venerdì 14 agosto 2009

Una terra dai moltissimi colori: Denti bianchi, di Zadie Smith (1975- )

Un libro troppo splendido perché la fantascienza
non ceda il passo una seconda volta.




Ci sono libri che affascinano. E questo è banale. Ma ogni libro affascina in un modo che è suo, unico. Anche se certe familiarità tra l'uno e l'altro è possibile rintracciarle; è possibile riunire in gruppi questi libri affascinanti. Denti bianchi appartiene alla famiglia allargata di quelli che ti trascinano all'interno delle proprie storie stordendoti di colori, di voci, di suoni, di rumori, di odori, di personaggi. Di vita vitale e vissuta; di parole che sfuggono e si rincorrono sulla pagina, a comporre un linguaggio che ipnotizza il lettore e lo fa voltare di qua e di là sulle tracce dei mille rivoli in cui la storia e i suoi personaggi si frangono e sciolgono per ricompattarsi e consolidarsi quindi.

E poi c'è l'impronta individuale di ciascun libro. Denti bianchi ha una leggerezza che incanta la lettura. Una leggerezza che gli è propria sia quando l'autrice affronta argomenti peculiarmente leggeri, sia quando incide la carne viva dei suoi personaggi per farli sanguinare e soffrire per bene. Una leggerezza che nasce da una lingua che, pur mediata dalla traduzione, si riesce a intuire vivace e anarchica non meno che controllatissima e padroneggiata da vera maestra (meno errori tipografici sarebbero stati apprezzati; grazie editore italiano). Che nasce da un'attitudine mentale all'azione figlia di una precarietà vissuta come spinta e stimolo: non per scelta, ma per l'inevitabile meccanismo della vita.

Un contenuto autobiografico è evidente nel romanzo, ma non è pedissequo. Il personaggio di Irie, figlia di un uomo inglese e una donna jamaicana, come è la Smith, è tra quelli principali, ma non il solo. E' l'intero ambiente umano, familiare e sociale, di Irie a essere il protagonista del romanzo. Irie, come gli altri in primo piano, è una delle articolazioni di questo grande affresco londinese, di questa epica tra omerica e aristofanesca di un'immigrazione che è il legato ultimo (e, chissà, migliore) dell'ex impero. E' questo il dato autobiografico decisivo: questa perfetta ricostruzione di un tempo, dei luoghi, dei suoi uomini e donne: in ultima analisi la realtà è ciò che percepiamo, e l'interpretazione che diamo delle nostre percezioni è la nostra biografia: emozionale, sentimentale, e razionale. E ricostruzione minuziosa di una storia familiare - anzi di storie familiari - che impregnano e avvelenano il presente e il futuro dei personaggi. La condanna e la benedizione di una coazione a ripetere: condanna alla sofferenza; benedizione di uno slancio vitale che si replica indefinitivamente.

Affresco di uomini e donne e dei loro conflitti. Conflitti tra loro, feroci; e molto più devastanti dentro di loro. Conflitti che non impediscono loro di vivere la vita con gioia, anch'essa feroce, e con una determinazione pari solo alla confusione che vivono nelle loro teste, nelle anime e nei cuori, e che si riflette su esistenze che disperatamente aspirano a una stabilità, e altrettanto disperatamente giungono a una stabile precarietà, fonte di guai, dolori e irruenza vitale. Denti bianchi è un quadro fauve dove colori violenti si organizzano in anarchico ordine; l'ossimoro è la miglior chiave interpretativa per un romanzo che nutre le contrapposizioni della vita, e si nutre dei conflitti che la vita genera dalla contrapposizione delle irriducibili (quanto sciocche) differenze che gli esseri umani hanno creato per fornirsi di identità culturali - cioè psichiche - che dessero loro l'illusione di esseri migliori dei vicini che ne avevano altre. Gli uomini e le donne del romanzo combattono duramente per non perdere sé stessi, per non lasciare che i figli si perdano, per non perdere un'identità che dovrebbe proteggerli dalla durezza della vita, dall'ignoto che è rappresentato dall'Altro, dalla corruzione morale che l'Altro rappresenta. Alcuni lo fanno abbandonandosi alla follia o alla disperazione; altri usando di un'ironia anche crudele oppure di una lucidità e di un cinismo che nascondono le ferite sotto la forza che deriva dall'ispessimento del carattere causato da quelle ferite. Altri ancora si rifugiano nelle certezze di nevrosi compulsive che sconfinano nella psicosi. Ancora altri, infine, attraversano tutti gli stadi per approdare con fatica immane a quella stabile precarietà che riaprirà indubbiamente le danze alla generazione successiva.

Questa ribollente temperie nasce dall'accuratezza con la quale Zadie Smith fa agire i suoi personaggi, ma soprattutto dalla profondità e complessità dei ritratti che ne fa. Alsana Iqbal e suo marito Samad che lottano palmo a palmo per i loro due figli, i gemelli Millat e Magid, e per trovare un proprio posto nella vita e nella nuova non-patria in cui sono giunti dal natio Bangladesh. I gemelli che a loro volta lottano palmo a palmo con i genitori, tra loro e con sé stessi per giungere da qualche parte, per affermare e giustificare la propria esistenza all'interno di coordinate psicologiche, culturali e geografiche che non sono più quelle oppressive ma rassicuranti di un tempo. Gli Iqbal sono una cittadella assediata dalle forze disintegratrici di una globalizzazione culturale in grado di ridurre in pietrisco le mura solide di antichi conformismi, modi di essere e pensare, modi di credere; ma che non è in grado di governare la forza con cui quel pietrisco polverizzato si abbatte sulle fragili strutture che ha appena iniziato a edificare. La cittadella-Iqbal è quindi sottoposta alla pressione di questa forza, che crea al suo interno vortici centrifughi che mettono tutti contro tutti. In questo continuo eruttare emotività e drammi naufragano la scettica saggezza femminile di Alsana come l'iniziale intelligenza di Samad, l'orizzonte razionale di Magid come il ribellismo istintivo e sensuale di Millat. Irie Jones deve combattere ogni giorno la vita con la sola arma della sua intelligenza, barcamenarsi tra l'eredità di una fortissima linea matriarcale materna, le donne Bowden che non a caso per generazioni si trasmettono il nome e diluiscono il sangue paterno; eredità radicata nella e poi sradicata dalla Jamaica; un'eredità inevitabilmente meticcia nella psiche degli individui, come è delle società ex schiavili, e altrettanto inevitabilmente caratterizzata dalla propria ricerca/rifiuto di un'identità "nera"; deve barcamenarsi tra questa eredità, lascito di una bisnonna che i casi della vita hanno condotto nel seno della comunità dei Testimoni di Geova, perpetuatosi attraverso l'entusiastica adesione della nonna Hortense al credo religioso e l'inevitabile rifiuto di esso da parte della madre Clara, fino a lei, confusa ma saggia figlia di una modernità confondente ma saggia; tra questa eredità e un padre inglese, Archie Jones, discendente dei colonizzatori e padroni come lo era il bisnonno, un uomo semplice e fondamentalmente buono, che fondamentalmente attraversa la vita senza comprenderla, limitandosi a viverla. Un padre forse in linea con l'assenza di figure maschili di rilievo nella storia della famiglia Bowden (ma il personaggio è tutt'altro che privo di rilievo: ne esce il formidabile ritratto, anche affettuoso, di un uomo di poche qualità), ma la cui eredità genetica condiziona per forza la vita di Irie, così come quella del bisnonno era arrivata almeno fino alla madre di Irie. I Chalfen, middle-upper class, Marcus, Joyce e quattro figli, Joshua è quello che occupa spazio importante nella storia. Inglesi, inglesissimi, tè e giardinaggio: ovvero Marcus discendente di ebrei polacchi, immigrati da tre generazioni. Razionalità scientifica, ma ignoranza completa del mondo; la psicanalisi come interfaccia con la vita, come weltanschauung, e la matematica conseguenza di una psicosi collettiva, di una psicosi familiare che imbozzola i Chalfen nella loro condanna a essere Chalfen. La felicità come condanna esistenziale, non conquista faticosa, non come equilibrio. Zadie Smith ne fa tuttavia un ritratto scevro da ogni stereotipo. La "follia" dei Chalfen ha risvolti positivi: non esclude la capacità di influire positivamente sugli altri: Irie e Magid, e a tratti perfino Millat, non essendo parte dalla nascita della famiglia ne sono beneficiati nella loro ricerca di un equilibrio. Nella prevenzione razionalizzante di ogni possibile conflitto, la famiglia Chalfen può fallire, ma nel suo complesso il modello che offre, un modello collaborativo, suggerisce un discorso che orecchie sensate, come quelle di Irie, finiscono per cogliere; magari confusamente, ma sentitamente. Fallisce miseramente laddove, come ogni meccanismo a orologeria, un granello di sabbia si insinua al suo interno, rivelando la sua natura costrittiva: perché anche l'amore più ben diretto, unito al controllo e alla programmazione ossessivi, diventa una gabbia insopportabile, come ha mostrato James Ballard in Un gioco da bambini. Fallisce con Joshua quando l'adolescente scopre davvero il richiamo dell'amore e del sesso, approdando a una rivolta radicale e totalizzante contro il padre e l'intero modello Chalfen.


La Smith muove i suoi personaggi facendoli interagire all'interno del proprio gruppo e tra gruppi, creando le linee di tensione e le linee di sutura da cui scaturiscono i confronti, i conflitti, i drammi; e le linee di condotta, le rivelazioni, le gioie. Linee di sutura come la bizzarra e ferrea amicizia tra Archie e Samad, nata negli ultimi giorni di guerra, che collega in un improbabile alleanza due universi apparentemente inconciliabili che si uniscono nella quotidianità. Linee di sutura e di tensione tra Alsana e Clara, che si ritrovano amiche per caso e per forza. Linee di sutura e di tensione tra Irie e Millat, tra Irie e Joshua; scandite nel primo caso dal crescere fianco a fianco e dall'entrare fianco a fianco nel turbine dell'adolescenza; nel secondo caso dalla ricerca confusa e laboriosa di una propria collocazione nella vita. Linee di sutura e tensione tra Marcus e Irie, tra un'adolescente che vede un modello, e un modello che si sottrae. Linee di sutura tra Marcus e Magid, mentore e allievo. Linee di tensione tra Millat e Magid, tra Millat e Samad, tra Samad e Alsana. E tra Samad e Alsana una sutura che si ricompone e si apre di continuo. Sutura e tensione tra Clara e Archie. Sutura, e rottura, tra Clara e Hortense; a riavvicinare i labbri della ferita, senza riuscirvi fino in fondo, Irie. Feroci linee di tensione tra Alsana e Clara da un lato, Marcus e Joyce dall'altro. Disperata ricerca di una sutura con tutti e tra tutti da parte di Joyce. Una commedia umana lussureggiante, nella quale si inseriscono numerosi altri personaggi, meno presenti e meno complessi, ma spesso non meno interessanti, e che completano una visione d'insieme, come dicevo, stordente. Una rappresentazione della vita nel suo svolgersi.

Cornice e contenitore, una Londra che appare lontanissima da quella letteraria degli scrittori britannici di cinquanta, cento anni fa o più; ma che è la metropoli meticcia e cosmopolita dei nostri giorni, come e più di New York; come solo le capitali autenticamente imperiali sono state e sono. Un crogiuolo dove si vanno fondendo e confondendo uomini e idiomi, attraverso i cui conflitti scaturirà un'umanità che sarà più e meno della somma delle sue componenti. Denti bianchi è un inno a questa sfinita umanità sempre pronta a ripartire e rinnovarsi. Eterno, flessibile, adattabile, immutabile Homo sapiens.

lunedì 3 agosto 2009

[fantascienza] I contemporanei - Mixomatosi Forte (Myxomatosis Forte - 1986) di Bertil Mårtensson (1945- )


Un vecchio detto afferma più o meno che è meglio non desiderare troppo qualcosa: potrebbe avverarsi. Nel mondo descritto da Mårtensson si è avverato uno dei sogni più antichi e carichi di simbologie dell'uomo. No, non l'immortalità; piuttosto un suo parente stretto. Il XXI secolo di Mårtensson vive all'insegna dell'R14, un non meglio specificato fattore di copertura genetica completa della fisiologia umana che ha inverato il vecchio idolo alchemico della Panacea. Non ci si ammala più, neppure i morbi più terribili impensieriscono gli esseri umani, essere infettati da un virus potentissimo significa un lavoro di un'oretta per il supersistema immunitario all'R14; le peggiori malattie degenerative non fanno neppure in tempo ad iniziare la propria azione sulle cellule e sugli organi del corpo. Niente più dolore, niente più ansie per la salute, un'aspettativa di vita che oltrepassa largamente i due secoli, giusto perché le funzioni neurocerebrali e cardiache alla fine cedono per l'usura, come ogni meccanismo organico e inorganico su questa terra.

Un disastro, insomma.

Non per la sovrappopolazione, per quello è ipotizzabile che basti organizzarsi, anche se Mårtensson non dice nulla in proposito. Il fatto è che la malattia riveste (anzi rivestiva...) un suo ruolo sociale. Molto importante, come scoprono i poveri esseri umani, sanissimi più di qualsiasi pesce della storia e a cui viene a mancare un fondamentale lubrificante dei rapporti sociali. Non le malattie gravi, è chiaro, nessuno le rimpiange davvero; ma quei raffreddori che permettevano di riposarsi per qualche giorno, quelle emicranie strategiche che permettevano di declinare un invito o un impegno sgraditi: cose del genere vengono a mancare all'umanità, che privata di tante e ottime scuse, del più importante fattore di autocompiangimento, della migliore valvola di sfogo nelle relazioni personali, entra in depressione. Gli uomini scoppiano di salute, e per questo si suicidano a ritmi prima sconosciuti. Privati della funzione psicologica del dolore, taluni si trovano a esplorare le vie improbabili del masochismo. E via discorrendo, similmente. Ma sono palliativi.

Detta così pare un racconto umoristico, ma seppure un contenuto satirico e umoristico tout court sia innegabile, esso non esaurisce gli aspetti della storia. Veterano della fantascienza svedese, Mårtensson è un filosofo della scienza e studioso di problemi cognitivi, interessi che si riverberano tra le righe del racconto, sottotraccia, fornendo en passant un piccolo saggio di psicologia sociale che arricchisce e completa la riflessione satirica.

Oppressa dalla sua salute di ferro, l'umanità è costretta a rimettere in moto l'industria farmaceutica; perché inventi delle malattie. E così, quando ce n'è bisogno, ci si bombarda per giorni e giorni di poderosi agenti patogeni che infine provochino un raffreddore che regga una giornata intera. Se un medico ritiene che se ne abbia bisogno, si può ottenere una ricetta che permetta l'acquisto di una malattia ancora più formidabile, e restare fuori gioco più a lungo. Tanto, la vita non la si rischia. Naturalmente il traffico e lo spaccio di malattie gravi, così come il loro consumo non autorizzato, è un crimine punito con la massima severità: ammalarsi per gioco non è lecito, è gravemente antisociale. E può portare assuefazione. Le aziende farmaceutiche sopravvissute al primo, euforico periodo dell'R14 hanno dunque rialzato il capo, e si combattono senza esclusione di colpi per fornire agli uomini la dose necessaria di patologie sempre nuove e raffinate. Ma come dicevo, la cosa peggiore che ci possa capitare è di vedere esauditi i nostri desideri fino in fondo; e se non è bastata la prima volta...

Jason Schytte, il protagonista del racconto, lavora per una di queste nuove grandi industrie del farmaco; è un creativo pubblicitario, inventore di fortunate campagne per lanciare sul mercato gli acciacchi più competitivi. O meglio lavorava, visto che viene licenziato perché la sua vena creativa pare imbolsita. L'evento innesca un corso di azioni nel quadro della situazione descritta. Con buon mestiere, Mårtensson innesta sulle sue riflessioni sociali e psicologiche temi da spy-story e da classico plot di fantascienza medica, con minacce biologiche, l'incombente figura nell'ombra del mad doctor, e lo spettro della catastrofe. Un pepe che non solo non disturba la ricetta, ma le fornisce il giusto movimento facendo convergere il racconto sui temi avventurosi classici della fantascienza senza perdere nulla degli aspetti più speculativi analizzati nella storia, e rendendo, alla conclusione, limpido il titolo del racconto.

Di Mårtensson è prevedibilmente arrivato pochissimo altro in Italia. Mixomatosi Forte ha goduto comunque di tre pubblicazioni, con merito. La prima è avvenuta sulla Antologia internazionale di fantascienza edita dalla Nord nella collana Argento, traduzione del The Penguin world / omnibus of science fiction, che riuniva racconti di autori di ventisei diverse nazioni aderenti alla World SF, una organizzazione di autori e appassionati di fantascienza a larghissima diffusione.

sabato 1 agosto 2009

[fantascienza] La miniatura - La mano (Not with a Bang 1973) di Howard Fast (1914-2003)


Come reagireste se, osservando dalla finestra un placido tramonto primaverile, vedeste una immensa mano spegnere il Sole?

La short short story ha una lunga, onoratissima tradizione in ambito fantascientifico, e un maestro riconosciuto in Fredric Brown; ma la lezione browniana del capovolgimento di prospettiva non è ovviamente la sola alternativa. Le carte possono essere chiare in tavola sin da subito, come in questa minuscola gemma narrativa di Fast. Ciò che rende memorabile questa miniatura letteraria è il tono che Fast imprime al racconto, lo stile di cui fa uso per ottenere un effetto di perfetto straniamento surreale. E lo straniamento è una delle vie maestre del fantastico, come della sf. Seppure è obiettivamente arduo rubricare il racconto sotto il nome di fantascienza in base al suo incipit, il registro realistico, perfino naturalistico adottato da Fast nel prosieguo appartiene alla migliore sf, quella in grado di coniugare l'ipotesi, l'estrapolazione nelle premesse, con il rigore della logica nelle conseguenze.

E pluf, Al Collins vede pollice e indice di una mano titanica spegnere la nostra stella. A dio si allude pudicamente, ciascuno immagini a proprio piacimento. Da questa intrusione improvvisa dell'inaspettato nella vita di un agiato middle-class man di una classica realtà americana di campagna, Fast parte per fare in tre paginette scarse un ritratto geniale del suo protagonista, narrandone con distaccata eleganza l'olimpica impassibilità con la quale egli registra e reagisce all'evento, con la quale, parlando del più e del meno, discorre amabilmente della cosa con altri, che non avendo assistito al fatto non gli credono. L'apatica flemma con la quale cerca di rammentarsi gli effetti della scomparsa del Sole per la vita sulla Terra e il tempo che può restare all'umanità. Il supremo distacco con il quale, raggiungendo la moglie a letto al termine della giornata, aggiunge un plaid, distendendosi poi accanto al corpo tiepido di lei.

Understatement? Umorismo yiddish trapiantato in terra americana? Poco importa, si tratta di un piccolo capolavoro. Piccolo per dimensioni. Forse, per un purista, non di fantascienza ortodossa, ma per chi ama l'ibridazione dei generi (con manzoniano juicio), tranquillamente accoglibile come sf.

L'Howard Fast del racconto è proprio il celebre autore del romanzo Spartacus, dal quale fu tratto il film con Kirk Douglas diretto da Stanley Kubrick. Autore di innumerevoli romanzi mainstream di successo negli Stati Uniti, è forse meno noto (in Italia) come autore di un discreto quantitativo di racconti di fantascienza.

Il racconto è apparso in Italia nel 1974, sul fascicolo n.649 di Urania, La mano, che accoglieva la traduzione dell'antologia personale di Fast A touch of Infinity uscita l'anno prima negli USA.

venerdì 31 luglio 2009

[fantascienza] I contemporanei - Tipi diversi di oscurità (Different kinds of darkness - 2000) di David Langford (1953 - )


Immagini troppo orribili perché lo sguardo umano le sopporti. Il tema, di ascendenza quanto meno lovecraftiana ed evidenti connotati orrorifici, è passibile di usi e interpretazioni molteplici; e in mani abili non può mancare di appassionare. Langford, fisico di formazione, imbastisce una storia esclusivamente (fanta)scientifica, senza curarsi dei possibili riflessi horror se non brevemente nell'eccellente incipit del racconto, come pura coloritura di atmosfera. Disquisendo con amabilità di ottica, matematica e neurofisica, in poche pagine sa fondere le suggestioni di un classicissimo plot fantascientifico (problema/studio del problema/soluzione del problema) e di una non meno classica avventura di iniziazione adolescenziale.

Protagonisti del racconto sono i membri del Club del Tremito, Jonathan, Gary, Julie e il loro leader Khalid. E l'oscurità. Siamo in un futuro, probabilmente non troppo lontano, dove all'esterno degli edifici - ma a volte anche in reconditi locali interni - si vive immersi in una oscurità densa e spessa che inibisce ogni vista ed è impermeabile a qualunque fonte di luce. Quanto meno i giovani vivono questa situazione, perché gli adulti paiono non essere impediti da tale oscurità, o non esserlo sempre e in modo eccessivo. Le varie chiacchiere scientifiche dei ragazzi partono da qui, e da un disegno trovato casualmente in una fotocopiatrice della loro scuola: un'immagine troppo orribile perché un essere umano la sopporti, come minimo senza soccombere a un tremito incontrollato. La sfida del Club, che da ciò prende il nome, è di sopportarne la vista, e per riuscirvi i ragazzi si sottopongono a progressive e sempre più prolungate esposizioni all'immagine.

Tra ipotesi di configurazioni visive che disturbano o inibiscono le funzioni neurocerebrali fino a giungere al blocco mentale e alla morte, e la possibilità di mitridatizzare la mente dai loro effetti, è divertente seguire lo scioglimento della vicenda attraverso lo sci-bubble di Langford. Forse è però più interessante l'ambiente sociale che egli descrive, con terroristi "anarchici" che si servono delle immagini mortali per terrorizzare e mettere sotto scacco il pianeta, e una società che sa reagire solo moltiplicando le strutture di controllo e manipolando a fondo l'essere umano (ma, forse, ancora aperta a soluzioni innovative e ragionevoli). Sono solo brevi accenni, ma netti. A ciascuno le sue conclusioni.

Il racconto è parte di una serie che l'autore va scrivendo da anni, e di cui non credo sia giunto altro in Italia; tuttavia funziona benissimo a sé. Langford ha una scrittura molto semplice, priva di grandi risorse stilistiche, ma che rende bene le situazioni descritte. Come dicevo, Tipi diversi di oscurità è una storia di impianto classico, sia come trama e personaggi che come stile di scrittura, ma con un occhio attento agli interessi della fantascienza più recente, alle frontiere della manipolazione dell'informazione e delle coscienze, all'ibridazione uomo/macchina e alle sue conseguenze psicologiche e sociologiche. Senza esagerare: la componente avventurosa rimane prevalente, insieme al gustoso sfarzo delle varie ipotesi scientifiche e pseudoscientifiche. Il tutto organizzato come un meccanismo a orologeria e narrato di conseguenza, al punto da meritarsi nel 2001 il premio Hugo per il miglior racconto breve. Come tale, è apparso in Italia sulla raccolta dei premi Hugo 1999-2001 pubblicata dalla Nord, quando ancora pubblicava fantascienza :-/. In origine era apparso su Fantasy&Science Fiction, una delle più importanti riviste americane di sf.

David Langford è pochissimo noto in Italia, ma nei paesi anglosassoni è una sorta di istituzione. Britannico, è uno storico membro del fandom e da decenni pubblica una delle fanzine più seguite e famose. Da almeno trent'anni pubblica copiosamente racconti e romanzi, in netta prevalenza su pubblicazioni semi-professionali e amatoriali. E in tale doppia veste di superfan e scrittore amatoriale ha ricevuto carrettate di premi.

sabato 25 luglio 2009

[fantascienza] Il classico - Ritorno su Terra (Earthscape 1982) di Robert F. Young (1915-1986)


Non c'è nulla di più sfuggente della fantascienza. Per il profano è un cumulo di scemenze che si occupa di alieni verdi, robot impazziti ed effetti speciali cinematografici; alcuni profani si spingono, quando gli si propongono esempi di cosa possa essere, al rifiuto caratterizzato dal classico "Vabbe', ma questa NON è fantascienza!". Non lo sarebbe perché l'elemento fantascientifico sarebbe puramente accessorio laddove la storia tratterebbe essenzialmente di altro, ad esempio di riflessione sociologica (Il mondo nuovo o Il Signore delle Mosche); oppure perché sotto una sottilissima patinatura fantascientifica l'impianto sarebbe realistico (Preludio allo spazio). Per il fan è un Santuario caratterizzato da Sacre Regole; ogni fan ha le sue, ma entro certi limiti vi è una flebile, ma non troppo, comunanza di visioni: che sia il mitizzato sense of wonder o altro, la fantascienza deve differenziarsi nettamente dalla letteratura realistica. Il che pare ovvio (ma forse non è così vero, chissà).

L'intemerata qui sopra me l'ha ispirata la lettura del racconto di Young. Probabilmente metterebbe d'accordo tanto il profano che il fan: entrambi non lo considererebbero fantascienza, per eccesso di realismo. Realismo ad onta del fatto che il protagonista sia un reduce da un lungo periodo di lavoro alla costruzione della prima colonia umana stabile su Marte. Potrebbero aver ragione. Apparentemente. Il breve racconto, infatti, date per poste dette premesse, si dipana tra il racconto di costume e quello psicologico e d'amore. In realtà esso tocca il cuore, il punto nevralgico della fantascienza. Il suo nucleo: il sogno. La natura del sogno. E cos'altro è, cos'altro può essere la fantascienza se non la risposta più profonda al bisogno dell'uomo di sognare, di immaginare, di concepire una vita altra dalla propria? Una traduzione letteraria della propria inquietudine, e della sua curiosità per l'incognito. In modo schematico, data anche la brevità del racconto, Young pone il suo protagonista nella necessità di scendere davvero dentro sé stesso e comprendere quali siano i propri sogni, le proprie aspirazioni: in ultima analisi la propria identità. Protagonista che era andato su Marte perché i dieci lunghi anni della grama e dura permanenza gli avrebbero permesso una nutrita serie di privilegi una volta tornato sulla Terra. Nientemeno che di "sistemarsi": impiego statale garantito, magari in un comodo ufficio postale come auspica suo padre, e uno status di quasi-eroe abbastanza matto da essere stato su un sasso nello spazio al cui confronto la vecchia frontiera americana sarebbe un agriturismo perfettamente organizzato. Neil, il protagonista appunto, ora desidera la prospettiva apaticamente; come in modo apatico torna a frequentare Judy, un'ex fidanzata dei tempi della scuola ritrovata divorziata con tre figli, e desiderosa di ritentare la vita familiare e costruire un'esistenza perfettamente borghese, perfettamente prevedibile, sicura. Un'esistenza americana da sit-com viene da dire. Un'esistenza che egli accoglie con progressiva freddezza, quella stessa freddezza che percepisce quando ha a che fare con Judy e i suoi marmocchi, che pure lo adorano, e sono una vera cartolina dagli Stati Uniti. E' questo il sogno per cui ha lavorato per anni su Marte come una bestia da soma? Pat, ex spogliarellista, spirito libero, incontrata al bar dove lo porta il padre al suo ritorno da Marte e che lì lavora come barista, è forse l'innesco della riflessione sulle proprie aspirazioni, su ciò che egli davvero vuole, su quale sia la vita di cui ha bisogno. Se risponde alla schematicità di cui dicevo il fatto che i due si innamorino e decidano di tornare/andare su Marte, non vi è nulla di schematico nella maturità con cui Young presenta narrativamente l'evento, conducendo l'uomo e la donna a una decisione del tutto consapevole, e del tutto indipendente l'uno dall'altra: non è il loro innamorarsi a spingerli verso Marte e la dimensione "avventurosa" che esso rappresenta, ma è la coscienza infine chiara dei loro desideri, progetti e aspettative che li conduce a trovarsi e innamorarsi. E se Pat ha certamente stimolato la riflessione dell'uomo sui suoi bisogni reali, è indubbio che egli abbia canalizzato in una direzione infine netta e chiara la nebulosa dei sentimenti e la vita vagabonda della donna.

La storia potrebbe funzionare benissimo allo stesso modo se fosse un racconto su un emigrante di ritorno al paese natale da una terra lontana e avvolta quasi nel mito, potremmo immaginare un italiano di ritorno dalla Terra del Fuoco alla fine del XIX secolo: apparentemente nulla cambia, e il profano e il fan hanno ragione. Eppure a me pare che cambi la prospettiva: storicizzando, si sottrae quello che è l'elemento più caratteristico della letteratura del possibile, l'idea appunto della possibilità. Dell'ipotesi. Introdurre Marte invece della Terra del Fuoco introduce da subito l'elemento ipotetico, predispone psicologicamente a riflettere su qualcosa che non è ricordo, dato storico e realtà, ma al converso rappresenta una proiezione e quindi un'elemento speculativo sull'ignoto. Naturalmente, storicizzando si ha invece il vantaggio di individuare entro coordinate culturali e temporali precise la vicenda. Sono due strategie diverse ed entrambe stimolanti e ricche di implicazioni. Young è abile nel costruire una storia intimamente fantastica e di fantascienza, rivestendola di un realismo autentico nel delineare i caratteri umani. Un realismo a-storico, direi, rappresentando le due eterne tensioni dell'uomo tra sicurezza e irrequietezza.

L'abilità di Young nasce dal suo stile e dalla misura controllata della sua scrittura, che in genere viene definita come "poetica" e "romantica". Definizioni che quasi sempre non definiscono un emerito fico secco ;-), o peggio fanno pensare a sdolcinatezze e svenevolezze varie. Ecco, no. Il vero romanticismo e la vera poesia possono essere duri e scabri, come venati di un lirismo che nulla ha di fievole e zuccherino ed è invece ardore e se necessario dolore. C'è un breve frammento di Saffo che credo renda chiaro a perfezione cosa siano un genuino afflato romantico e la poesia autentica:
E' tramontata la luna
insieme alle Pleiadi
la notte è al suo mezzo
il tempo passa
io dormo sola

Young non è ovviamente Saffo, ma anche egli sa come toccare le corde delle emozioni del lettore senza alcuna concessione alla corrività di queste: lavora in profondità, Young, non in superficie.

Robert F. Young è un nome pressoché dimenticato in patria e pochissimo conosciuto da noi. Non identificabile con dei cicli, e autore in un trentennio abbondante di carriera di una gran messe di racconti ma di solo un pugno di romanzi, le modalità della sua produzione e il suo essere scrittore appartato dal milieu letterario lo hanno predisposto in modo quasi naturale all'oblio; il che è un peccato. In Italia sono stati tradotti e pubblicati un certo numero di racconti sparsi qui e là in antiche antologie collettanee su Urania e più raramente altrove, oltre a due antologie personali edite in tempi eroici da Galassia. Che io sappia, non è stato tradotto nessuno dei pochi romanzi, che dalle date di pubblicazione negli USA debbono essere stati scritti dopo che Young andò in pensione dal suo lavoro "istituzionale" di bidello in una scuola pubblica. Compromesso tra sicurezza e irrequietezza, tra l'ufficio postale e il Marte del protagonista di Earthscape.

Il racconto fu pubblicato nel 1982 sulla Isaac Asimov's Science Fiction Magazine, e lo stesso anno è arrivato in Italia, sul n.11 della seconda incarnazione italiana della rivista, quella diretta da Vittorio Curtoni reduce dal fallimento (in senso editoriale...) di Aliens.

V.

martedì 14 luglio 2009

[fantascienza] I contemporanei - Otto episodi (Eight episodes - 2006) - di Robert Reed (1956- )

Americano del Nebraska, Robert Reed ha ormai sulle spalle un'attività letteraria più che ventennale nel corso della quale ha pubblicato una dozzina circa di romanzi e una copiosa messe di racconti. Resta poco conosciuto qui da noi perché di quanto ha scritto è giunto poco in Italia, solo un certo numero di racconti e novelle sparsi per lo più nelle antologie periodiche dei Millemondi di Urania. E' un ospite molto frequente delle varie antologie annuali che raccolgono il meglio della narrativa breve di fantascienza, un merito in genere confermato dalla lettura dei suoi racconti apparsi anche in italiano. Come è il caso di questo, appena pubblicato sul più recente numero (il 57) di Robot.

Reed è un biologo di formazione, in genere molto attento al dato scientifico nella sua narrativa, e in particolare ai riflessi sulla società umana che le estrapolazioni scientifiche utilizzate nelle sue opere potrebbero avere. Ambientato a pochissimi anni nel nostro futuro, questo breve racconto è un buon esempio di questa caratteristica dell'autore, cui si aggiunge una riflessione soffusa di
leggerissima ironia sui meccanismi della società dello spettacolo in genere, e in modo particolare della televisione, delle sue modalità di produzione e fruizione. Il titolo si riferisce agli otto episodi di uno stranissimo telefilm americano di fantascienza, inizialmente così sottovalutato e in apparenza mal fatto, da essere cancellato dopo soli otto episodi di programmazione. Ispirandosi sicuramente alle sorti della serie originale di Star Trek, assurta a mito qualche anno dopo
essere terminata, Reed mostra come un pubblico ristretto ma appassionato e altamente qualificato - tutti scienziati - decreti a posteriori il successo di Invasione di un piccolo pianeta. Con uno stile piano e quasi ipnotico, Reed architetta abilmente il parallelo tra il destino del serial e il progressivo nascere e poi svilupparsi del dubbio che dietro di esso vi sia davvero un'invasione aliena. O più correttamente, forse, una "visita" da parte di inattesi ospiti antichissimi. Visita molto sui generis, per altro. Il tema, che sia l'invasione vera e propria in stile marziani di Wells o meno, è dei più antichi e caratterizzanti della fantascienza, ma Reed riesce a trattarlo con un timbro molto personale ricavandone un racconto quasi sardonico; di certo in grado di stuzzicare vivacemente la curiosità del lettore e fargli inarcare un sopracciglio divertito. Costruendovi attorno un'ipotesi affascinante, semina il dubbio se effettivamente si
tratti di un'invasione/visita, o se invece non sia un pacifico modo per scongiurare visite (o peggio) da parte nostra. Reed non lo dice, ma tutti sappiamo come non sia molto igienico suscitare la curiosità degli umani; foss'anche per mostrar loro che una cosa è impossibile ;-).

Nell'economia delle poche pagine di Otto episodi Reed riesce a fare davvero molto. Sviluppa in chiave attuale un plot classico e assai visitato del genere; offre un flash satirico molto acuto sui meccanismi dei nostri divertimenti televisivi; crea un'effetto di divertita e divertente storia nella storia. Fa appassionare alle stranezze di Invasione di un piccolo pianeta, dei suoi personaggi mille miglia lontani dagli standard televisivi di maggior (e miglior)
successo. Un racconto cui calza a pennello la definizione di speculative fiction coniata a suo tempo da Heinlein e che la ricchezza di suggestioni compresse nella sua brevità rende sfizioso da leggere, come un assaggio delle potenzialità della fantascienza. Un piccolo, grande racconto.

giovedì 9 luglio 2009

Sublime nulla: Io sono un gatto, di Natsume Sōseki (1867-1916)

Accantono momentaneamente la fantascienza per la bellezza e l'eccezionalità di questo romanzo, il primo di Natsume Sōseki (nom de plume di Natsume Kinnosuke).



E' possibile scrivere per cinquecento pagine senza dire nulla? Di sicuro molti scrittori di bestseller e di fumetti alla moda vi riescono. Però si può essere a tal punto abili da dare l'apparenza di farlo. Io sono un gatto sembra non raccontare nulla per le cinquecento pagine del suo fluviale fluire di pagina in pagina, al ritmo lento e torpido dei pigri, svagati giudizi con cui il felino protagonista contrappunta di svagata e a volte bislacca saggezza il suo osservare gli uomini e i loro comportamenti e pensieri. E' l'effetto ipnotico e sviante dello stile narrativo di Natsume: una scrittura che in origine è immediato figurarsi come musicale e seducente, un inseguirsi di arabeschi verbali a comporre una tela magica dentro la quale idee, sensazioni e impressioni si rincorrono, intarsiano, nascondono alla vista dei lettori per poi farsi ritrovare da quelli più attenti. La traduzione lascia scorgere quanto può di questo universo verbale e fonetico, e consegna intatta una capacità di narrare sublime. E' pura narrazione questo romanzo; nel senso di abilità di affabulare, avvincere, trasmettere il proprio pensiero e ancor più le emozioni, i moti dello spirito, e ogni loro minima sfumatura: perché la densità dei concetti, dei sentimenti, dell'analisi di sensazioni e idee, è in proporzione alla rarefazione dell'azione. Fino a comporre una realtà narrativa che pare naturalismo in presa diretta.

Davvero non accade nulla nel romanzo. Nulla di memorabile avviene nel corso dell'anno di vita di un gatto innominato che il romanzo racconta, privo com’è di una vera trama. Gatto che l’autore dota di un’umanità e, contemporaneamente, alienità, cesellate con cura maniacale: ogni parola ha un suo posto, un suo scopo, una sua funzione precisa nel libro. Attraverso gli occhi del gatto noi osserviamo però l'intera umanità dispiegarsi davanti ai nostri di occhi, rappresentata in modo esemplare e completo, fino alla minuziosità più estrema, dai membri della famiglia presso la quale il micio è ospitato. Insieme agli amici del capofamiglia, il professore di liceo nel quale Natsume ritrae sostanzialmente sé stesso, viene a formarsi un consesso che ci svela ogni piega più nascosta dell'animo umano - del nostro animo. Non esce bene, l'umanità, dalle osservazioni a volte lunari del gatto di casa. Eppure non solo non si scorge moralismo alcuno o condanna, ma sotto traccia è perfettamente percepibile una simpatia, quasi un amore per noi creature così imperfette e quasi sempre sgradevoli. Un umanesimo, che grazie allo strumento principe di un'ironia tanto sottile e impalpabile quanto pervasiva e in grado di impregnare ogni pagina del libro, mostra gli esseri umani con una serenità ed un'equanimità difficilmente riscontrabili altrove. Un'ironia che si fa satira elegantissima in alcuni personaggi dai quali Natsume lascia trasparire il suo sguardo tra pungente e amorevole nei confronti della filosofia zen, e più in generale della pensosità e sentenziosità di certo tipo di intellettuali orientali; efferata al riguardo, la figura del professor Meitei, probabilmente il più riuscito di tutti i personaggi umani, la cui lingua è tanto raffinata, leggera ed elegante quanto impietosa verso le sciocchezze e la stupidità. Per contrappasso, Natsume non ne nasconde una certa vanità di fondo che mette a nudo l'inconcludenza del cinismo, per quanto intelligente e acuto possa essere. Di nuovo e di nuovo un atteggiamento duplice, che si conferma non essere un segno di ambiguità, ma di completa, serena ed equanime accettazione della realtà. Profonda comprensione di essa.

Dai dialoghi dei protagonisti, quasi rappresentazioni teatrali, si ricava inoltre un ritratto dettagliato della società giapponese nel pieno del suo trapasso alla modernità. Il romanzo è del 1905-06; se non l'iniziatore della letteratura giapponese moderna, Natsume è stato il suo maggior rappresentante dell'era Meiji, quando il Giappone si è scrollato il medioevo di dosso e si è posto alla rincorsa dell'Occidente. E tale problematica è avvertibile lungo tutto il corso del romanzo. Non è un misoneista in linea di principio Natsume (come avrebbe potuto? Era un insegnante di inglese), e al di sotto della malinconia e della nostalgia di un Giappone che andava sparendo o era già sparito non si avverte nulla di così facile e banale come la moralistica condanna del nuovo a fronte dei valori (sempre e comunque migliori) del tempo andato. E’ ancora una volta l’equanimità con la quale si pone dinnanzi all’oggetto delle sue considerazioni a fare la differenza. A rendere la sua vista per certi versi profetica. Natsume individua con lungimiranza i nodi che verranno al pettine di questo “nuovo” Giappone. Vi è piena consapevolezza dell’inevitabilità del prezzo da pagare per la modernizzazione del paese, e dei benefici di essa. Tuttavia vi è anche un rimpianto che non è nostalgico, ma pienamente conscio, per quegli aspetti della morente civiltà giapponese che non sono/erano vuotamente tradizionali quanto invece caratteri fondanti di un’identità antropologica molto più e prima che nazionale. Un ancoraggio profondo al sé senza il quale ogni essere umano rischia la deriva.