venerdì 31 luglio 2009

[fantascienza] I contemporanei - Tipi diversi di oscurità (Different kinds of darkness - 2000) di David Langford (1953 - )


Immagini troppo orribili perché lo sguardo umano le sopporti. Il tema, di ascendenza quanto meno lovecraftiana ed evidenti connotati orrorifici, è passibile di usi e interpretazioni molteplici; e in mani abili non può mancare di appassionare. Langford, fisico di formazione, imbastisce una storia esclusivamente (fanta)scientifica, senza curarsi dei possibili riflessi horror se non brevemente nell'eccellente incipit del racconto, come pura coloritura di atmosfera. Disquisendo con amabilità di ottica, matematica e neurofisica, in poche pagine sa fondere le suggestioni di un classicissimo plot fantascientifico (problema/studio del problema/soluzione del problema) e di una non meno classica avventura di iniziazione adolescenziale.

Protagonisti del racconto sono i membri del Club del Tremito, Jonathan, Gary, Julie e il loro leader Khalid. E l'oscurità. Siamo in un futuro, probabilmente non troppo lontano, dove all'esterno degli edifici - ma a volte anche in reconditi locali interni - si vive immersi in una oscurità densa e spessa che inibisce ogni vista ed è impermeabile a qualunque fonte di luce. Quanto meno i giovani vivono questa situazione, perché gli adulti paiono non essere impediti da tale oscurità, o non esserlo sempre e in modo eccessivo. Le varie chiacchiere scientifiche dei ragazzi partono da qui, e da un disegno trovato casualmente in una fotocopiatrice della loro scuola: un'immagine troppo orribile perché un essere umano la sopporti, come minimo senza soccombere a un tremito incontrollato. La sfida del Club, che da ciò prende il nome, è di sopportarne la vista, e per riuscirvi i ragazzi si sottopongono a progressive e sempre più prolungate esposizioni all'immagine.

Tra ipotesi di configurazioni visive che disturbano o inibiscono le funzioni neurocerebrali fino a giungere al blocco mentale e alla morte, e la possibilità di mitridatizzare la mente dai loro effetti, è divertente seguire lo scioglimento della vicenda attraverso lo sci-bubble di Langford. Forse è però più interessante l'ambiente sociale che egli descrive, con terroristi "anarchici" che si servono delle immagini mortali per terrorizzare e mettere sotto scacco il pianeta, e una società che sa reagire solo moltiplicando le strutture di controllo e manipolando a fondo l'essere umano (ma, forse, ancora aperta a soluzioni innovative e ragionevoli). Sono solo brevi accenni, ma netti. A ciascuno le sue conclusioni.

Il racconto è parte di una serie che l'autore va scrivendo da anni, e di cui non credo sia giunto altro in Italia; tuttavia funziona benissimo a sé. Langford ha una scrittura molto semplice, priva di grandi risorse stilistiche, ma che rende bene le situazioni descritte. Come dicevo, Tipi diversi di oscurità è una storia di impianto classico, sia come trama e personaggi che come stile di scrittura, ma con un occhio attento agli interessi della fantascienza più recente, alle frontiere della manipolazione dell'informazione e delle coscienze, all'ibridazione uomo/macchina e alle sue conseguenze psicologiche e sociologiche. Senza esagerare: la componente avventurosa rimane prevalente, insieme al gustoso sfarzo delle varie ipotesi scientifiche e pseudoscientifiche. Il tutto organizzato come un meccanismo a orologeria e narrato di conseguenza, al punto da meritarsi nel 2001 il premio Hugo per il miglior racconto breve. Come tale, è apparso in Italia sulla raccolta dei premi Hugo 1999-2001 pubblicata dalla Nord, quando ancora pubblicava fantascienza :-/. In origine era apparso su Fantasy&Science Fiction, una delle più importanti riviste americane di sf.

David Langford è pochissimo noto in Italia, ma nei paesi anglosassoni è una sorta di istituzione. Britannico, è uno storico membro del fandom e da decenni pubblica una delle fanzine più seguite e famose. Da almeno trent'anni pubblica copiosamente racconti e romanzi, in netta prevalenza su pubblicazioni semi-professionali e amatoriali. E in tale doppia veste di superfan e scrittore amatoriale ha ricevuto carrettate di premi.

sabato 25 luglio 2009

[fantascienza] Il classico - Ritorno su Terra (Earthscape 1982) di Robert F. Young (1915-1986)


Non c'è nulla di più sfuggente della fantascienza. Per il profano è un cumulo di scemenze che si occupa di alieni verdi, robot impazziti ed effetti speciali cinematografici; alcuni profani si spingono, quando gli si propongono esempi di cosa possa essere, al rifiuto caratterizzato dal classico "Vabbe', ma questa NON è fantascienza!". Non lo sarebbe perché l'elemento fantascientifico sarebbe puramente accessorio laddove la storia tratterebbe essenzialmente di altro, ad esempio di riflessione sociologica (Il mondo nuovo o Il Signore delle Mosche); oppure perché sotto una sottilissima patinatura fantascientifica l'impianto sarebbe realistico (Preludio allo spazio). Per il fan è un Santuario caratterizzato da Sacre Regole; ogni fan ha le sue, ma entro certi limiti vi è una flebile, ma non troppo, comunanza di visioni: che sia il mitizzato sense of wonder o altro, la fantascienza deve differenziarsi nettamente dalla letteratura realistica. Il che pare ovvio (ma forse non è così vero, chissà).

L'intemerata qui sopra me l'ha ispirata la lettura del racconto di Young. Probabilmente metterebbe d'accordo tanto il profano che il fan: entrambi non lo considererebbero fantascienza, per eccesso di realismo. Realismo ad onta del fatto che il protagonista sia un reduce da un lungo periodo di lavoro alla costruzione della prima colonia umana stabile su Marte. Potrebbero aver ragione. Apparentemente. Il breve racconto, infatti, date per poste dette premesse, si dipana tra il racconto di costume e quello psicologico e d'amore. In realtà esso tocca il cuore, il punto nevralgico della fantascienza. Il suo nucleo: il sogno. La natura del sogno. E cos'altro è, cos'altro può essere la fantascienza se non la risposta più profonda al bisogno dell'uomo di sognare, di immaginare, di concepire una vita altra dalla propria? Una traduzione letteraria della propria inquietudine, e della sua curiosità per l'incognito. In modo schematico, data anche la brevità del racconto, Young pone il suo protagonista nella necessità di scendere davvero dentro sé stesso e comprendere quali siano i propri sogni, le proprie aspirazioni: in ultima analisi la propria identità. Protagonista che era andato su Marte perché i dieci lunghi anni della grama e dura permanenza gli avrebbero permesso una nutrita serie di privilegi una volta tornato sulla Terra. Nientemeno che di "sistemarsi": impiego statale garantito, magari in un comodo ufficio postale come auspica suo padre, e uno status di quasi-eroe abbastanza matto da essere stato su un sasso nello spazio al cui confronto la vecchia frontiera americana sarebbe un agriturismo perfettamente organizzato. Neil, il protagonista appunto, ora desidera la prospettiva apaticamente; come in modo apatico torna a frequentare Judy, un'ex fidanzata dei tempi della scuola ritrovata divorziata con tre figli, e desiderosa di ritentare la vita familiare e costruire un'esistenza perfettamente borghese, perfettamente prevedibile, sicura. Un'esistenza americana da sit-com viene da dire. Un'esistenza che egli accoglie con progressiva freddezza, quella stessa freddezza che percepisce quando ha a che fare con Judy e i suoi marmocchi, che pure lo adorano, e sono una vera cartolina dagli Stati Uniti. E' questo il sogno per cui ha lavorato per anni su Marte come una bestia da soma? Pat, ex spogliarellista, spirito libero, incontrata al bar dove lo porta il padre al suo ritorno da Marte e che lì lavora come barista, è forse l'innesco della riflessione sulle proprie aspirazioni, su ciò che egli davvero vuole, su quale sia la vita di cui ha bisogno. Se risponde alla schematicità di cui dicevo il fatto che i due si innamorino e decidano di tornare/andare su Marte, non vi è nulla di schematico nella maturità con cui Young presenta narrativamente l'evento, conducendo l'uomo e la donna a una decisione del tutto consapevole, e del tutto indipendente l'uno dall'altra: non è il loro innamorarsi a spingerli verso Marte e la dimensione "avventurosa" che esso rappresenta, ma è la coscienza infine chiara dei loro desideri, progetti e aspettative che li conduce a trovarsi e innamorarsi. E se Pat ha certamente stimolato la riflessione dell'uomo sui suoi bisogni reali, è indubbio che egli abbia canalizzato in una direzione infine netta e chiara la nebulosa dei sentimenti e la vita vagabonda della donna.

La storia potrebbe funzionare benissimo allo stesso modo se fosse un racconto su un emigrante di ritorno al paese natale da una terra lontana e avvolta quasi nel mito, potremmo immaginare un italiano di ritorno dalla Terra del Fuoco alla fine del XIX secolo: apparentemente nulla cambia, e il profano e il fan hanno ragione. Eppure a me pare che cambi la prospettiva: storicizzando, si sottrae quello che è l'elemento più caratteristico della letteratura del possibile, l'idea appunto della possibilità. Dell'ipotesi. Introdurre Marte invece della Terra del Fuoco introduce da subito l'elemento ipotetico, predispone psicologicamente a riflettere su qualcosa che non è ricordo, dato storico e realtà, ma al converso rappresenta una proiezione e quindi un'elemento speculativo sull'ignoto. Naturalmente, storicizzando si ha invece il vantaggio di individuare entro coordinate culturali e temporali precise la vicenda. Sono due strategie diverse ed entrambe stimolanti e ricche di implicazioni. Young è abile nel costruire una storia intimamente fantastica e di fantascienza, rivestendola di un realismo autentico nel delineare i caratteri umani. Un realismo a-storico, direi, rappresentando le due eterne tensioni dell'uomo tra sicurezza e irrequietezza.

L'abilità di Young nasce dal suo stile e dalla misura controllata della sua scrittura, che in genere viene definita come "poetica" e "romantica". Definizioni che quasi sempre non definiscono un emerito fico secco ;-), o peggio fanno pensare a sdolcinatezze e svenevolezze varie. Ecco, no. Il vero romanticismo e la vera poesia possono essere duri e scabri, come venati di un lirismo che nulla ha di fievole e zuccherino ed è invece ardore e se necessario dolore. C'è un breve frammento di Saffo che credo renda chiaro a perfezione cosa siano un genuino afflato romantico e la poesia autentica:
E' tramontata la luna
insieme alle Pleiadi
la notte è al suo mezzo
il tempo passa
io dormo sola

Young non è ovviamente Saffo, ma anche egli sa come toccare le corde delle emozioni del lettore senza alcuna concessione alla corrività di queste: lavora in profondità, Young, non in superficie.

Robert F. Young è un nome pressoché dimenticato in patria e pochissimo conosciuto da noi. Non identificabile con dei cicli, e autore in un trentennio abbondante di carriera di una gran messe di racconti ma di solo un pugno di romanzi, le modalità della sua produzione e il suo essere scrittore appartato dal milieu letterario lo hanno predisposto in modo quasi naturale all'oblio; il che è un peccato. In Italia sono stati tradotti e pubblicati un certo numero di racconti sparsi qui e là in antiche antologie collettanee su Urania e più raramente altrove, oltre a due antologie personali edite in tempi eroici da Galassia. Che io sappia, non è stato tradotto nessuno dei pochi romanzi, che dalle date di pubblicazione negli USA debbono essere stati scritti dopo che Young andò in pensione dal suo lavoro "istituzionale" di bidello in una scuola pubblica. Compromesso tra sicurezza e irrequietezza, tra l'ufficio postale e il Marte del protagonista di Earthscape.

Il racconto fu pubblicato nel 1982 sulla Isaac Asimov's Science Fiction Magazine, e lo stesso anno è arrivato in Italia, sul n.11 della seconda incarnazione italiana della rivista, quella diretta da Vittorio Curtoni reduce dal fallimento (in senso editoriale...) di Aliens.

V.

martedì 14 luglio 2009

[fantascienza] I contemporanei - Otto episodi (Eight episodes - 2006) - di Robert Reed (1956- )

Americano del Nebraska, Robert Reed ha ormai sulle spalle un'attività letteraria più che ventennale nel corso della quale ha pubblicato una dozzina circa di romanzi e una copiosa messe di racconti. Resta poco conosciuto qui da noi perché di quanto ha scritto è giunto poco in Italia, solo un certo numero di racconti e novelle sparsi per lo più nelle antologie periodiche dei Millemondi di Urania. E' un ospite molto frequente delle varie antologie annuali che raccolgono il meglio della narrativa breve di fantascienza, un merito in genere confermato dalla lettura dei suoi racconti apparsi anche in italiano. Come è il caso di questo, appena pubblicato sul più recente numero (il 57) di Robot.

Reed è un biologo di formazione, in genere molto attento al dato scientifico nella sua narrativa, e in particolare ai riflessi sulla società umana che le estrapolazioni scientifiche utilizzate nelle sue opere potrebbero avere. Ambientato a pochissimi anni nel nostro futuro, questo breve racconto è un buon esempio di questa caratteristica dell'autore, cui si aggiunge una riflessione soffusa di
leggerissima ironia sui meccanismi della società dello spettacolo in genere, e in modo particolare della televisione, delle sue modalità di produzione e fruizione. Il titolo si riferisce agli otto episodi di uno stranissimo telefilm americano di fantascienza, inizialmente così sottovalutato e in apparenza mal fatto, da essere cancellato dopo soli otto episodi di programmazione. Ispirandosi sicuramente alle sorti della serie originale di Star Trek, assurta a mito qualche anno dopo
essere terminata, Reed mostra come un pubblico ristretto ma appassionato e altamente qualificato - tutti scienziati - decreti a posteriori il successo di Invasione di un piccolo pianeta. Con uno stile piano e quasi ipnotico, Reed architetta abilmente il parallelo tra il destino del serial e il progressivo nascere e poi svilupparsi del dubbio che dietro di esso vi sia davvero un'invasione aliena. O più correttamente, forse, una "visita" da parte di inattesi ospiti antichissimi. Visita molto sui generis, per altro. Il tema, che sia l'invasione vera e propria in stile marziani di Wells o meno, è dei più antichi e caratterizzanti della fantascienza, ma Reed riesce a trattarlo con un timbro molto personale ricavandone un racconto quasi sardonico; di certo in grado di stuzzicare vivacemente la curiosità del lettore e fargli inarcare un sopracciglio divertito. Costruendovi attorno un'ipotesi affascinante, semina il dubbio se effettivamente si
tratti di un'invasione/visita, o se invece non sia un pacifico modo per scongiurare visite (o peggio) da parte nostra. Reed non lo dice, ma tutti sappiamo come non sia molto igienico suscitare la curiosità degli umani; foss'anche per mostrar loro che una cosa è impossibile ;-).

Nell'economia delle poche pagine di Otto episodi Reed riesce a fare davvero molto. Sviluppa in chiave attuale un plot classico e assai visitato del genere; offre un flash satirico molto acuto sui meccanismi dei nostri divertimenti televisivi; crea un'effetto di divertita e divertente storia nella storia. Fa appassionare alle stranezze di Invasione di un piccolo pianeta, dei suoi personaggi mille miglia lontani dagli standard televisivi di maggior (e miglior)
successo. Un racconto cui calza a pennello la definizione di speculative fiction coniata a suo tempo da Heinlein e che la ricchezza di suggestioni compresse nella sua brevità rende sfizioso da leggere, come un assaggio delle potenzialità della fantascienza. Un piccolo, grande racconto.

giovedì 9 luglio 2009

Sublime nulla: Io sono un gatto, di Natsume Sōseki (1867-1916)

Accantono momentaneamente la fantascienza per la bellezza e l'eccezionalità di questo romanzo, il primo di Natsume Sōseki (nom de plume di Natsume Kinnosuke).



E' possibile scrivere per cinquecento pagine senza dire nulla? Di sicuro molti scrittori di bestseller e di fumetti alla moda vi riescono. Però si può essere a tal punto abili da dare l'apparenza di farlo. Io sono un gatto sembra non raccontare nulla per le cinquecento pagine del suo fluviale fluire di pagina in pagina, al ritmo lento e torpido dei pigri, svagati giudizi con cui il felino protagonista contrappunta di svagata e a volte bislacca saggezza il suo osservare gli uomini e i loro comportamenti e pensieri. E' l'effetto ipnotico e sviante dello stile narrativo di Natsume: una scrittura che in origine è immediato figurarsi come musicale e seducente, un inseguirsi di arabeschi verbali a comporre una tela magica dentro la quale idee, sensazioni e impressioni si rincorrono, intarsiano, nascondono alla vista dei lettori per poi farsi ritrovare da quelli più attenti. La traduzione lascia scorgere quanto può di questo universo verbale e fonetico, e consegna intatta una capacità di narrare sublime. E' pura narrazione questo romanzo; nel senso di abilità di affabulare, avvincere, trasmettere il proprio pensiero e ancor più le emozioni, i moti dello spirito, e ogni loro minima sfumatura: perché la densità dei concetti, dei sentimenti, dell'analisi di sensazioni e idee, è in proporzione alla rarefazione dell'azione. Fino a comporre una realtà narrativa che pare naturalismo in presa diretta.

Davvero non accade nulla nel romanzo. Nulla di memorabile avviene nel corso dell'anno di vita di un gatto innominato che il romanzo racconta, privo com’è di una vera trama. Gatto che l’autore dota di un’umanità e, contemporaneamente, alienità, cesellate con cura maniacale: ogni parola ha un suo posto, un suo scopo, una sua funzione precisa nel libro. Attraverso gli occhi del gatto noi osserviamo però l'intera umanità dispiegarsi davanti ai nostri di occhi, rappresentata in modo esemplare e completo, fino alla minuziosità più estrema, dai membri della famiglia presso la quale il micio è ospitato. Insieme agli amici del capofamiglia, il professore di liceo nel quale Natsume ritrae sostanzialmente sé stesso, viene a formarsi un consesso che ci svela ogni piega più nascosta dell'animo umano - del nostro animo. Non esce bene, l'umanità, dalle osservazioni a volte lunari del gatto di casa. Eppure non solo non si scorge moralismo alcuno o condanna, ma sotto traccia è perfettamente percepibile una simpatia, quasi un amore per noi creature così imperfette e quasi sempre sgradevoli. Un umanesimo, che grazie allo strumento principe di un'ironia tanto sottile e impalpabile quanto pervasiva e in grado di impregnare ogni pagina del libro, mostra gli esseri umani con una serenità ed un'equanimità difficilmente riscontrabili altrove. Un'ironia che si fa satira elegantissima in alcuni personaggi dai quali Natsume lascia trasparire il suo sguardo tra pungente e amorevole nei confronti della filosofia zen, e più in generale della pensosità e sentenziosità di certo tipo di intellettuali orientali; efferata al riguardo, la figura del professor Meitei, probabilmente il più riuscito di tutti i personaggi umani, la cui lingua è tanto raffinata, leggera ed elegante quanto impietosa verso le sciocchezze e la stupidità. Per contrappasso, Natsume non ne nasconde una certa vanità di fondo che mette a nudo l'inconcludenza del cinismo, per quanto intelligente e acuto possa essere. Di nuovo e di nuovo un atteggiamento duplice, che si conferma non essere un segno di ambiguità, ma di completa, serena ed equanime accettazione della realtà. Profonda comprensione di essa.

Dai dialoghi dei protagonisti, quasi rappresentazioni teatrali, si ricava inoltre un ritratto dettagliato della società giapponese nel pieno del suo trapasso alla modernità. Il romanzo è del 1905-06; se non l'iniziatore della letteratura giapponese moderna, Natsume è stato il suo maggior rappresentante dell'era Meiji, quando il Giappone si è scrollato il medioevo di dosso e si è posto alla rincorsa dell'Occidente. E tale problematica è avvertibile lungo tutto il corso del romanzo. Non è un misoneista in linea di principio Natsume (come avrebbe potuto? Era un insegnante di inglese), e al di sotto della malinconia e della nostalgia di un Giappone che andava sparendo o era già sparito non si avverte nulla di così facile e banale come la moralistica condanna del nuovo a fronte dei valori (sempre e comunque migliori) del tempo andato. E’ ancora una volta l’equanimità con la quale si pone dinnanzi all’oggetto delle sue considerazioni a fare la differenza. A rendere la sua vista per certi versi profetica. Natsume individua con lungimiranza i nodi che verranno al pettine di questo “nuovo” Giappone. Vi è piena consapevolezza dell’inevitabilità del prezzo da pagare per la modernizzazione del paese, e dei benefici di essa. Tuttavia vi è anche un rimpianto che non è nostalgico, ma pienamente conscio, per quegli aspetti della morente civiltà giapponese che non sono/erano vuotamente tradizionali quanto invece caratteri fondanti di un’identità antropologica molto più e prima che nazionale. Un ancoraggio profondo al sé senza il quale ogni essere umano rischia la deriva.

mercoledì 24 giugno 2009

[fantascienza] I contemporanei - Anatomia umana (Anatomia humana, 1993), di Carlos Chernov (1953- )



Scritto tempo fa, doveva apparire sul Corriere della Fantascienza ma poi ebbero non ricordo quali problemi e perdettero tutti i dati. Io non rimandai l'articolo. Viene buono ora :-).

La defunta collana AvantPop della Fanucci non ha presentato solo fantascienza; rappresentando il primo tentativo della casa editrice di allargare il proprio orizzonte oltre il campo in cui era nata. Non solo fantascienza, si diceva, ma sempre e comunque libri flippatissimi, dove flippato è un complimento: libri visionari.

Anatomia umana è l'una e l'altra cosa, comunque: flippato romanzo visionario e storia di fantascienza, pur senza un grammo di scienza o una minima spiegazione scientifica.

Carlos Chernov è argentino e psichiatra, queste le sole notizie che si ricavano dal libro; la rete soccorre facendo scoprire che è nato nel 1953 a Buenos Aires.

Anatomia umana è una storia di fantascienza molto classica, per certi versi, e sempre per certi versi la sua struttura e i suoi sviluppi sono altrettanto classici. Per altri versi è quanto meno bizzarra.

E' la storia di una catastrofe su scala planetaria (molto classico), la morte improvvisa e senza motivo - senza un motivo che il romanzo spieghi né prima né dopo - della quasi totalità degli uomini: intesi come sesso maschile e non come genere umano (appena un po' meno classico).



E' una storia con più di un piano di lettura, e tutti variamente inquietanti. Il primo e più ovvio è quello della pura finzione narrativa, dove incontriamo questo classico racconto catastrofico che si fa disturbante nell'insistita ossessione per il corpo: in ossequio al titolo il corpo umano è putrefatto, dissezionato, disperso, squartato, mutato, offeso, vilipeso e di converso conservato, glorificato, adorato; in tutto e ancor più nelle sue parti. Odissea stracciona, racconto picaresco di follie e di esperimenti biologici che non hanno nulla di scientifico e sono pura magia mitologica: una teoria di “visioni pericolose”, come potrebbe dire Harlan Ellison, di un tipo molto materiale e concreto, ma non per questo meno in grado di suscitare un disagio sottile, tanto sottile da scavarsi una strada in grande profondità nella sensibilità del lettore. Feticismo delle carni.

Una seconda lettura la dà l'affresco sociale, o meglio a-sociale, che emerge. E' una società malata quella che collassa, ma non appaiono certo più sane le società che provano a nascere in seno a questa nuova umanità (e certo Chernov non è molto femminista) e sembrano più una crescita tumorale, una proliferazione che sopravvive per follia, inerzia o semplicemente perché non c'è alternativa. Ritratto della catastrofe in una porzione di Argentina, Anatomia umana assume con naturalezza respiro universale, e riconoscere tutto il genere umano come fosse racchiuso nel suo fazzoletto di pianeta è inevitabile ancor prima che facile. E se certo non è femminista, Chernov, nel suo mostrare la follia alla quale si abbandonano le donne abbandonate, il venir meno della razionalità e l'affiorare dell'istintualità più grezza, ancor meno è tenero con i maschi sopravvissuti, che naufragano miseramente posti di fronte alla necessità di ripensare e ridefinire la propria identità all'atto del grande scompaginarsi dei generi e dei ruoli.

Un ulteriore livello, ancor più affascinante, visionario e pericoloso, si nasconde in questo romanzo. In parallelo con il disfacimento dei corpi e delle strutture umane, ma anche in intima congiunzione e comunque mai in contrapposizione con esso, possiamo leggervi il progressivo venir meno della mente umana di fronte a una catastrofe che la costringe a confrontarsi con la propria identità oltre ogni possibilità di riconoscersi; un distaccarsi dalla realtà, dall'esistenza e infine da sé fino al collasso: attraverso il cervello la mente è parte integrante e sovraordinata dell'anatomia umana. L'allegoria è da sempre pane quotidiano della fantascienza, fin da quell'atto di nascita che fu Frankenstein, e circa 150 anni più tardi James G. Ballard aprì alla speculazione fantascientifica le porte della psiche proprio attraverso lo strumento estremo della catastrofe. Chernov padroneggia la materia perfettamente, senza lasciare angoli nascosti e senza aver timore di mostrare cosa si nasconde in quelli più bui.

L'assimilazione di questa complessa architettura è possibile - e appassionante, anche se appassionante non è forse un termine che molti utilizzerebbero - grazie a uno stile di scrittura che è al tempo stesso più e meno che oggettivo. Meno perché l'accumulo dei dettagli spietati, desolanti e disperati finisce per provocare raccapriccio e pena ad onta del distacco sovrano della scrittura; più, perché quello stesso accumulo raggiunge comunque, infine, il suo effetto anestetizzante, permettendo di osservare tutto attraverso la lente di una lontananza emotiva sempre maggiore dalla materia narrata, e un sempre maggiore interesse scientifico.

martedì 9 giugno 2009

Soldati (mio raccontino di fantascienza, scritto qualche mese fa)

Soldati

Colpì con rapidità, efficacia, violenza. Quattro volte. Senza crudeltà. Era un marine, un Soldato; era stato addestrato a uccidere, non aveva sentimenti al riguardo. Né si poneva interrogativi. Uccidere era colpire con rapidità, efficacia, violenza. Era stato addestrato a riconoscere il bersaglio e rimuovere l'ostacolo che rappresentava, le questioni di filosofia non appartenevano al suo orizzonte mentale. Osservò i quattro cadaveri inturbantati con equanimità, senza curiosità. Prese una cartina e del tabacco, si arrotolò una sigaretta e l'accese con lo Zippo. Fumò con calma, attento all'ambiente circostante. Sabbia e aridità, sole a picco, calore. Terminò di fumare, risalì sulla Jeep, la mise in moto e partì.

Nel campo, tecnologia, in ogni forma. Armi, strumenti di comunicazione, mezzi di trasporto. La loro lucentezza abbagliava. Incutevano timore gli armamenti; inorgogliva la modernità, la potenza, l'efficienza di quegli apparati. Il Soldato osservò quello schieramento di ricchezza, quell'esibizione di forza, quella manifestazione di progresso. Se ne compiacè quietamente.

- E' successo qualcosa mentre ero in missione?
- Nulla, signor capitano.
- I prigionieri?
- Sono tranquilli.
- Non hanno detto nulla.
- Nulla?
- Non una parola, Signore. E del resto credo parlino solo arabo, chi li capisce i biascichii di quei beduini!
- Non possiamo aspettare che ci mandino un fottuto interprete, dobbiamo fargli schizzare fuori tutta la merda che hanno dentro, non importa come.

- Sissignore.
- In libertà, Sergente.
- Ah, Signore, dimenticavo: un messaggio radio ha comunicato che è segnalato un oggetto oltre l'orbita di Marte. Ipotizzano un piccolo asteroide, o forse una piccola cometa nomade, ma non sono sicuri.

- Questo ci dovrebbe forse riguardare?
- No, Signore, ma è la sola cosa accaduta durante la sua missione.


Il Capitano grugnì, si voltò e si diresse alla sua tenda. Entratovi, si sdraiò sulla branda e arrotolò una sigaretta. I prigionieri erano importanti per la sua missione, e per quella di tutta la Compagnia al suo comando. Le informazioni in possesso dei prigionieri.

"Non è possibile ritardare oltre la missione", pensò. "Se i due beduini non parlano entro domani mattina, la missione proseguirà comunque. Darò ordine di fucilarli".

"Oggetto volante non identificato oltre l'orbita marziana. Bah."

Il Capitano consumava una cena frugale portatagli dal suo attendente. Era stato addestrato a nutrirsi, non a mangiare. Nell'ingerire il cibo, i gesti erano improntati a meccanica efficienza, come se montasse o smontasse una pistola. I pensieri si soffermavano sui dettagli della missione, sulle azioni da intraprendere all'indomani. "In primo luogo far svolgere l'esecuzione dei prigionieri, poi disporre i veicoli per la partenza…"; un pensiero balenò incongruo, rivolto all'oggetto volante non identificato. Il Sergente gli aveva comunicato prima di cena che era dato tra Marte e l'orbita terrestre. Scosse la testa, ingerì l'ultimo boccone, depose le posate e si pulì la bocca.

Il Capitano dormì di un sonno di piombo, risvegliandosi alle 05.00 in punto. Si vestì, schiuse l'apertura della tenda e uscì. Il Sergente lo notò, e si diresse alla sua volta. Appariva agitato. Il Capitano lo prevenne:

- Dopo, Sergente. E' necessario far svolgere subito l'esecuzione dei prigionieri.
- Signore, l'oggetto volante non è stato più rintracciabile dopo il suo ingresso nell'atmosfera terrestre, un'ora fa.
- L'attrito dell'atmosfera lo avrà consumato. Non c'è tempo da perdere, Sergente.
- Ma…
- Non c'è tempo da perdere.


Il Sergente chiamo tre soldati e si diresse alle carceri improvvisate.

I due prigionieri caddero, colpiti con precisione.

I preparativi per smontare l'accampamento fervevano tutt'intorno; il Capitano, immobile, voltava il capo da una parte all'altra. Sole, sabbia, calore. Vuoto ovunque.

Cinquecento metri circa davanti a lui, l'aria sfarfallò. Effetti del deserto. Poi sembrò sintonizzarsi, e acquistò corporeità. Un oggetto apparve, lungo non meno di un kilometro. Nero, metallico, estraneo. Totalmente estraneo. Un'intera gigantesca parete del manufatto si sollevò; apparve una fila continua di esseri bipedi, incapsulati in tute dai riflessi argentati. Avanzarono. In mano avevano oggetti che apparivano come armi.

La sorpresa aveva bloccato il Capitano e gli uomini della Compagnia. Gli esseri giunsero a poco più di cinquanta metri. Erano alieni.

Erano soldati. Erano stati addestrati a individuare il bersaglio e rimuovere l'ostacolo da esso rappresentato. Non si ponevano interrogativi né avevano sentimenti al riguardo.

Ed erano più potenti, più rapidi, più efficienti del Capitano e dei suoi uomini.

domenica 3 maggio 2009

[fantascienza] Precursori - La voce nella notte (The voice in the night - 1907) di William Hope Hodgson (1877-1918)


Centodue anni, ma una freschezza ancora invidiabile. Forse è il fascino delle avventure di mare, la simbologia sottesa a un ambiente che è estraneo all'uomo e pericoloso, ma lo attrae con forza; creando in tal modo una mitologia - e un impulso mitografico - caratterizzati da potenza dell'immaginazione e fascinazione del pericolo. Lo stile risente in parte del tempo trascorso; un'enfasi retorica che oggi appare eccessiva e in qualche misura infastidisce nella lettura fa bella mostra di sé nelle pagine del racconto. Tuttavia Hodgson si dimostra narratore abile e sicuro, perfettamente in grado di avvincere il lettore con una storia che si rivela ancora godibilissima grazie a una lingua chiara, descrittiva, ed evocativa; grazie a dialoghi semplici ma carichi di pathos.

Quello di Hodgson è stato un nome importante nella letteratura fantastica popolare all'inizio del XX secolo. L'autore britannico è noto soprattutto per i romanzi The House on the borderland e The Nightland, e per il ciclo di racconti sul detective dell'occulto Carnacki. The voice in the night è di gran lunga la sua storia breve più nota, e dà conto molto bene della fama dell'autore. Trasposto due volte per il cinema (Matango: Attack of the Mushroom People di Inoshiro Honda, e Suspicion, in realtà un tv-movie con James Coburn); e in un episodio di Alfred Hitchcock presenta, il racconto è lineare, semplice, quasi descrittivo. "It was a dark, starless night" è il prosaico e perfetto incipit, che prosegue con la rapida evocazione di un'atmosfera di attesa presaga, la descrizione di una piccola imbarcazione immobile nell'immensità desertica dell'oceano, immersa in una nebbiolina indistinta. Grazie anche all'efficacia di questo stile, pur se inficiato da un tono che oggi ci appare permeato da una sovrabbondanza di sentimentalismo, il lettore può apprezzare una narrazione priva di orpelli e centrata sulla sostanza: Hodgson racconta una storia, senza preoccuparsi di fare grande arte o di architettare complesse sovrastrutture letterarie. Però racconta molto bene. Perché non starà architettando, ma maneggia con competenza, gusto e incisività il patrimonio mitico del viaggio, e del viaggio per mare, che è il cuore della Grande Avventura. E con esso mostra di far uso con sapienza, da smaliziato produttore di storie per i pulp magazines di entrambe le sponde dell'oceano, dei meccanismi del racconto del mistero, dell'orrore, e di fantascienza. Fantascienza che allora non esisteva, di nome, ma esisteva in gran copia di storie sulle pagine di quelle riviste, che furono il terreno di coltura da cui essa si sarebbe dipartita come genere commerciale a sé.

Increspato di corpose venature orrorifiche, e in particolar modo caratterizzato da un tono di attesa, di angoscia e di progressivo raccapriccio (fino al brevissimo disvelamento finale), The voice in the night resta in tutto e per tutto una storia di fantascienza. Il racconto si inserisce nel filone dei misteri - e orrori - naturali, figlio diretto di una scienza che spiega sempre di più, ma negli interstizi della quale restano pur sempre quelle zone d'ombra dove lavora la fantasia dell'uomo, e dove si sprigionano le sue paure dettate da un controllo sulla natura che gli si rivela inconsistente nonostante le sue conoscenze. Dopo Linneo, la classificazione sistematica delle specie viventi è stato uno strumento eletto di controllo, e ancor più di conoscenza e quindi appropriazione della natura. Ancora oggi, ogni giorno o quasi, scopriamo l'incompletezza di tale lavoro, e scopriamo che questa incompletezza è probabilmente più vasta di quanto pensassimo. Vi è dunque ampio spazio per un racconto di fantascienza di un secolo addietro che immagini un fungo, un lichene (Hodgson utilizza entrambi i termini) che si rivela un parassita tanto aggressivo da mutare orrendamente gli esseri umani, e anche una droga in grado di influenzarne le azioni: un virus del corpo e della mente. Will e George, i due marinai della piccola imbarcazione bloccata dalla bonaccia, raccolgono da una "voce nella notte" una disperata richiesta di aiuto: cibo per l'uomo cui appartiene la voce e per la sua compagna, naufraghi su un'isoletta sconosciuta. Il naufrago, John, rifiuta di mostrarsi. In seguito, racconterà accorato ai due le vicissitudini vissute negli ultimi mesi, dal naufragio della nave sulla quale viaggiava all'approdo nell'isoletta, fino alla scoperta di tutta la portata della minaccia del fungo. John si allontana infine dalla barca di Will e George una volta terminato il suo racconto, andando incontro al suo destino. E' ormai l'alba, un raggio di sole squarcia improvviso la nebbia rivelandolo appena agli occhi dei marinai, virando un'ultima volta su un sentimento di pena e di pathos quella mestizia sui cui toni il racconto di John si era chiuso.

Semplice intrattenimento, ma tutto il mestiere di un narratore di grande abilità.

Il racconto fu edito in origine sul pulp The Blue Book Magazine; in Italia è stato pubblicato molte volte, da ultimo nell'Oscar Mondadori Il futuro era già cominciato, che ha tradotto l'eccellente antologia Science Fiction by Gaslight curata nel 1968 da Sam Moskowitz. Il racconto è disponibile online qui: http://gaslight.mtroyal.ca/voicenig.htm (se non dovesse funzionare: http://gaslight.mtroyal.ca./voicenig.htm)