Yeats che ispirerà al capitano dell'astronave l'elegia in morte del suo primo ufficiale, Bretton, Bradbury pare farsi autenticamente poeta, nel senso antichissimo dei cantori creatori di miti. Come le sue migliori opere, Le auree mele del sole, è proprio questo: un mito: di cui ci viene mostrata la genesi. Bradbury prende nelle sue mani la punta più avanzata dell'immaginario avventuroso dell'epoca - il viaggio spaziale - per ricavarne, o meglio per forgiarne, una mitologia ad essa adatta. Confluiscono così in questa sorta di letteraria coppa alchemica, che rimanda a quella solare, le suggestioni della cerca del Graal; il senso prometeico della sfida all'indicibile - non più il dio olimpico, ma l'astro apportatore di luce e vita; la duplicità del viaggio di Odisseo - ricerca della conoscenza e tensione verso il nòstos, il ritorno alla propria casa. Per questo il suo capitano resta anonimo, anonimo declamatore di scheggie liriche che sembrano versi di epiche del passato: riassume in sé tutti coloro che l'hanno preceduto nella Ricerca, per mare o per terra, e per lo spazio (e coloro che a lui seguiranno). Bradbury ci riconduce in tal modo alle radici della letteratura occidentale; per questo il suo lirico fraseggiare non scade nella leziosità - a meno che l'ispirazione non faccia un sonnellino - e ci porta invece l'eco lontana di quelle antiche scaturigini. Per questo le frasi dell'ignoto capitano dell'astronave sfuggono al loro retorico abito palese per rivestirsi con sincerità di dignità poetica.

Un distillato di simboli leggendari e suggestioni verbali è quanto risulta dunque dall'assemblaggio che Bradbury fa dei materiali mitopoietici più antichi e più moderni di cui si serve allo scopo. La narrazione bradburyana ammalia il lettore anche lontano da quel magico rurale del suo natio Illinois. E' anche fantascienza? Con la fantascienza, in particolare quella sua coeva, condivide con certezza gran parte del corredo genetico: il senso del meraviglioso; la costruzione di storie che eccedono la realtà; l'immaginazione di una frontiera umana oltre i limiti del quotidiano; la sfida baldanzosa all'ignoto; il gusto di stupire il lettore con voli pindarici dell'immaginazione che veniva a tanti scrittori della generazione di Bradbury dalle letture fatte da ragazzi sulle riviste pulp. Forse per il fan non basta e addirittura è un tradimento; per me è sufficiente. E davvero io non sono un appassionato di fantasy :-).

sabato 19 settembre 2009

[fantascienza] Retrofuturo (1999) di Vittorio Curtoni (n.1949)

Un recupero d'annata: queste impressioni le scrissi di getto più di dieci anni fa, dopo la lettura del libro, e le postai sul newsgroup it.cultura.fantascienza; poco dopo Silvio Sosio mi invitò a pubblicarle su Delos: http://www.fantascienza.com/delos/delos45/retro2.html. Le ripropongo con un minimo di ripulitura.

Piacere, angoscia, dolore, felicità. Queste ed altre sensazioni si mescolano, si alternano, si scambiano le parti nella lettura di questo libro, uno dei più intensi che mi sia capitato di leggere. E un evento per la fantascienza italiana, dato che Vittorio Curtoni è così avaro dei suoi sogni ed incubi e distilla le sue storie col contagocce, quasi sadicamente. Del resto tutti i racconti di questa antologia tranne uno erano già stati pubblicati negli anni passati; quindi anche in questa occasione il nostro ci appare avaro della sua arte - perchè la scrittura di Curtoni e' arte: uno dei pochi autori di sf che mi diano questa sensazione. Ma un'antologia strutturata come lo è questa, con la presentazione cronologica dei racconti, accompagnati dalle riflessioni dell'autore a fare da tessuto connettivo, è di per sè una novità, permettendo di ripercorrere passo passo il cammino umano e artistico dell'autore, di coglierne l'evoluzione. Molti dei racconti, infatti, avevo già avuto occasione di leggerli; ad esempio i tre tratti dalla sua antologia La sindrome lunare di parecchi anni fa, all'epoca mal compresi, per inesperienza o per chissà quale motivo.

Rileggerli oggi, insieme agli altri, fornisce una nuova prospettiva e permette di cogliere il rigore e la dignità di ciascuno; e la coerenza del disegno d'insieme che da trent'anni Curtoni sta costruendo con i suoi sparsi racconti.

Un tema su tutti sembra percorrere quasi la totalità degli scritti raccolti: il Tempo, e la sua fedele compagna: la Memoria. Tempo che si rincorre, si confonde, si sfalda e si ricompatta. Curtoni attinge dal passato per parlarci del presente attraverso gli occhi del futuro, come nel racconto Il tempo dell'astronave, un vero e proprio manifesto sull'intrecciarsi dei tempi della memoria (oltre che riflessione sulle paure, le pigrizie, ma anche la dignità dell'umanità). Ma la prospettiva è cangiante, e dopo un attimo diventa l'uomo del futuro che ci parla del passato attraverso gli occhi del presente; come in uno dei racconti più belli della raccolta: La dignità della volpe, dove per un attimo, proprio il rigoroso Curtoni sembra arrendersi alla facile tentazione della retorica e del moralismo a buon mercato. Ma è solo un bagliore ingannevole. Con una brusca sterzata si riprende e ritrova intatta la sua lucidità e la sua voglia di incazzarsi (e lui per primo si definisce incazzogeno in una delle riflessioni che accompagnano la lettura dell'antologia). E la perdita della memoria, intesa come incapacità dell'uomo di conservare la cognizione della propria
umanità, abbandonandosi alla narcosi ed al conformismo dell'omologazione delle coscienze, è al centro de La sindrome lunare - a distanza di tanti anni, forse ancora il suo racconto più lucido e forte.

C'è una definizione che Stanislaw Lem coniò per Philip Dick, l'unico autore americano che egli stimasse: visionario tra i ciarlatani; ebbene credo che questa definizione si adatti perfettamente anche a Curtoni.

Molti altri temi sono poi presenti, e la struttura cronologica del libro permette di coglierne l'evoluzione con l'evolversi dell'uomo Curtoni; che accetta - attraverso le sue opere - di svelarsi completamente. Come in Dal rabbino, cronaca trasposta di una serata tra amici, ma nella quale Curtoni riversa tutta la forza della sua capacità di riflessione sui bisogni, le pulsioni, gli amori, le debolezze e i punti di forza dell'uomo. E la struttura cronologica ci mostra la crescita di Curtoni uomo: dalla violenza, verbale e concettuale, degli esordi - rappresentata da un racconto come L'esplosione del minotauro, che colpisce l'immaginazione con tutta la sua carica di violenza del rapporto irrisolto con la figura paterna; conflitto portato alle sue estreme conseguenze - alla rasserenata pacatezza degli ultimi racconti. Pacatezza che non vuol dire perdita della capacità di indignarsi; chè quella rimane sempre presente, ma piuttosto pacatezza verbale, dell'uomo che ha preso coscienza della finitezza dell'Uomo, senza rinunciare a denunciarla, questa finitezza. E senza rinunciare a far sentire - occasionalmente - tutta la forza degli esordi, come si vede nell'ultimo racconto, l'unico inedito: Ti vedo, la cui carica di violenza non e' certo inferiore a quel primo L'esplosione del minotauro, a chiudere simbolicamente il circolo del Tempo: con il presente che va a ricongiungersi col passato, per parlarci ancora una volta del nostro futuro. Ma solo fino alla prossima volta, quando i termini cambieranno di posto nuovamente...

E' tempo sicuramente che questo libro sia ristampato.

sabato 12 settembre 2009

[fantascienza] Il classico - Peter Kampf lo sapeva (Peter Kampf lo sabía) di Carlos Trillo (n.1943) e Domingo "Cacho" Mandrafina (n.1944)

Pubblicato su ubcfumetti: http://www.ubcfumetti.com/historietas/?15439


La satira è uno scudiscio sottile... o un colpo di maglio nello stomaco

"JOHN WAYNE FOR PRESIDENT" - 1953, una New York tappezzata di manifesti elettorali preludio all'elezione a presidente degli Stati Uniti di un attore fascista è il set nel quale Carlos Trillo ambienta una delle sue - e non solo sue - più belle storie di fantascienza a fumetti.

Negli anni in cui Trillo scrive Peter Kampf lo sapeva e Domingo Mandrafina ne disegna le tavole, gli elettori statunitensi eleggono alla presidenza Ronald Wilson Reagan. Una metafora ovvia, perfino banale; ma che la feroce narrazione a contorno di Trillo mantiene inalterata in tutta la sua abrasività.

Quarantasei pagine a fumetti, una vicenda densa all'inverosimile e compressa ai limiti, eppure sempre nitida e perfettamente chiara nell'intrecciarsi, dipanarsi e risovrapporsi dei piani narrativi, dei rimandi di genere e interni al fumetto. Le letture che possono darsi di questo breve capolavoro sono molteplici: tutte legittime, e probabilmente ancora più legittime se tenute contemporaneamente presenti.

Un "classico" della fantascienza

La storia alternativa è un genere nobile e antico della fantascienza, e un suo sottogenere tutto particolare e fecondo è rappresentato da quelle storie che ri-narrano le vicende legate al nazismo - che la guerra conosca un esito diverso o magari non abbia del tutto luogo, a causa in genere di un destino differente del fondatore del nazionalsocialismo.

Come nessun'altra formula, la satira in chiave fantascientifica dà corpo alle lezioni sempre ignorate della Storia.

Gli esiti letterari sono stati i più diversi, dall'abominevole Fatherland di Robert Harris all'affascinante e notissimo La svastica sul Sole di Philip K. Dick (per quanto si tratti di una delle rare opere sopravvalutate dell'autore); dal più recente, intenso e psicologicamente articolato La parte dell'Altro di Eric-Emmanuel Schmitt al duro, perfino sgradevole capolavoro di Norman Spinrad Il signore della svastica, opera quest'ultima, che nel presentare un Adolf Hitler romanziere in terra americana trova un punto di contatto con il fumetto di Trillo e Mandrafina, dove negli anni '20 Hitler è divenuto un autore di strip per i quotidiani USA.

La prima e più evidente chiave di lettura offerta è dunque questo esercizio di riscrittura della Storia. Esercizio sempre affascinante per i suoi risvolti psicologici, sociali e ancor più scenici, ma sempre a rischio di risolversi nella sterilità di un gioco fine a sé stesso. Rischio che Trillo evita senza sforzi, costruendo attorno all'assunto di base una ragnatela di analisi sociali, riflessioni metanarrative, sarcasmo acido e, perfino, un anelito di speranza.

Gli Stati Uniti reali del 1953, quelli della nostra linea temporale, vedono il convergere degli intenti di due personaggi, assurti a posizioni di grande potere nonostante si tratti di elementi caratteriali, personalità borderline, marginali: il direttore dell'FBI J. Edgar Hoover e il suo burattino, il senatore Joseph McCarthy; nell'America di Trillo un emigrato tedesco divenuto potente pubblicitario, Joseph Goebbels, mette le risorse della sua macchina propagandistica a disposizione di un reazionario attore hollywoodiano, John Wayne, nella scalata alla presidenza sull'onda di una campagna elettorale razzista all'estremo, al punto che Trillo e Mandrafina ne danno una rappresentazione caricaturale, traendo il massimo impatto drammatico della forza della caricatura. Chissà se sarebbe potuto succedere anche nella nostra linea temporale se Adolf Hitler non fosse stato il leader della Germania nazista e fosse invece divenuto un fumettista americano autore di una striscia dai contenuti violenti e razzisti.

Carlos Trillo

Anche Frederik Pohl e Cyril M. Kornbluth lo sapevano

Pubblicità/propaganda: il punto di contatto tra politica ed economia

Né Goebbels né i pubblicitari di Madison Avenue sono gli inventori delle falsificazioni a fini propagandistici; possono averle portate a un livello di scienza esatta, ma il principio per cui una menzogna ripetuta abbastanza volte si trasforma in verità è valido da millenni; così come i "poteri" della pubblicità sono disvelati in tutta la loro pericolosità nella feroce satira de I mercanti dello spazio che Frederik Pohl e Cyril M. Kornbluth pubblicano nello stesso anno in cui Trillo ambienta la sua opera. Il Goebbels di Trillo fa uso dei delirii antisemiti dell'oscuro fumettaro Adolf Hitler per trasformarlo in un profeta visionario. I disegni di Peter Kampf, il fumetto realizzato da Hitler nel 1928 vengono ritoccati per trasformare i "cattivi" con cui il protagonista si scontrava da ebrei, in neri e latini: Peter Kampf lo sapeva, e nel suo autore ormai morto si incarna l'Idea. I Goebbels non solo riscrivono la storia passata, ma anche la storia futura: perché ci sono sempre uomini e donne disposti a imbavagliarsi per chiedere al governo di proclamare che l'America è il legittimo impero del XX secolo. Le sequenze dei cittadini che manifestano in massa imbavagliati, i volti grifagni, pronti a scagliarsi contro coloro che circolassero non imbavagliati, hanno un impatto drammatico e una forza simbolica notevoli: senza la loro complicità attiva, e quella passiva dei Paul Leduic, non sarebbe possibile manipolare la storia e le coscienze. Leduic e quei cittadini senza nome sono la banalità dell'indifferenza, della paura che nasce dall'egoismo, dell'ignoranza.

Domingo Mandrafina

Eppur si può sperare

Leduic non è solo questo, però: è anche un personaggio tenero, goffo e disarmato; quanto ossessivo e monomaniacale. In lui pare di riconoscere - e poco importa se fosse l'intenzione di Trillo: il personaggio evoca l'interpretazione - ogni appassionato di fumetti, o meglio ogni FAN: l'editore francese è completamente assorbito dalla sua ricerca delle strisce originali di Peter Kampf, dalla sua missione di ritrovare le tracce di Al Hit, fumettista austriaco naturalizzato statunitense e il cui vero nome è Adolf Hitler. A Leduic non interessano le idee di Hitler, gli interessa solo il suo fumetto, riportarlo alla luce. Nel corso della sua quest Leduic non si lascia neppure sfiorare dalla realtà circostante: non ne ha tempo. E anche quando la realtà lo colpisce con la forza di un maglio, il francese tornerà alla sua indifferenza una volta ottenuto il suo sacro graal: la possibilità di pubblicare l'opera di Al Hit.

Il gioco di continui rimandi di senso tra "Peter Kampf" e "Peter Kampf lo sapeva" - compresa la corrispondenza esatta di alcune delle strisce del fumetto di Hitler con quanto avviene ai protagonisti del fumetto di Trillo - arricchisce e completa di suggestioni fantastiche e surreali, dona corpo definitivo e sottile dignità letteraria alla dura analisi/denuncia dell'autore argentino.

Hitler è una presenza immanente in tutta l'opera, ma mai lo si vede - è morto nel 1951 - neppure in immagine. Il fatto è che l'Hitler immanente è quello della NOSTRA realtà, a rafforzare il gioco dei rimandi, a renderlo anche più inquietante se vogliamo.

Nella trama dolorosa dell'opera Trillo inserisce anche un elemento atto a mitigarne la disperazione, altrimenti, completa. A prima vista si può giudicare come un inserto posticcio il fragile filo della storia d'amore tra Steve Traven e Karin Milas, come un elemento estraneo allo spirito e allo stile della vicenda. Sarebbe però un'interpretazione superficiale; infatti il coinvolgimento romantico è minimo nell'interazione tra i due personaggi, in particolar modo per quel che riguarda Karin.

L'amore non è solo sdolcinatezza romantica: è anche e soprattutto speranza

L'amore sboccia - se ciò è vero anche per Karin - solo nel finale. Certo, il donchisciottismo di Steve suona melenso; e però non è una vita fiabesca quella che Steve sceglie scegliendo di condividere il destino finale di Karin, un destino modellato dalla prepotenza e dal razzismo - prepotenza e razzismo che vediamo comuni a tutti gli esseri umani, e non solo ai trionfanti statunitensi bianchi di "Peter Kampf lo sapeva": è una vita agra, che non sarà facile. Probabilmente una vita abbastanza infame. Pure, la possibilità di speranza - il ponte - che si ricava dalla scelta di Steve e dall'accettazione di Karin non rende meno dolorosa l'intera vicenda: serve tuttavia a farla più sopportabile e ad aprire la possibilità di una resistenza. Morale, inizialmente. L'essenza della speranza.

Un fumetto tanto duro e al contempo appassionato non può che esaltarsi del pennello di un Mandrafina ispirato. La cupezza da noir, che tanto è trasfusa nei dialoghi di Trillo amplifica la capacità di Mandrafina di comporre le sue gallerie di volti plastici e ambigui, in un certo modo perduti anche quando i personaggi facciano parte dei "buoni". Karin è una splendida femmina mandrafiniana, una donna fatale quasi hollywoodiana, un po' appassita ma dalla carnalità piena, seducente suo malgrado. La scansione regolare delle vignette costruisce un montaggio cinematografico perfetto, ritraendo la vicenda come una pellicola noir anni '40/50.

Una semplice differenza

Le possibilità di reperire oggi questo fumetto in Italia sono scarse, e il suo destino editoriale è avvilente. La differenza tra letteratura e fumetto, in Italia, sta in un fatto banale: se si entra in una libreria e si chiede Il Nome della Rosa o lo si ottiene subito o in qualche giorno; se si chiede Peter Kampf lo sapeva in fumetteria, no. L'opzione migliore è riuscire a trovare su qualche bancarella o fatiscente negozietto dell'usato l'inserto Skorpio Più del giugno 1992 sul quale fu pubblicato insieme a tre delle Storie mute sempre di Trillo e Mandrafina e ad alcune strip del fumetto britannico Beep Peep, come inserto centrale. Negli ultimi tempi della lira si poteva trovare per 500 lire. Che l'Eura editoriale non ne abbia mai fatto, neppure quando sicuramente poteva, un'edizione che sottolineasse il valore di uno dei migliori fumetti argentini dell'ultimo quarto del XX secolo è francamente sconfortante, seppure in linea con altre decisioni del genere. Ma forse meglio questo destino che un'edizione Euracomix macellata dalla colorazione pedestre che vi si utilizza.


domenica 6 settembre 2009

La fantascienza è morta?


La domanda ogni tanto si affaccia e riaffaccia. Fa parte del genere Quaestio otiosa mentulae; sue congeneri sono le più stagionate: “il teatro è morto?”; “il romanzo è morto?”; “il cinema è morto?”; e altre simili amenità per quasi ogni possibile attività della creatività umana. Poiché il teatro, il romanzo, il cinema e il resto sono tranquillamente in vita, quale più in salute e quale magari meno, forse alla fantascienza conviene porsi più spesso ancora la domanda. Non che tali domande siano sempre infondate: magari non sarà completamente estinto, però certo il mimo dei tempi della Roma dei Cesari non ha una bella cera. Insomma, “il mimo è morto?” è una domanda sensata. Ma a guardarsi attorno, chiedersi se sia morta la fantascienza viene subito a mente come quella domanda mentulae di cui sopra. Di fantascienza se ne pubblica e se ne filma in quantità (ahinoi, viene spesso da dire); ne è pieno l’immaginario dei nostri tempi. Se poi sia buona fantascienza è un altro paio di maniche, ma a cercare una definizione condivisibile di “buono” non se ne uscirebbe. Né è molto rilevante.


Ted Chiang - la fantascienza scritta gode ottima salute:

http://olivavincenzo.blogspot.com/2008/12/fantascienza-i-contemporanei-ted-chiang.html


Se la fantascienza è in vita, ed è anche in salute a ben guardare, non vuol dire però che debba esserlo (in salute) proprio in tutte le parti del suo corpo. Tipo quella parte che si chiama Italia.


In Italia, allo stato attuale, la fantascienza non appare davvero di granché robusta costituzione. Né in generale, né in particolare quella scritta dagli autori italiani.


Partendo da questo secondo caso, non parlo in termini di qualità produttiva degli eroici pochi che riescono a farsi pubblicare: come già decenni addietro tra quei pochi ve ne sono di ottimi, di buoni, di meno buoni e di pessimi; come ovunque altrove, e immagino più o meno nelle stesse percentuali. E’ che sono pochi, ora come decenni fa, gli spazi dove possono pubblicare, e quindi tutto sommato pochi anche loro. Nulla di nuovo, sotto questo punto di vista: la fantascienza scritta da italiani è sempre stata una pianticella gracile, per quanto alcuni dei suoi fiori potessero essere graziosi e profumati. Di nuovo c’è che forse oggi quegli spazi un po’ sono cresciuti in termini puramente numerici, ma in compenso sono diminuiti i lettori di fantascienza. Che un fiume in piena non sono mai stati, ma neppure erano il rigagnolo quasi in secca di oggidì; e qualche palcoscenico in più non compensa un calo di spettatori: per certi versi lo rende più inquietante. Qui dal particolare confluiamo nel generale.


Lino Aldani: è stato tra gli scrittori italiani più interessanti degli ultimi decenni ma è pressoché ignoto fuori dei circoli di fantascienza.


Detto che è chiaro che meno lettori significa minor interesse da parte dei grandi editori, che ragionano in termini di numeri consistenti, e che quindi si renda lode a quelli piccoli che comunque permettono di leggere ancora qualcosa, e con loro al fortino di Urania e al suo direttore “Leonida” Lippi che riesce ancora a pubblicare volumi interessanti, sia tra i classici che tra le novità – detto questo - non mi sottraggo all’attuale sport principe dell’appassionato di fantascienza: rispondere al fatidico perché in Italia la fantascienza è in crisi?


Qui una volta era tutta campagna. Negli scaffali delle librerie ormai non c’è più fantascienza, solo fantasy, horror e vampiri. Sono cliché. Ma generalmente i cliché sono tali perché veri. Spesso, come ricorda David Foster Wallace nel libro appena pubblicato in Italia Questa è l’acqua, nascondono verità molto più profonde di quelle immediatamente percepite e percepibili, auto evidenti. Forse quegli scaffali dove sono compressi i superstiti fantascientifici, ovvero Asimov e Dick insieme a non più di una mezza dozzina di altri, indicano qualcosa. Di banale, anche. Ma la profondità non esclude la banalità e viceversa. L’Italia non guarda più da tempo al futuro. In declino demografico, da un paio di decenni almeno va disinvestendo nella scuola, nell’istruzione e nella ricerca scientifica; e dunque nel futuro. Sembra venuta meno una visione a lungo termine (non che fosse mai stata robustissima…), e con essa la visionarietà insita nei fenomeni progettuali. Manca il coraggio di osare. La fantascienza è una forma visionaria di lettura, progettuale: prende la realtà e la trasforma in possibilità. Riflette la realtà come una lente deformante individuandone caricaturalmente le disfunzionalità. E’ apertura al possibile. Per questo ci vuole coraggio.


A questo punto sembra naturale che fantascienza e lettori italiani siano due insiemi sempre meno coincidenti. Pure, il coraggio, la visionarietà e la progettualità saranno deboli tra i lettori italiani, ma non certo estinti. Dobbiamo trovare il modo di far re-incontrare la (buona) fantascienza con questi lettori. Perché hai visto mai che la fantascienza è contagiosa.


Robot, per fare un esempio: la rivista ha diffusione quasi carbonara, come far incontrare lettori curiosi e fantascienza di valore?